Pietro il Venerabile e ’sto catarro che non passa (pt. 1)

In età non più giovanissima, diciamo intorno al 1150, cioè verso i 58 anni, Pietro il Venerabile, abate della grande Cluny da quasi trent’anni, scrive una lunga lettera al magister Bartolomeo per chiedergli un consiglio medico. «Gli storici della medicina riportano, proprio in questo periodo, un celebre Maestro Bartolomeo, autore di opere che lo collegano alla scuola salernitana e che risulta essere allievo di Costantino l’Africano, monaco e medico di Montecassino, morto nel 1087. Bartolomeo stesso fu commentato da un certo Bernardus provincialis [cioè di Provenza], che scrisse intorno al 1150-1160», le date tornano. La richiesta di Pietro peraltro non è strana: oltre al fatto che i due, come emerge dalla lettera, si sono conosciuti a Cluny «l’anno passato», l’abate cluniacense era una delle figure più prominenti della cristianità – per dirla in termini moderni: uno che, se chiede qualcosa, gli si risponde.

Certo, dice Pietro, «avrei preferito riversarti queste cose nelle orecchie da solo piuttosto che fartele leggere», ma io non posso muovermi né tu puoi venire, e inoltre la tua conoscenza è tale che anche in base a un resoconto potrai aiutarmi (e poi magari mi manderai quel tuo collaboratore, Bernardo, che mi ha fatto un’ottima impressione). E il resoconto di Pietro è invero accuratissimo. Riassumiamolo.

Allora, di solito sono afflitto dalla «malattia chiamata catarro quasi ogni anno», in genere due volte: una in estate, una in inverno; quest’anno mi è venuta alla fine dell’estate e all’inizio dell’autunno. Nei mesi estivi ho avuto un sacco di problemi coi nobili del luogo e sono «stato costretto a rinviare il consueto salasso», anzi l’ho saltato perché ormai il catarro ce l’avevo e perché ho sentito da alcuni che poteva essere pericoloso. Da costoro ho anche appreso che un uomo con una malattia catarrale, salassato, «perde la voce in modo permanente o per lungo tempo.» Ho sentito dire tante altre cose e allora ho ritardato il salasso di circa quattro mesi, «ma poiché il catarro non scompariva come al solito o nei tempi previsti, e temevo di incorrere in una sorta di febbre per l’eccesso di sangue o di catarro», ho finito col farlo e anche abbondante. «Ciò che i miei profeti avevano predetto è accaduto: il catarro non se ne è andato, né la voce è tornata al suo stato precedente dopo tre mesi.» Risultato, non sto bene ed espettoro molto. Mi hanno consigliato di assumere cibi caldi e umidi, «e quando ho obiettato che la malattia si sarebbe dovuta più ragionevolmente contrastare con cibi caldi e secchi, in modo che la medicina combattesse la malattia non con una sola qualità, ma con due, non sono stati d’accordo né mi hanno spiegato il motivo… dicendo che la gola, le arterie e certe altre cose di cui non conosco bene i nomi devono essere lenite con cibi umidi, non aggravate con cibi secchi». Hanno aggiunto che, oltre alla dieta, «dragagantum [acanto], issopo, cumino, regolizia, gli stessi fichi, o tutti insieme o alcuni di essi bolliti nel vino e dati come bevanda prima di coricarsi, potevano essere di beneficio. Cosa che ho spesso tentato, ma invano.» I medici qui hanno discusso a lungo «e sebbene a volte ciò che dicevano non mi sembrasse sufficientemente ragionevole, tuttavia ho ceduto, e ho seguito la dieta e assunti i rimedi che mi hanno consigliato per quasi tre mesi, come ho detto sopra. Ritengo che finora mi abbiano giovato poco o quasi nulla.» A questo punto aiutami tu.

Prima che la situazione peggiori, dimmi cosa devo fare, «e non sorprenderti se mi preoccupo non solo della salute, ma anche del recupero della voce»: sai bene che io, se i miei doveri non mi costringessero diversamente, resterei tanto volentieri muto, «ma poiché non la minima, bensì la massima parte dei miei doveri abbisogna della lingua o della voce, non potrei adempiervi se mi mancassero». La voce mi è necessaria non solo per leggere, per cantare, per celebrare i sacramenti, cosa comune anche a molti inferiori, ma soprattutto per l’alta e sublime predicazione della parola divina, quando Dio mi dice per mezzo del profeta: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» [Isaia, 58, 1]. Come posso allora gridare senza voce? «Per dirla in breve, l’uso della voce di Dio è necessario per me e per ogni rettore della Chiesa di Dio, così che, se sono pigri, devono essere cani muti incapaci di abbaiare, oppure, se non lo sono, devono usare la voce di Giovanni Battista: “Io sono la voce di uno che grida nel deserto”.»

La cosa interessante è che abbiamo la risposta di maestro Bartolomeo, il suo consulto scritto, dal quale si evince tra l’altro che in effetti mandò Bernardo a visitare Pietro.

