Questo così piccolo fremito vitale (Dice il monaco, CVI)

Dice un monaco cisterciense del XII secolo, da alcuni identificato in Alchero di Clairvaux:

Non si trova fra le arti liberali quell’arte, superiore a tutte, mediante la quale trattenere il cuore, il quale è ciò che di più mobile e di più fuggevole vi sia. Instabile, infatti, per la sua mobilità naturale, rifiuta di star fermo in un dato punto: la sua vita è nel movimento, e il moto è per lui vita. Questo così piccolo fremito vitale nel cuore muove la massa dell’intero corpo umano: con quale arte lo si conterrà, perché mentre muove tutte le altre cose, lui tuttavia non si muova? Forse se si sospendesse al suo collo una mola d’asino non si muoverebbe più. E invece, si agiterebbe in misura ben maggiore con il fardello della mola! Bisognerà perciò agire in questo modo con lui: giri attorno alla terra e la percorra in lungo e in largo, per vedere se può trovare qualcuno più veloce e più mobile di lui. Se non avrà trovato sulla terra uno simile a sé, compia pure il giro del cielo, e attacchi al proprio carro le ruote dei carri di Dio. Che farà allora di fronte a coloro che camminano sulle ali dei venti? Forse potrà competere pure con essi. [… Ma] quando avrà visto la potenza del suo Creatore superare la propria in maniera così netta, si fermi e ripieghi le sue ali, trattenendo se stesso, e costringendosi a raccogliersi su di sé grazie alle briglie del confronto con l’agire divino non trasgredisca i propri limiti.

♦ Anonimo del XII secolo, La dimora interiore, 21, in: La sapienza del cuore. La coscienza al cuore della vita spirituale in alcuni testi monastici del XII secolo, a cura di R. Larini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 1997, pp. 167-68.

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Le cicogne di Chiaravalle (Voci, 31)

RuscaBreveDescrizione Da cento anni in qua il Monasterio non è più chiamato Caravalle, ma Chiaravalle, essendo fatto raro di fabbriche, d’entrate, e rarite le sostanze, e però è fatto chiaro e Chiaravalle; sono deteriorate l’entrate, e migliorato l’aria, e fatta più chiara, e per[ci]ò le Cicogne, solite a nidificare in questo Monasterio, si sono levate, se bene si adducono altre ragioni, e sono queste. Mentre Attila flagello di Dio assediava la Città di Aquileia, e Ezzelino s’accingeva alla rovina d’un ben munito e forte Palazzo, le Cicogne, che facevano il nido in durevoli e alti luoghi delle fabbriche, trassero i nidi e l’ova in sicuro, abbandonando i luoghi che presto dovevano rovinare. Le Cicogne, dunque, che sicuramente nidificavano sopra a campanili, a camini e altri luoghi eminenti del Monasterio di Chiaravalle fino a 20 nidi, si partirno di questo luogo l’anno 1574, prevedendo la gran Peste che venne nello Stato di Milano e in altre Città d’Italia l’anno 1575, e la perpetuità [dell’abbaziato] che doveva essere introdotta nella nostra Congregazione l’anno 1580 d’alcuni Abbati che non ebbero grazia di morir contenti.

Usa per arma e per insegna il Monasterio di Chiaravalle questo pietoso uccello, il quale vedendo il padre e la madre vecchi e spennati li colloca nel proprio nido, li porta il cibo e si spiuma per coprire le nudità dei genitori; così i Monaci di Chiaravalle, per esser caritativi verso i poveri e afflitti, come di sopra abbiamo detto, usavano per insegna questo uccello che nidificava nel Monasterio in tanta quantità che si sono veduti 20 nidi; per ogni nido era cinque ovi, di modo tale che quando si volevano partire, si vedeva nell’aria tanta quantità di Cicogne che non si poteva vedere il Sole, e facevano a modo d’una mostra, con gran piacere delli monaci, che vedevano nell’aria tanta quantità di Cicogne scherzare e fare la loro rassegna prima che partissero, che era intorno alla festa di S. Lorenzo del mese d’Agosto, e venivano a mezzo al mese di Febraro, ma né a venire, né a partirsi vedevano mai, perché vengono e partono di notte.

