[11 luglio, San Benedetto]
«Si può dire che l’obbedienza», scrive dom Paul Delatte a conclusione di La vie monastique à l’école de Saint Benoît, «riassuma tutto il cristianesimo.»
Abate dal 1890 al 1921 di Solesmes, la grande abbazia benedettina francese, sede tra l’altro della rinascita del canto gregoriano, Paul Delatte parla concisamente e profondamente dell’essenza della vita monastica, come spesso hanno fatto i monaci nel corso dei secoli, mossi forse dal bisogno, oltre che di regolare la propria esistenza, di ricapitolare, di spiegare, di precisare e di «elogiare» le ragioni della loro scelta; una scelta che si sentiva via via minacciata dal mondo, dalla società e dall’imperfezione degli esseri umani. (Non è un caso che periodicamente siano apparsi sulla scena del monachesimo riformatori che si sono richiamati alla «purezza delle origini», quasi che quella scelta portasse in sé, sin dalle origini, appunto, lo stigma della sua non praticabilità concreta.) Il breve testo è colmo di convinzione e ardore (il Novecento è appena cominciato) e consente un utile ripasso dei cardini della spiritualità benedettina. Mi dà modo, inoltre, di misurare, quanto meno sulle parole, il terreno che può separare irrimediabilmente un non credente da «queste anime che scelgono liberamente di rinunciare per Dio a tutto ciò che può essere di imbarazzo, di allontanamento o di ostacolo alla carità».
L’obbedienza, ad esempio, di cui non nego a priori qualsiasi declinazione, ma che nella forma qui esposta mi è difficile comprendere. Una difficoltà che nasce dalle parole stesse dell’abate, che fa discendere questo voto direttamente da Gesù, ma che poi è costretto, per così dire, a evocarne la radice di fede, «perché noi crediamo alla volontà di questo Dio che si nasconde nella persona dei superiori». Coloro che amano il Signore, prosegue l’abate, «non distinguono ciò che viene direttamente da Dio e ciò che viene sempre da Lui ma attraverso la mediazione degli uomini». E se la volontà dei superiori è chiara, quando ci si concentra su quella che viene direttamente da Dio, se si escludono le parole di Gesù, il discorso si fa più sfumato e nebuloso.
Il nemico da sconfiggere, ancora una volta, è «notre propre volonté», perché è dalla volontà che tutto dipende ed è dalla propria volontà che deriva tutto il male: «Il voto di obbedienza ci permette di rinunciare a essa, consegnandoci alla volontà di un altro, di un superiore, al fine di apprendere da lui la carità, la perfezione, l’arte di camminare verso Dio». Questo, forse un po’ ingenuamente, trovo singolare, questa adesione a qualcosa che si nasconde, questa contemplazione di qualcosa di invisibile, e la successiva, inevitabile necessità di rivolgersi a qualcuno che sia qui, visibile, e che dia indicazioni, udibili.
«La nostra vocazione è contemplativa, ma contemplativa dell’invisibile: noi viviamo sotto gli occhi di una Maestà che non percepiamo, il nostro sguardo è rivolto a una Bellezza che non vediamo, che non si mostra se non nascondendosi.» Perché non cominciare con ciò che è percepibile, perché non volgere lo sguardo verso la «bellezza» (e l’orrore) visibile? Perché ciò che è visibile è mortale, non permanente, scomparirà? Certo, scomparirà, e allora?
Paul Delatte, La vie monastique à l’école de Saint Benoît, Abbaye Saint-Pierre de Solesmes 1980.
Ogni potere deriva da Dio, la dottrina è esposta da San Paolo, quando afferma nella lettera ai Romani: “non vi è potestà se non da Dio” (Rm 13,1) e ribadita più volte nei secoli dal Magistero.
Ciò significa, tra l’altro, che i superiori sono una delle modalità tramite la quale la volontà di Dio si può manifestare ai sottoposti. Certo, non sempre è così, e allora è lecita la disobbedienza, ma c’è l’onere della prova.
In monastero, poi, l’abate tiene il posto di Cristo. Come distinguere la volontà di Dio dalla volontà dell’uomo?
Diciamo che l’obbedienza ci mette al riparo persino dagli errori dei superiori che, se sono di natura umana e non errori di dottrina, conferiscono maggior merito a chi continuasse ad obbedire fiducioso del fatto la propria volontà è fonte di superbia, mentre l’abbandono è sempre abbandono a Cristo.
Non a caso i gradini dell’obbedienza sono una parte così centrale e importante della Regola.
Se siamo onesti, sappiamo che l’altare alla volontà individuale innalzato dal nostro tempo è un altare alla superbia e alla sensualità, la volontà vera è quella che serve a sottomettersi a Cristo, non quella che serve a ribellarsi a un superiore che si è liberamente scelto (come è sempre un superiore in religione). La libertà vera è quella che ci fa scegliere il bene maggiore, quella illusoria ci lascia in balia di desideri e avversioni.
A proposito di gradini, il feed quotidiano alla Regola di san Benedetto propone: “L’ottavo gradino dell’umiltà è di quel monaco che non fa se non ciò che è suggerito dalla regola comune del monastero o dall’esempio dei maggiori (7, 55).
Non posso, né voglio, addentrarmi nella “questione del potere”, d., mi sento però di osservare che all’altro capo della demonizzazione della volontà individuale, e del relativo sacrificio che ne deriva, non deve esserci necessariamente l'”altare alla superbia e alla sensualità”. Sono esistite ed esistono vie alternative, alla base delle quali vi è la “trattativa” tra individui.
E poi, per tornare alla citazione di san Benedetto, per quanto sia attratto, anche concettualmente, dalle Regole, non posso non ricordare che grandi cose, per tutti, sono state realizzate da chi non ha seguito “l’esempio dei maggiori”.
E’ un discorso non semplice, ma nemmeno oscuro, che certo non voglio esaurire così.