(1-segue)

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Chi non vuole mai chiedere scusa (La Regola per le vergini di Cesario di Arles)

L’apprendistato monastico di Cesario di Arles, uno dei più famosi e tipici vescovi-monaci (e fratelli maggiori) del V-VI secolo, si compie a Lérins, «l’isola felice, che pur sembrando piccola e piatta, è conosciuta per aver levato verso il cielo monti innumerevoli». Nato nell’odierna Chalon-sur-Saône intorno al 470, Cesario entra a Lérins come novizio più o meno ventenne per uscirne più o meno trentenne, dopo aver studiato, ricoperto incarichi, appreso per esperienza le dinamiche di un monastero non piccolo e svolto anche alcune missioni. Proprio in seguito a una di queste ultime il vescovo di Arles lo «aggrega al proprio clero» e nel 503 lo indica come suo successore sulla cattedra vescovile, che Cesario occuperà, fino alla morte, nel 542: attivissimo, coscienziosissimo e ammiratissimo, ma non immemore della sua prima vocazione.

Dicevo «fratello maggiore» perché, come in non pochi altri casi, c’è una sorella, Cesaria, per la quale – o con la quale secondo altri modi di porre la cosa – fonda il monastero di San Giovanni di Arles, il primo ad accogliere la clausura per le donne consacrate; e per il quale monastero Cesario redige la Regola per le vergini, «la prima regola monastica composta esclusivamente per sacre vergini» e che «sembrò a quel tempo una grande novità, come mostra anche l’ammirazione di papa Ormisda» (che nella lettera Exsulto in Domino loda Cesario per aver fondato un monastero di vergini; proibisce ai suoi successori di osare rivendicare alcun potere sullo stesso monastero…e gli conferma i beni attribuiti).

La Regola è il frutto di una lunga elaborazione, cominciata nel 512 e conclusasi nel 534, anzi, come riportano alcuni manoscritti, rivista e firmata in forma definitiva il 10 luglio 534, «al tempo del console Paolino», e se da un lato le sue fonti sono, oltre alla Bibbia, la Regola di sant’Agostino, gli scritti di Giovanni Cassiano e gli usi di Lérins, molte delle sue caratteristiche confluiranno nelle legislazioni successive, non ultima la Regola di san Benedetto, di cui anticipa, tanto per dirne una, la prescrizione della stabilità: «Ecco quanto conviene per prima cosa alle vostre anime: se una, lasciata la sua famiglia, ha voluto rinunciare al mondo ed entrare nel santo ovile, per poter sfuggire con l’aiuto di Dio alle fauci dei lupi spirituali [non soltanto spirituali, osservano alcuni commentatori, se si pensa che “nella società del tempo, in mezzo alla quale l’elemento barbarico era preponderante, si intuiscono i pericoli che potevano correre le vergini consacrate”], non esca fino alla morte dal monastero».

Oppure la necessità di sottoporre l’aspirante monaca a molte prove [multis experimentis] prima dell’ammissione alla comunità e a un anno di probandato prima della vestizione. O ancora l’insistenza sulla rinuncia a qualsiasi proprietà personale, anche minima: «Nessuna abbia in proprio beni fuori monastero, né cosa alcuna dentro e non si riservi l’amministrazione di alcunché», perché Cesario sa bene che molte sono le monache che provengono da famiglie nobiliari che vogliono ridurre il cosiddetto fronte matrimoniale spedendo alcune figlie nel chiostro, e quindi «non si ricevano se non abbiano prima fatto nei riguardi dell’intero loro patrimonio anche modesto delle carte intestate a chi vogliono, atti di donazione o di vendita, in modo da non serbare in loro potere nulla».

È molto interessante l’insistenza su lettura e scrittura. Se da una parte non si devono accogliere giovani, nobili o no, da educare o istruire, dall’altra le consorelle «tutte imparino a leggere e a scrivere» e «in ogni stagione si dedichino alla lettura per due ore, cioè dal sorgere del sole fino all’ora seconda» [Omnes litteras discant; omni tempore duabus horis, hoc est a mane usque ad horam secundam, lectioni vacent]. A parte poi gli aspetti più prevedibili circa la preghiera, il lavoro, i rapporti con l’esterno (sui quali l’insistenza è assai ribadita), molte sono le indicazioni che tradiscono anche in questo caso la «provenienza sociale» delle monache: essenzialità nell’arredo («A nessuna sia permesso di scegliersi un quartierino a parte né di avere una camera o un armadietto [nec habebit cubiculum, vel armoriolum] o altro del genere che si possa chiudere a uso personale») e nell’abbigliamento («Abbiano tutte le vesti soltanto di colore semplice e serio, mai nere, mai bianche candide, ma soltanto grezze o colore del latte [Omnia vero indumenta simplici tantum et honesto colore habeant, nunquam nigra, non lucida, sed tantum laia vel lactine]») e nel corredo («È veramente sconveniente che sul letto di una religiosa risplendano coperte variopinte da secolari e coltri ricamate [Indecorum est, si in lecto religioso stragula saecularia, aut tapetia picta resplendeant]».

E poi lavorino (la lana), si servano l’un l’altra, si alternino negli incarichi, non si preoccupino del cibo, abbiano cura delle malate, obbediscano alla badessa, preghino; e soprattutto vivano in armonia e fraternità, senza mai rivolgersi «parole aspre e ingiurie», e se ciò accade chiedano e concedano il perdono senza indugio, perché «chi non vuole mai chiedere scusa o la chiede, ma non di cuore, e chi ne è richiesta, se non perdona, sembra non avere ragione di stare in monastero».

Sine causa in monasterio esse videtur, non c’è motivo che stia in un monastero.

