I due testi che ho messo a fianco oggi1 sono praticamente coevi, li divide un breve intervallo di trent’anni, sono pieni di reminescenze classiche e al tempo stesso non potrebbero essere più lontani. Nondimeno entrambi convergono, per così dire, su un punto significativo: le isole (del Mediterraneo) rappresentano per l’occidente cristiano quello che per l’oriente è il deserto, il primo luogo di fioritura del monachesimo, la sede di elezione di chi fugge il mondo per cercare Dio; le isole sono il deserto monastico dell’occidente. Nel bene e nel male.
Nel male per il poeta latino, patrizio e pagano, che nel 417 (data su cui concordano in molti) lascia l’amata Roma per tornare «a casa», nella Gallia Narbonese. Rutilio Namanziano sceglie la via del mare e racconta il suo viaggio nel famoso poemetto Il ritorno (De reditu suo)2. Arrivato all’altezza dell’arcipelago toscano, l’avvistamento della Capraia è l’occasione per una prima invettiva, colma di sconcerto, per gli «uomini che fuggono la luce» che la popolano, e che «da sé con nome greco si definiscono “monaci”, per voler vivere soli, senza testimoni». Perché costoro rifuggono i doni della fortuna? Perché si rendono infelici per non esserlo? Perché si rinchiudono da soli? Rutilio non capisce: «Che pazza furia di un cervello sconvolto è mai questa? [Quaenam perversi rabies tam stulta cerebri]». Poco dopo anche la Gorgona offre lo spunto per un altro lamento. Rutilio distoglie lo sguardo dall’isola perché si ricorda che un giovane illustre là si è voluto seppellire («vivo cadavere»), rinunciando a tutti i suoi averi per inseguire un’idea assurda. È convinto costui, infatti, che «di lordure voglian nutrirsi le cose del cielo e si opprime da sé con più violenza di una vendetta degli dèi adirati». Ci pensa già il fato a piegarci, a ferirci, ad atterrarci, perché, o voi che vi chiamate monaci, volete infliggervi da soli lo stesso male?
Nel bene per il vescovo di Milano, patrizio e dottore della Chiesa, che nel 387 (data convenzionalmente accettata), durante la settimana santa, predica un famoso «commento ai sei giorni della Creazione», l’Esamerone3. Nella «Terza giornata», dedicata all’acqua, Ambrogio dedica alcune pagine particolarmente ispirate al mare e alle sue bellezze, tra le quali vanno annoverate le isole. E non tanto per la loro amenità, quanto perché vi abitano «coloro che con costante proposito di mortificazione rinunziano alle attrattive della sregolatezza mondana, preferiscono vivere nascosti al mondo e schivare gli scabrosi anfratti di questa vita». Grazie alle isole il mare diventa il luogo dove la solitudine, il pentimento, la temperanza, la tranquillità dell’anima possono fiorire (esattamente ciò che Rutilio depreca), e i canti che vi si possono udire «rivaleggiano col mormorar dell’onde che sciabordano lievemente».
«È molto giusto che la chiesa sia paragonata al mare», dice Ambrogio, intendendo proprio l’edificio: non avevo mai pensato al canto gregoriano come a una dolce e ininterrotta risacca, ora credo che non scorderò più questa immagine.
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- Perché me li ha indicati Roberto Alciati nel suo Monaci d’Occidente (Carocci 2018), a p. 67.
- Rutilio Namanziano, Il ritorno, a cura di A. Fo, Einaudi 1992. I due brani che si riferiscono ai monaci si leggono ai versi 439-452 e 511-526.
- Ambrogio, Exameron. Commento ai sei giorni della Creazione, a cura di G. Coppa, TEA 1995. Il brano cui faccio riferimento è III, 5, 23.