Tra i molti motivi per i quali continuo a leggere i monaci, io, non credente, questo lo verifico spesso: prendi una pagina, togli la fede (a volte, con la matita in mano, mettendo tra parentesi qualche parola) e ti ritrovi un testo che puoi sottoscrivere. Anzi, ti ritrovi un’idea, meglio, un comportamento che vorresti vedere diffuso. Si può senza dubbio opinare che sia una «sottrazione indebita», che così si snaturi il significato di un pensiero, ma c’è qualcosa in questo meccanismo che secondo me mostra una possibilità. Quella della concretezza a oltranza.
Qui Benedetto (quello senza numero, non quello che ha scelto di portarne il nome) è d’obbligo. «Benedetto non compila nessun grandioso programma di pace», scrive Anselm Grün, «ma fa pace intorno a sé. […] Non parte in guerra contro nessuno e niente, ma per qualcosa, che poi non è neppure un qualche ideale o programma astratto, ma sono degli uomini concreti, quelli appunto della sua piccola comunità di Montecassino.»
Il tema è complesso, e ci sono questioni che non si possono «aggiustare» con un tratto di matita. Né sono privo di dubbi. Tuttavia sarei falso se non osservassi una cosa: a un certo punto ci dobbiamo salutare, non posso più seguirti, ma per un tratto mi è parso che parlassimo la stessa lingua.
(Anselm Grün, Benedetto da Norcia, San Paolo 2006.)