♦ La Regola per le vergini si può leggere in Regole monastiche antiche, a cura di G. Turbessi, traduzione di M. Bozzi, Studium 1974, pp. 335-66; altre notizie su Cesario da Cesario di Arles, Sermoni al popolo, introduzione, versione italiana e note di P. Giustiniani e L. Longobardo, Città Nuova 2024.

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Le cose che gli uomini non sono in grado di dire né di fare (Dice il monaco, CXXIX)

Dice Ivo di Chartres nella sua sterminata Panormia («raccolta di tutte le leggi»), compilata tra il 1092 e il 1095 sulla base di tutte auctoritates a lui note:

Bisogna sapere che, poiché la loro natura è aerea, i demoni superano facilmente in sensibilità i corpi terrestri. E anche in velocità, a causa della superiore mobilità del corpo aereo, superano incomparabilmente non solo la corsa di tutti gli esseri, sia uomini che bestie, ma anche il volo degli uccelli [verum etiam volatus avium incomparabiliter vincant]. Dotati di queste due qualità, che sono connesse al corpo aereo, cioè l’acutezza dei sensi e la velocità di movimento, predicono o annunciano molto prima che siano conosciuti fatti di cui gli uomini si meravigliano a causa della lentezza dei loro sensi terrestri. Per via della loro lunga esistenza, inoltre, i demoni hanno anche un’esperienza delle cose di gran lunga maggiore di quella che gli uomini possono ottenere, stante la brevità della loro vita. Grazie a questi poteri efficaci che la natura del corpo aereo ha loro conferito, i demoni non solo predicono molti eventi futuri, ma compiono anche molti prodigi, e poiché queste cose gli uomini non sono in grado di dire né di fare [quae quoniam homines dicere ac facere non possunt], alcuni li ritengono degni di essere serviti e di ricevere onori divini, e la colpa è soprattutto della curiosità, dell’amore per la falsa e terrena felicità e della gloria temporale.

♦ Ivo di Chartres, In che modo i demoni predicono il futuro, in Panormia, VII, 68.

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Le prime sillabe dell’alfabeto del mondo (Voci, 39)

 Capo IV. Quanto sia difficile salvar l’anima, stando nel secolo

Dalle cose già dette viene in conseguenza la difficoltà grande, qual provasi da ognuno che da vero si risolve d’attendere alla propria salute, in compire questo suo santo desiderio stando nel mezzo di tanti pericoli. Imperoché se è vero, come pur’è verissimo, quel ch’insegnano i Santi Padri, e S. Tomaso in particolare in più luoghi, che l’essercitio delle virtù sante, che sono i mezzi per acquistar la salute, doppo il peccato è divenuto talmente difficile che Giovanni Cassiano paragona un’anima che camina per la via delle virtù ad una nave che, trovandosi in mezzo d’un rapidissimo fiume, si sforza d’andare contro il corso, questa nave se con remi e con violenza non si spinge avanti, ogni poco che si rallenti tornerà a dietro; che sarebbe poi se oltr’al corso contrario del fiume, che è la causa di tanta fatica, havesse chi con funi, o con altri istromenti, la tirasse indietro, non solo non anderebbe avanti, ma arrischiarebbe ancora di far naufraggio. Ben provano questa difficoltà nell’operare virtuosamente quei ancora che vivono nei chiostri per il contrapeso grave di questa carne e senso depravato: che faranno poi i poveri mondani posti tra tanti pericoli del mondo?

La maniera di vivere del mondo, le sue maledette leggi contrarie del tutto alla legge di Christo, e tanto pratticate e osservate, non sono eglino grandissimi intoppi al caminare per la via della virtù? Il mondo non ha cosa più miserabile della povertà, più ignominiosa che il sottoporsi ad altri e vivere in servitù o l’esser disprezzato; per il contrario reputa per cosa felice haver delle ricchezze, honori e preeminenze, commandar’ad altri, risentirsi dell’ingiurie, il vestirsi bene, il mangiar meglio, il compiacer al senso. Queste sono le prime sillabe dell’alfabeto del mondo, che infin dalli primi anni dà ad imparare a suoi seguaci, e perché sono conformi a questo nostro senso facilmente s’apprendono e più facilmente s’essequiscono; ma perché la legge di Christo e la vera virtù, e del tutto opposta e contraria, che maraviglia poi se riesce tanto difficile e amara a cui vuole vivere secondo la legge del mondo e gusto del senso? E quel ch’importa è che, se ben tal volta l’huomo conosce la necessità della virtù e il bene in essercitarla, nondimeno, vedendo che il contrario è pratticato dal mondo, si vergogna di far quell’atto di virtù, e vuole più tosto fallar con gl’altri che esser per singolare tenuto nel bene.

♦ La Monaca Perfetta ritratta dalla Scrittura Sacra, Auttorità et Essempi de’ Santi Padri, da Carlo Andrea Basso, Theologo Oblato, e Preposito di Trezzo. Opera utilissima a chiunque desidera servir a Dio con perfettione e dall’Auttore dedicata alla Serenissima Sempre Vergine Madre di Dio, Milano, per l’erede di Pacifico Pontio e Gio. Battista Picaglia, stampatori arcivescovili, 1627, p. 20-21.

