Pur avendone nozione sin dalla scuola media, non avevo mai letto nulla di Cornelis Jansen, cioè Giansenio. Così ho approfittato di una «recente pubblicazione», tanto più che si tratta di una predica pronunciata nel 1628 per la riforma di un monastero benedettino. Il Discorso sulla riforma dell’uomo interiore, inoltre, è considerato, insieme con altri testi, all’origine della «prima conversione» di Pascal, il quale lo lesse quasi vent’anni dopo e ne fu profondamente colpito (la sorella di Pascal parla di «terribili attacchi» durante i quali «poteva bere solo liquidi caldi, goccia a goccia, con grande difficoltà, a causa di uno spasmo e di una parziale paralisi della gola. I piedi e le gambe erano come morti e doveva indossare delle calzature imbevute di acquavite per riscaldarne a poco a poco il gelo marmoreo. Oltre a ciò era tormentato da terribili mal di testa e sentiva le viscere bruciare»).
L’invito rivolto ai «generosi atleti di Gesù» è anzitutto quello di interpretare correttamente il senso di «riforma», che non è dare una forma nuova, bensì recuperare quella originaria, come già ha fatto il Signore (che «ha preferito rifare il vaso che era caduto dalle sue mani, e ridargli la prima forma che gli aveva impresso, piuttosto che gettarlo via dopo che si era rotto o rompere i pezzi che ne erano restati e farne un altro completamente nuovo»), e ricordare che Cristo «è forma di ogni riforma». Per far ciò bisogna avere chiara coscienza della triplice fonte del male: sulla scorta della prima Lettera di Giovanni (2:16), Giansenio punta il dito contro concupiscenza, curiosità e superbia.
La concupiscenza, che ha come scopo la voluttà, si riconosce e si combatte facilmente, ma è comunque ingannevole, perché spesso nasconde sotto ciò che è giusto (mangiare per vivere) ciò che è male (mangiare per gusto). Dunque «è più facile negarsi del tutto i piaceri, anche quelli legittimi, piuttosto che accettarne qualcuno senza commettere molti errori».
La curiosità è una brutta bestia, perché, oggigiorno, «è stata mascherata sotto il nome di scienza». Così ci perdiamo dietro ogni cosa vana, vogliamo sapere, provare, conoscere, siamo malati di novità che inquinano il nostro spirito e ci allontanano dalle cose divine. Se uno esercita una funzione pubblica, argomenta Giansenio, è giusto che sia informato, «ma perché noi semplici cittadini, non coinvolti nel governo dello stato, dovremmo preoccuparci di sapere cosa succede in Asia o quali imprese formino la Francia o quale principessa il re di Polonia vuole sposare? E poi che bisogno abbiamo di essere informati su tutto quello che accade dentro e fuori del nostro paese, sulla terra o sul mare?» (Con buona pace di scienziati e giornalisti.)
Il nemico peggiore è la superbia, perché «in fondo all’anima è impresso un desiderio di indipendenza, nascosto nelle pieghe più segrete della volontà». Qui non si può che confidare nella grazia, perché da soli non ce la faremmo mai. Qui anzi occorre essere in qualche modo grati dei peccati e delle occasioni di sofferenza, perché non ci montiamo la testa e perché «il peccato dell’orgoglio si deve guarire con altri peccati». Siamo deboli, fragili, incostanti, perché dobbiamo imparare che lo siamo.
Più che un discorso è una blindatura, poche parole per forgiare uno scafandro in cui restare chiusi (e sordi e ciechi) in attesa dell’«eternità che brilla lassù». Ecco allora che le violente somatizzazioni di Pascal assumono un colore diverso, e la tranquillità d’animo con la quale io, cinque secoli dopo, chiuso Giansenio, continuo a leggere le notizie sul futuro presidente della Polonia è la figlia riconoscente, ancorché quasi inconsapevole, anche di quei «terribili attacchi».
Cornelis Jansen (Giansenio), Discorso sulla riforma dell’uomo interiore, a cura di E. Violo, Aragno 2012.