Non è corretto processare le intenzioni, come si suol dire, né interrogare uno straniero nella propria lingua e pretendere che risponda, tuttavia è pressoché inevitabile esplorare il significato della rinuncia del mondo e della sua centralità nel monachesimo preso nel suo insieme (ammesso che ciò sia possibile). Dico solo «del mondo» perché non sono più sicuro che aggiungere «e di sé» debba essere automatico. La rinuncia, tramite il voto di obbedienza, all’espressione della propria volontà – concetto che richiederebbe un’analisi imponente del senso, delle forme e delle reali possibilità di quella «espressione» – è una dimensione sfuggente nel momento in cui non la si confina al campo ristretto della prassi all’interno di una determinata struttura (leggi: istituzione, congregazione, ordine, ecc.). Senza dimenticare il grande bivio tra azione e contemplazione, solo tralasciando il quale si può raccogliere nello stesso insieme generico chi passa le proprie ore nella scansione dell’ufficio divino e chi al servizio del prossimo (è una posizione laica, lo so).
È inevitabile, dicevo, affrontare l’ambiguità di quella rinuncia (anche se l’hanno già fatto in tanti prima). Che poi non è soltanto quella di alcuni monaci, ma è la mia, classica, quando, invece di agire, apro un libro. Ed è qui che, con una mossa che la dice tutta sulla mia ambiguità, appunto, riporto una considerazione di Horkheimer. Più che un «reperto», si tratta di una consonanza, o meglio una dissonanza.
È una vecchia storia, si potrebbe dire, si intitola Impotenza della rinuncia e comincia così: «Se non sei tagliato per il lavoro politico, saresti sciocco a pensare che ciò nonostante il tuo volger le spalle alla macchina generale dello sfruttamento potrebbe significare qualcosa». Il rifuto di partecipare alla «grande tortura» non è azione contro di essa, né «puoi riprometterti di far sì che un numero sufficiente di altri uomini imitino efficacemente il tuo modo di agire». I risultati derivano soltanto da «lunghe lotte storiche di portata mondiale», che più che di compassione hanno bisogno di «intelligenza, coraggio e capacità organizzativa» (e qui si potrebbe tornare agli ordini «attivi»). La terza via (e qui si potrebbe tornare agli ordini «contemplativi») è la non partecipazione, poiché «la consapevolezza dell’inefficacia della rinuncia individuale non fonda o giustifica affatto il contrario: la partecipazione all’oppressione. Essa significa soltanto che la tua purezza personale è irrilevante ai fini della trasformazione reale».
«Forse un giorno», conclude Horkheimer, «perdi semplicemente il gusto di passeggiare nei giardini pensili dell’edificio sociale, sebbene la tua discesa sia un fatto del tutto irrilevante.»
È una questione decisamente più grande di me.
Max Horkheimer, Impotenza della rinuncia, in Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931, traduzione di G. Backhaus, Einaudi 1977, pp. 93-4.
Interessante.
Chiaro che se si parte da una concezione utilitaristica della rinuncia se ne ricava che “non serva” agli altri e gratifichi il rinunciante stesso (anche la rinuncia a sè, che esiste eccome, è in fondo piacevole per chi la desidera).
Credo che però siano condizioni e scelte di vita che non si prestano ad un’analisi puramente umana e “mondana”.
Mi ricordi giustamente le forzature cui si va incontro cercando di capire certe cose applicando concetti che appartengono a un’altra sfera. Temo che sia un rischio che corro spesso qui. Da un lato mi auguro di non esagerare, dall’altro credo che gli “sconfinamenti di campo” talvolta siano utili (non parlo, ovviamente, delle mie note ma di riflessioni più serie).
Sperando di aver “colto” il post. Vorrei portare all’analisi la radice etimologica e una lettura filologica della rinuncia. Nel primo caso rinuncia è l’unione di re(nel senso di respingere) + nunzio (la notizia che proviene dall’esterno, il nunzio). Si tratta, se stiamo al suo etimo, dunque di un Atto di spinta. Rinunciare dunque è un atto agito (perdona il filosofismo) in un ambiente che “ad-nunzia” cioè che produce “notizie”, per traslato, che informa. Potremmo dire che dunque al nocciolo della rinuncia c’è una reazione all’informazione, cosi’ come è veicolata dagli strati del mondo tecno-logico (oggi ce ne sono diversi, nel medioevo vi era la parola e poco più). Questa reazione, per analogia, potrebbe essere paragonabile ai 40 giorni nel deserto, ad una tabula rasa, ad un’ epochè perenne (per dirla con Husserl), ovvero un respingere in continuazione l’informazione esterna, magari per lasciar spazio al formarsi e al manifestarsi di informazioni “interne”, provenienti dall’inner-scape?
E poi, secondo quello sopra, sulla impotenza della rinuncia la domanda fatidica è: quanto e cosa sei disposto a respingere?
Grazie delle tue considerazioni, Matteo.
Non ti avevo ancora risposto perché non so cosa aggiungere. Spesso anch’io sono tentato da certi intrecci linguistici. Qui lo spunto era l’emersione in un contesto completamente diverso di un termine centrale dell’esperienza monastica. Credo si tratti soltanto di una traccia delle mie associazioni mentali.