(la prima parte è qui, la seconda qui)
La seconda parte del volume è dedicata all’analisi delle otto «tentazioni», gli otto grandi nemici del combattimento spirituale («quei sentimenti e impulsi che affiorano nel cuore e nell’immaginario dell’uomo e lo seducono, cercando di farlo cadere in peccato»), secondo lo schema di Evagrio, che poi verrà trasformato in quello dei sette peccati capitali. La chiave di Enzo Bianchi, che intreccia con agilità e bravura riferimenti classici e moderni, è la lettura di questi otto «spiriti maligni» come «rapporti deformati che l’uomo intrattiene con le dimensioni essenziali della sua vita umana e spirituale». Dunque l’ingordigia deforma il rapporto col cibo, la lussuria con il corpo e la sessualità, l’avarizia con le cose (e soprattutto il denaro) la collera con gli altri, la tristezza col tempo, l’accidia con lo spazio, la vanagloria con il fare e l’orgoglio con Dio stesso.
La deformazione comincia col cibo, laddove il mangiare rischia di ridursi ad «animalità irriflessa, non ragionata», sia nella ricerca della quantità o dell’eccessiva qualità, sia nello stravolgimento dello strumento in fine, sia soprattutto nella dimenticanza che il cibo è dono del Signore e che quindi, come alimento di vita, dev’essere fonte di riconoscenza e amore (per questo quando si può si mangia insieme). Consumo consapevole, disciplina, eventualmente «digiuno moderato e intelligente», rendimento di grazie e comunione sono gli antidoti di questa tentazione. Si prosegue con la deformazione del rapporto con il sesso…
Mi accorgo che mi sto perdendo in una trattazione che, pur non accettando il quadro di riferimento in cui è inscritta, non posso certo sezionare alla ricerca di eventuali «punti deboli», e trovo più onesto riconoscere come la mancanza di forma, più che la «deformità», sia l’esito non tanto del combattimento spirituale quanto della semplice esistenza dell’individuo senza fede. Di me, quindi, che ho avuto e ho tutte le fortune, compresa quella di poter arzigogolare su tali questioni (con il classico contorno del senso di colpa).
Mi aggiro dubbioso tra una «faticosa purificazione degli istinti» e un rifiuto della «soppressione della distanza e alterità di chi ci sta di fronte», tra un «enorme super-io [mascherato] sotto le spoglie della generosità» e l’«arte di rimanere saldi, di pazientare e di non venir meno nell’ora cattiva», tra una «rimozione della morte per l’insostenibile pesantezza della sua realtà», l’accettazione delle «umiliazioni che ci vengono da Dio, dai noi stessi e dagli altri» e gli «attacchi del nulla» (i miei preferiti…) – mi aggiro e poi mi allontano, perché a ogni riga vorrei aggiungere una precisazione e pertanto mi riconosco colpevole soprattutto del «perfezionatore di tutti i mali»: l’orgoglio («se all’inizio l’orgoglio può essere un atto, una scelta libera e puntuale, con il tempo può diventare uno stile di vita e di comportamento, che rende l’uomo veramente luciferino, satanico»).
Mi allontano con un’ultima, orgogliosa ipotesi: quella di aver visto e vedere non soltanto deformità, e non soltanto mancanza di forma, bensì anche multiformità.
(3-fine)
Enzo Bianchi, Una lotta per la vita. Conoscere e combattere i peccati capitali, San Paolo 2011.
MI ha colpito molto il rapporto de “l’accidia con lo spazio”. Ho provato ad immaginarmi quali fossero le correlazioni, le analogie, quale fosse la reciprocità. La noia, l’indifferenza, lo spleen, una serie di termini che mettono nella direzione dell’apatia, della depressione. Un po’ pensavo alla malinconia o alla nostalgia, ma queste si rivelano più mobili del solito, possono far viaggiare coi ricordi (infatti il loro rapporto col tempo). Allora ho pensato all’accidia come rifiuto a muoversi nello spazio, all’inerzia, ad una forma illegale di contemplazione. Ho capito allora il rapporto con lo spazio.
Hai colto un punto che mostra in effetti una certa ambiguità; è forse il nesso meno chiaro. Lo stesso Bianchi osserva come “l’acedia sia una patologia che concerne anche il rapporto con il tempo”, e fa riferimento all'”instabilità”. Citando anche Sartre e Galimberti, Bianchi parla di mancanza di resistenza, di concentrazione, di perseveranza. Di perseveranza in un’attività, in un “luogo”, nella propria stessa esistenza come spazio abitato: l’accidioso è sempre altrove, “lontano” da se stesso.