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Era già un po’ che me ne stavo lì (Gregorio Magno)

 Gregorio I è papa da circa tre anni (è salito al soglio nel 590) e non passa giorno in cui non pensi con nostalgia ai suoi anni in monastero, a Sant’Andrea al Celio. Ne parla spesso nelle lettere e non perde occasione di ribadirlo quando mette mano al mirabile proemio del primo libro dei Dialoghi, un testo che «è stato celebrato da critici illustri (Auerbach in testa) come scritto di straordinaria modernità e collocato tra i modelli, nel solco del grande Agostino, della letteratura di confessione» (Salvatore Pricoco1). L’ho riletto, nella traduzione delle Benedettine di Viboldone2.

1. Un giorno,

Sembrerebbe un attacco comune, tipico di Gregorio peraltro, ma a me la formula dà un senso preciso come di apertura di un sipario, come invito a vedere, a immaginare, oltre che ad ascoltare. E infatti ci sarà molto da immaginare nei primi paragrafi e non pochi saranno i termini riferibili al vedere e allo sguardo.

oppresso dall’insopportabile invadenza [agitazione, per Simonetti] di alcuni uomini di mondo [seculares], ai cui affari troppo spesso siamo costretti a pagare un tributo, anche quello che sicuramente non starebbe a noi accollarci,

Una precisazione che non ci si aspetterebbe da un papa che lungo tutta la sua «carriera» ha sempre sentito il valore della responsabilità del pastore.

andai a cercarmi un luogo appartato [quindi dove non esser visto], consono alla tristezza, perché capissi lucidamente tutto ciò che, nelle mie occupazioni, mi metteva a disagio, e potessi considerare liberamente tutti i quotidiani motivi di afflizione.

Bello e quasi romantico il «luogo appartato consono alla tristezza», il locum amicum moerori, dove il moeror accoglie un vasto insieme di significati da tristezza a malinconia, da pena ad afflizione a dispiacere.

2. Era già un po’ che me ne stavo lì, triste e silenzioso,

Nel testo latino Gregorio precisa che se ne stava seduto, e come non vederlo, lì, fermo, lo sguardo perso nel vuoto a ripassare i motivi concreti della propria depressione, magari concedendosi una punta di autocommiserazione, solo una punta, prima che arrivi l’amico. I due, è evidente, si sono sorrisi vicendevolmente.

quando mi si presentò il dilettissimo figlio e diacono Pietro, legato a me in intima amicizia fin dal primissimo fiore della giovinezza e compagno [socius] delle mie ricerche [meglio, compagno di ricerche] sulla Parola Sacra. Vedendomi sopraffatto da quella forte depressione, mi disse: «È successo qualcosa di nuovo, che la pena ti invade più del solito?»

Che succede, Gregorio? Qualche nuova tegola? Anche qui l’evidenza della domanda e della situazione, familiarissima, è tale che sembra quasi di sentirla, quella domanda.

3. Io risposi: «Pietro,

Ma no, niente, le solite cose… Il fatto è che

la tristezza ci cui io soffro ogni giorno, mi è sempre vecchia, perché ormai consueta, e sempre nuova perché ogni giorno si accresce. In effetti, il mio animo infelice, oppresso dalla ferita del quotidiano affaccendarsi [pulsatus vulnere occupationis], si ricorda di com’era un tempo in monastero quando tutte le cose caduche erano da lui poste su un piano inferiore; di come dominava tutte le realtà passeggere, e aveva abitualmente il pensiero alle realtà celesti; si ricorda che, pur trattenuto nella condizione terrena, superava attraverso la contemplazione le frontiere della carne e amava la stessa morte, che pressoché da tutti è ritenuta una condanna, quale ingresso nella vita e premio alla fatica.

La risposta, come anche il paragrafo seguente, non è improvvisata, si capisce che le parole sono state messe a punto in lunghe meditazioni ripetute. Da notare come le «frontiere della carne», che Simonetti rende con «angustie della carne», in latino è carnis claustra, ed è pensabile che un ex monaco qual era Gregorio non usi quel termine a caso, ancorché al plurale – il corpo quale secondo chiostro.

4. Ma ora a motivo della responsabilità pastorale si affanna [l’animo] per le questioni degli uomini di questo mondo, e dopo la bellezza stupenda di quella pace è imbrattato dalla polvere dell’azione terrena. Una volta che ci si è dispersi nell’esteriorità per venire incontro alla moltitudine, anche quando si ricerca l’interiorità ci si ritrova indubbiamente molto svuotati.

Certo, le strade della Terra sono polverose e se ci si muove lungo di esse, ecc. «Incontro alla moltitudine», cioè «incontro alle esigenze di molti» (Simonetti), da cui emerge proprio la folla di chi si rivolge al papa e chiede, chiede, chiede.

Perciò da una parte valuto ciò quello che devo sopportare, dall’altra quel che ho perduto, e quando intuisco la profondità della perdita mi si fa più greve il fardello da portare.

Se ci ricordiamo che siamo alla fine del VI secolo «quello che devo sopportare» suona incredibilmente «moderno». È il momento della metafora della nave che, quantunque classica, non è ancora, alla fine del VI secolo appunto, del tutto consumata e inutilizzabile, anzi:

5. Ecco, ora sono sbattuto dai flutti del grande oceano, e nella navicella del mio spirito sono squassato dall’infuriare di una violenta tempesta. E guardando alla vita di prima, quasi voltandomi a guardare indietro, sospiro al vedere il lido lontano. E ancora più pesante è il mio disagio quando, sballottato su giganteschi cavalloni, riesco a malapena a scorgere il porto che ho lasciato.

Guardando, guardare, vedere, scorgere…

Questa infatti sono le cadute dello spirito [o della mente, mentis, ancora più adatto a noi contemporanei]: prima si perde il bene che si possiede, ma ci si ricorda ancora di averlo perduto; poi però, allontanandoci ulteriormente da esso, ci si dimentica anche del bene che si è perduto, e succede che non si vede più neppure con lo sguardo della memoria ciò che una volta si possedeva in atto.

Non è anche, forse, l’esatta fotografia della vecchiaia, come l’abbiamo vista e come la temiamo? Ricordarsi dapprima del buono che, pure, è stato e poi, a poco a poco, a mano a mano che si procede in gurgite vasto, non ricordarsene nemmeno più?

Così si produce ciò di cui dicevo, che cioè quando si è navigato a lungo, non si vede più neppure il porto di pace che si è abbandonato.

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  1. Salvatore Pricoco, Introduzione a Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, 2 voll., Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
  2. San Gregorio Magno, L’uomo di Dio Benedetto. La vita narrata nel II Libro dei Dialoghi, testo latino, versione e note a cura delle Benedettine di Viboldone, Abbazia di Viboldone 19883.

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Tanto più care (Dice il monaco, CXXVIII)

Dice Tommaso d’Aquino, il Doctor Angelicus:

Sembra che le reliquie dei santi non siano da venerare. Infatti: 1. Nulla dobbiamo fare che sia occasione derrore. Ma onorare le reliquie dei morti può somigliare allerrore dei gentili che praticavano il culto dei morti. Dunque non si devono onorare le reliquie dei santi. 2. È stolto venerare cose insensibili. Ma le reliquie dei santi sono cose inanimate. Dunque è stolto venerarle. 3. Un corpo morto è specificamente diverso dal corpo vivo e quindi non è numericamente identico. Dunque dopo la morte il corpo dei santi non può essere venerato.

In contrario nel De Ecclesiasticis Dogmatibus si legge: «Noi crediamo che si debbano venerare con tutta sincerità i corpi dei santi e principalmente le reliquie dei martiri, come membra di Cristo». Poi continua: «Se qualcuno vuol porsi contro questa dottrina, non è seguace di Cristo ma di Eunomio e di Vigilanzio».

Rispondo: S. Agostino scrive: «Se le vesti del padre, un anello o altre cose simili sono tanto più care ai posteri quanto più grande è il loro affetto verso i parenti, in nessun modo è da disprezzarsi il corpo che noi ci portiamo come più intimo e più unito di qualsiasi veste, quale elemento costitutivo della stessa nostra natura umana». Da questo risulta che se si ama una persona, si onora dopo la sua morte anche quello che rimane di lei, non solo il corpo o le parti del corpo, ma anche le cose esterne come le vesti e altri oggetti consimili.

♦ Tommaso d’Aquino, Se siano da venerare le reliquie dei santi, Somma teologica, p. III, q. XXV, a. 6.

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Cercasi/Offresi eremita

 Nella prefazione di Laurence Freeman al volume sull’eremitismo contemporaneo di cui scrivevo un paio di settimane fa ho letto un inciso che, come si suol dire, ha subito acceso la mia curiosità: «Nel XVIII e XIX secolo divenne di moda tra i ricchi proprietari [inglesi] avere un eremita o una reclusa nella loro proprietà. Era solo un’attrazione per i loro ospiti, ma forse tradiva anche la nostalgia per qualcosa che erano inconsapevoli di aver perduto a causa dell’opulenza materiale e della superficialità della religione istituzionale»1. Una breve ricerca e ho «scoperto» un fenomeno che, come quasi tutto, è ampiamente trattato, quello che gli inglesi chiamano degli ornamental hermits, sì, gli eremiti ornamentali, decorativi.

Più che tra i fenomeni di derivazione religiosa gli eremiti ornamentali sono rubricati dagli inglesi tra le eccentricità, non a caso il testo più citato sull’argomento è un saggio di Edith Sitwell, Ancient and Ornamental Hermits, raccolto nel volume del 1957 English Eccentrics2, saggio che riprende un capitolo di English Eccentrics and Eccentricities di John Timbs, pubblicato nel 1875. A sistemare in lungo e in largo la questione, è arrivato in tempi più recenti il volume The Hermit in the Garden, di Gordon Campbell3, un professore di Oxford (che forse si candida a essere il Professore di Oxford per antonomasia, come dimostra questa presentazione).

Così ho imparato che non era infrequente trovare nei giardini delle residenze nobiliari di campagna delle «situazioni» che venivano definite eremitaggi, volta a volta simboli della moda del «ritorno alla natura» (Rousseau docet, «gli eremiti ornamentali sono l’incarnazione dell’ideale di Rousseau»), della diffusione della «sensibilità» («L’eremitaggio e il suo eremita fisico o immaginario rappresentavano l’inclinazione della persona sensibile per il mondo naturale e le sfumature emotive suscitate dal ritiro malinconico»), del piacere riconquistato della solitudine e del silenzio, e della dolce malinconia che ne deriva (Milton docet, «Il Penseroso di Milton è il testo del XVIII secolo che “fonda” il culto della malinconia») – del grande armamentario romantico intriso di letteratura e che annoverava, tra l’altro, piccoli cimiteri sotto la luna, paesaggi «selvaggi», iscrizioni smangiate dal tempo, capanne nel bosco e rovine (rovine di monasteri abbandonati in testa). Tali «situazioni» comprendevano piccole grotte, ruderi, casette sugli e negli alberi, padiglioncini, baite (come non pensare a quella di Thomas Merton, anche se non c’entra niente), il più delle volte vuote, o al massimo con dei segni che indicavano che qualcuno si era solo temporaneamente allontanato, o con una figura impagliata o addirittura un automa capace di movimenti e… suoni (nel resoconto di una visita del 1801 a Hawkstone Park, nello Shropshire, si legge: «Fummo condotti nella cella dell’eremita, che è certamente la migliore rappresentazione che io abbia mai visto di ciò che i poeti descrivono. Si suona un campanello e la porta si apre immediatamente da sola rivelando un venerabile vecchio scalzo e seduto in una nicchia con un tavolo davanti a sé, su cui si trovano un teschio, una clessidra, un libro e un paio di occhiali; si alza al vostro avvicinarsi e si inchina. Quando gli rivolgete delle domande, muove le labbra e risponde con voce roca e cupa, tossendo come se fosse quasi esausto. Ci disse di avere cento anni e di aver trascorso lì la maggior parte della sua vita. Sopra la nicchia c’era scritto “Memento mori” a caratteri cubitali, ma c’erano altre righe che non riuscivo a decifrare per mancanza di luce…» – ah, la voce è quella del giardiniere opportunamente celato alla vista).

Talvolta però l’eremita era in carne e ossa ed era un individuo che veniva assunto per impersonarlo a fronte di uno stipendio e di un mansionario che prevedeva capelli e barba lunghi (e spesso anche unghie), silenzio, atteggiamento malinconico e severo, lettura (vera o simulata). Un impiego per il quale non era impensabile mettere un annuncio di ricerca o di offerta (anche se il professor Campbell non ne è del tutto certo), Scrive Timbs: «Un corrispondente di Notes and Queries descrive un gentiluomo vicino a Preston, nel Lancashire, [che] pubblicò un annuncio di una ricompensa di 50 scellini all’anno, a vita per chiunque si impegnasse a vivere sette anni sottoterra, senza vedere anima viva, e a lasciarsi crescere le unghie dei piedi e delle mani, insieme ai capelli e alla barba, per tutto il tempo. Un apposito appartamento sotterraneo è stato allestito, molto spazioso, con un bagno freddo, un organo da camera, tanti libri a piacere e provviste servite dalla propria tavola». E qualche pagina dopo aggiunge: «Una persona pubblicò un annuncio di ricerca di impiego come eremita, sul Courier dell’11 gennaio 1810: “Un giovane, che desidera ritirarsi dal mondo e vivere da eremita in un luogo conveniente in Inghilterra, è disposto a impegnarsi con qualsiasi nobile o gentiluomo che desideri averne uno. Qualsiasi lettera indirizzata a S. Lawrence (affrancata), da lasciare presso il signor Otton, n. 6, Coleman’s Lane, Plymouth, che specifichi quale gratifica verrà offerta insieme con tutti gli altri dettagli, sarà debitamente esaminata”».

Per conoscere il declino e gli sviluppi ulteriori del fenomeno, le sue propaggini novecentesche, fino, forse, ai famigerati nanetti da giardino, non c’è che rivolgersi al volume del professor Campbell, piccolo esempio luminoso di curiosità, ricerca e rinfrancante umorismo – non posso citarlo tutto…

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  1. Il silenzio e i suoi sentieri. L’esperienza dell’eremo nel nostro tempo, a cura di G. Giambalvo Dal Ben, prefazione di L. Freeman, Effatà Editrice 2024, p. 8.
  2. Perché rinunciare al piacere di citare la presentazione dell’editore: «L’arguta incursione di Dame Edith Sitwell nel mondo degli eccentrici inglesi è un magnifico tributo all’individualità. In un’epoca di conformismo, ecco una deliziosa opportunità per fare la conoscenza di personaggi stravaganti, donchisciotteschi, se non scervellati, che potevano permettersi di essere diversi. L’eccentricità è caratteristica particolare degli inglesi, dice Dame Edith in un ironico inciso, grazie a “quella peculiare e soddisfacente conoscenza dell’infallibilità che è segno distintivo e diritto di nascita della nazione britannica”. Eremiti, sportivi, ciarlatani, marinai, gli instancabili viaggiatori britannici, uomini di cultura, uomini di vita – e le signore, Dio le benedica – ecco una gloriosa galleria di estremi della natura umana ritratti da Dame Edith con tale arguzia, partecipazione, sapienza e amore da risultare irresistibile».
  3. Gordon Campbell, The Hermit in the Garden. From Imperial Rome to Ornamental Gnome, Oxford University Press 2013.

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Terze, quarte, quinte e seste cose

 Tanto breve il saggio di Renata Rizzo Pavone e Anna Maria Iozzia, Comunità monastiche catanesi tra ’700 e ’800, quanto «gustoso». Letteralmente1. Le due studiose, già direttrici dell’Archivio di Stato di Catania, ed entrambe purtroppo scomparse, hanno infatti spulciato gli Ordinari di alcuni monasteri, in particolare quello benedettino di S. Nicolò l’Arena, con l’intento di ricostruire «il tipo di alimentazione in uso nelle comunità monastiche catanesi nei secoli XVIII e XIX».

Grazie alle serie consistenti e alla ricchezza delle indicazioni riportate circa la qualità dei cibi, la quantità e il numero dei confratelli presenti nel monastero le autrici hanno potuto definire con sorprendente dettaglio i comportamenti alimentari della comunità, a cominciare dai quattro schemi quotidiani prevalenti. Nei giorni «normali» il pranzo prevedeva: carne, minestra, antipasto, arrosto, frutta; la cena: minestra, pesce, «terza cosa», frutta e/o foglia. E già qui cominciano le sorprese, perché la quantità del piatto di carne che apriva il pranzo si aggirava intorno al mezzo chilo a testa, il piatto di pasta che lo seguiva era di circa 150 g, con l’aggiunta di ancora un po’ di carne, mentre l’antipasto, «pietanza abbastanza elaborata da collegare al tornagusto della cucina baronale, era assai vario». A quel «vario» segue un elenco rutilante, dal quale mi limito a segnalare le granatine, «polpette di carne dal volume inusitato», e la impanata «con pasta, lardo, salsiccia e soppressata». In ogni caso dopo c’è l’arrosto, cioè altra salsiccia e alla fine 150 g di frutta. A cena facciamo conoscenza con la «terza cosa» – dopo il primo e 200 g di pesce –, «pietanza molto varia, dolce o salata», ad esempio «ricotta, caciocavallo, pane fritto con uova… cavolo bastardo con alici… caponata con asparagi… sciroppata di mele… pasta siringata, pasta cotta nel mosto…». Il lunedì si riduce un po’ la carne a favore delle uova e nei giorni di astinenza dalla carne largo al pesce! Durante la Quaresima e l’Avvento, in cui la carne scompare quasi del tutto si fa avanti invece una «quarta cosa» (crispelle di riso il lunedì, lenticchie il martedì, pasta fritta il mercoledì…). A pranzo, ad esempio: pesce, minestra, seconda minestra, «quarta cosa», frutta o verdura; mentre a cena: minestra, colazione, sopratavola, là dove la colazione è un piatto di pesce e il sopratavola un po’ di pasta.

«Nei giorni di festa il pranzo si arricchiva in misura proporzionale all’importanza attribuita alla festa stessa», una frase che dà il la a una serie incredibile di prelibatezze e al dilagare dei dolci, serviti nelle grandi occasioni come «quinta cosa» (fagioli, passola [uva senza semi] e castagne), e come «sesta cosa» (gelo di cannella). Tra l’altro nel recepire le novità gastronomiche i benedettini sono sempre all’avanguardia, si nota infatti via via «un’esigenza di maggior ricercatezza ed elaborazione nella preparazione dei cibi, che troverà piena realizzazione agli inizi dell’800», grazie anche all’influenza della cucina francese importata dai cuochi delle famiglie nobili. Ed ecco comparire nei registri «riso in cagnò, barrachiglie di riso e caciocavallo, cutumè di riso o ricotta, sorcicelli di pasta brugnè con caciocavallo e piacentino, gnocchi alla tedesca…» Gli elenchi sono sempre affascinanti e in queste pagine ce ne sono tanti e meravigliosi. (Si vedano i dolci delle monache: «Cannoletti a base di riso, uova e latte, biscotti di mandorle ricoperti di “liffia” (glassa di cioccolata), “mostazzole” [biscotti di sottile sfoglia di farina roccella farciti con mandorle e nocciole abbrustolite, noci, buccia d’arancia legate con vino cotto e miele], cassate di ricotta per Pasqua, “fastucata” [dolce a base di pistacchi legati da zucchero vanigliato e spolverati con cannella], “combaita” e dolce bianco».)

Meno dettagliati i registri degli altri ordini, ma in generale domenicani, carmelitani, minori e minimi paiono un po’ più sobri, sia nella quantità sia nella quantità, ma fino a un certo punto se si considera che «il quantitativo giornaliero di carne pro capite per i carmelitani si aggirava intorno a g. 300 per pietanza e antipasto». I minimi in coda a tutti avevano «un regime alimentare basato essenzialmente su pane, pasta, vegetali e pesce» – pesce di qualità –, ma ogni tanto facevano festa anche loro e «notevolissimo era infine il consumo di “scacciu”, cioè frutta secca, come nocciole, mandorle e noci, che durante la “conversazione” si accompagnava al vino».

E le prescrizioni della Regola? Al capo XXXIX il padre Benedetto dice: «Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza. Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c’è un solo pasto, che quando c’è pranzo e cena. In quest’ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena». Ma, per usare le parole di Federico De Roberto, «questa era una delle tante “antichità” – come le chiamava fra’ Carmelo – della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro?»

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  1. Il saggio, del 1995, è stato ristampato in Renata Rizzo Pavone e Anna Maria Iozzia, La cucina dei benedettini a Catania, introduzione di G. Giarrizzo, con uno scritto di A. Leonardi, Giuseppe Maimone Editore 2000, pp. 21-53.

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Il silenzio degli eremi

 La mia impressione ricorrente è che ci sia una distanza «speciale» tra l’esperienza dell’eremitismo, nella sua variante contemporanea, e le parole che vengono usate per descriverlo. Ne ho avuto conferma dalla lettura di Il silenzio e i suoi sentieri1, esempio tipico della periodica ricognizione che studiosi, giornalisti e persone interessate provano a fare del fenomeno. Il volume, che ha origine da una serie di incontri organizzati dal curatore nel 2023 per il Centro di Meditazione Cristiana di Firenze, ha il pregio di non essere «un libro sugli eremiti, bensì un libro scritto dagli eremiti» (di ispirazione cristiana cattolica), nella convinzione che per «indagare il significato della vita solitaria al giorno d’oggi» sia più utile ascoltare la testimonianza viva dei singoli individui che hanno fatto questa scelta (che hanno risposto a questo richiamo o vocazione), seguendo il racconto del loro percorso unico e irripetibile seppur nato da una sensibilità comune.

E in effetti i testi raccolti sono a loro modo «tutti diversi e tutti uguali»: Giancarlo Bruni, Servo di Maria presso l’eremo delle Stinche, in Chianti; Antonella Lumini, nella sua casa di Firenze; Andrea Pighini, frate cappuccino, e Daniela Carducci, del Cammino di Betlemme; Raffaele Busnelli, presso l’eremo della Breccia, a Gallino (LC); Mirella Muià, presso l’eremo dell’Unità a Gerace (RC): provenienze e storie diverse, esiti differenti ma simili, tonalità, sfumature, variazioni sul tema del silenzio come approdo preliminare per l’incontro con Dio. Vicende che attingono a una tradizione antica e che allo stesso tempo consuonano con una diffusa aspirazione all’allontanamento dalla «pazza folla», dal cosiddetto mondo distorto della distrazione e della frenesia. Qui il confine tra autenticità e inautenticità, tra realtà che si manifesta e desiderio che si afferma, è molto sottile, e come in altre circostanze non si può che avere fede nella (buona) fede di chi pronuncia certe parole. Ecco alcuni esempi.

«Silenzio pertanto non riducibile al tacere… ma al far tacere ogni voce che ostacoli il cammino verso la propria radice, non distratti dal passato, dal presente e dal futuro, tesi allo scopo in una taciturnità che invoca luce e attende luce» (Bruni); «Il silenzio favorisce l’ascolto: la parola divina sgorga dal silenzio. Il silenzio aiuta a conformarsi alla misura originaria, a distinguere il disordine del mondo, a vederlo, a smascherarlo, soffrirlo» (Lumini); «La fede si dà nel silenzio. Noi crediamo in un Dio che è Parola, che è risorto, ma che è silenzio. Non possiamo offrire un incontro diretto a chi ci chiede perché preghiamo Dio, dal momento che non ne sentiamo la voce. La fede si dà in questo silenzio di Dio» (Busnelli); «Non è infatti lo stare da solo in un luogo che fa l’eremita ma lo stare alla presenza del Signore nel nome di tutti coloro che non ci stanno, non sanno o non vogliono, e in loro favore» (Muià).

Il diluvio di paradossi che si incontra in queste pagine dà la misura di quella distanza cui accennavo all’inizio, paradossi e talvolta vere acrobazie verbali tra opposti che si attraggono e si respingono (solitudine e isolamento, solitudine e comunione, silenzio e mutismo, silenzio e ascolto, allontanamento e prossimità), nel tentativo di estrarre dal silenzio raggiunto parole che, paradossalmente, lo comunichino. Forse la cosa più onesta che si possa dire è che gli eremiti esistono (stanno aumentando) e che sanno quello che fanno, ma che quando sono sollecitati a raccontarsi cominciano i «problemi».

«Decisivo per ogni uomo», scrive Giancarlo Bruni, «credente o meno, nell’oggi in cui viviamo, è sapere di quale immagine di Dio sono portatori coloro che si riferiscono a un Dio, ne va di mezzo la qualità della vita e la stima di Dio stesso.» Quindi, un Dio silenzioso e imperscrutabile, e che tuttavia ci ama e soffre con noi?

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  1. Il silenzio e i suoi sentieri. L’esperienza dell’eremo nel nostro tempo, a cura di G. Giambalvo Dal Ben, prefazione di L. Freeman, Effatà Editrice 2024.

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Al posto giusto (Dice il monaco, CXXVIII)

Dice sant’Agostino nel 397, prescrivendo quanto si deve «osservare nel monastero»:

Chiunque abbia recato danno a un suo fratello, con ingiurie, maldicenze, o accuse gravi, non si dimentichi di rimediare al male procurato porgendo le sue scuse senza indugio. Quanto a colui che è stato offeso, perdoni senza discutere. Se si sono recati un danno reciproco, devono perdonarsi vicendevolmente le loro offese… Se uno si lascia spesso trasportare dalla collera, ma si affretta a implorare il perdono di chi riconosce di aver offeso, è da preferire a chi forse è meno disposto all’ira ma difficilmente si decide a chiedere perdono. E colui che pretende di non farlo mai o non lo fa dal profondo del cuore, non è al posto giusto in un monastero, anche se non viene espulso. Siate dunque avari di parole dure. E se ce n’è stata qualcuna sulla vostra bocca non abbiate vergogna a rimediarvi con la stessa bocca dalla quale è venuta la ferita.

♦ Sant’Agostino, Regola, VI, 2, in Luc Verheijen, La Regola di S. Agostino. Studi e ricerche, traduzione di B. Caravaggi, revisione di G. Scanavino, Edizioni Augustinus 1986, p. 32.

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