Usa ancora il Monasterio questo uccello per arma perché solevano i Regi portarla nelli scettri, per insegnare la misericordia e pietà a quelli che reggono e hanno il modo di sovvenire ai miseri. Però gli Abbati nelli Bastoni Pastorali nel risorto solevano mettere un capo di Cicogne, come nelle pitture antiche si vedeva, per denotare la pietà paterna, volendo dire Abbate, Padre, In quo clamamus Abba Pater, dice l’Apostolo.

Il Monasterio di Chiaravalle usa ancora questo uccello per insegna per un miracolo occorso al tempo di Filippo Maria Visconte Duca di Milano e di D. Antonio Fontana Abbate di questo Monasterio, raccontato da me nel 3° libro dell’Historia della famiglia Rusca, stampato in Venezia l’anno 1610.

Voleva Filippo Maria Visconte Duca di Milano l’anno 1386 gettare i fondamenti grandi per fabbricarle sopra una sontuosissima e grandissima Chiesa, siccome la voleva dedicare alla maggior Vergine, alla maggior madre e donna che fosse e sia per esser mai, così voleva che la macchina fosse la maggiore di grandezza, di bellezza, che fosse non solo nella Città, ma fuori per molte e molte miglia. E per darle principio con quella maestà che si richiedeva a sì gran fabbrica, che a sì gran donna voleva erigere, volse ancora che un gran Clero si ritrovasse per mettere la prima pietra nelli fondamenti. Per[ci]ò invitò tutto il Clero della gran Diocesi, tanto secolare quanto regolare, e per tale effetto mandò a Chiaravalle suoi nunzii a invitare l’Abbate con suoi monaci. L’Abbate, sentendo che il Duca voleva fare opera sì celebre ad onore della Beata Vergine Maria madre di Dio, rallegrandosi, rispose a quelli che l’invitavano che non solo sarebbe andato con i monaci, ma con le Cicogne, per onorare sì grande e pietosa opera. Pensarono i nunzii del Duca che l’Abbate avesse detto d’andare a Milano con le Cicogne fosse una esagerazione e una iperbole della pronta volontà dell’Abbate di compiacere al Duca. Ma quando videro l’effetto, restarono stupiti. Perché partì l’Abbate dal Monasterio con i monaci e le Cicogne sorvolando a due a due, sopra al capo delli monaci combinati, per Milano, così andando con tanta meraviglia del popolo Milanese quanto credere si possa, non essendo più veduta né sentita una simile cosa, e però anco per questo per arma fu preso la Cicogna e coronata di corona d’oro in segno di vittoria, perché le Cicogne sono vittoriose delli serpi, e i monaci di quel serpe attossicato, del quale parla Giobbe nel capitolo 26 [«Al suo soffio si rasserenano i cieli, la sua mano trafigge il serpente tortuoso»], che è il Demonio, col quale sempre hanno di combattere e riportarne vittoria, come la Cicogna del Serpe, per esser poi da Dio coronati là su in Cielo.

♦ Roberto Rusca, Breve descrittione del Monasterio di S. Ambrogio Maggiore di Milano; et sua Chiesa de Cisterciensi Monaci. L’origine della Congregatione Cisterciense di Lombardia, con la descrittione del Monasterio di Chiaravalle di Milano, in Bergamo, per Pietro Ventura, 1620, pp. 29-31 (con qualche normalizzazione ortografica).

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Tutta la materia del mondo, ovvero: Come ti spiazza Pacomio

Rientrando al suo monastero, dopo una visita ad alcuni fratelli, il santo Pacomio viene avvicinato da un giovane monaco, che gli confida una situazione, diciamo così, irregolare: «In verità, padre, da quando sei partito… fino a ora non ci è stata cucinata né della verdura né della farinata». No problem, risponde Pacomio, ci penso io.

Fatto il suo giro di ispezione, Pacomio entra in cucina e vede il cuoco intento a intrecciare stuoie: E da quand’è «che non cucini ai fratelli della verdura?» «Da due mesi», risponde il cuoco. E si può sapere perché, replica Pacomio. Non mi pare che la regola dica questo, anzi, «i precetti e i santi padri ordinano che al sabato e alla domenica si cucini della verdura per i fratelli», o sbaglio? Lo so, lo so, risponde il cuoco. Guarda, io l’avrei fatto anche ogni giorno, ma poi quelli per la storia dell’astinenza non toccano niente e si finisce col buttare via tutto. Tra l’altro, «spendiamo quaranta sestarii di olio al mese [più di venti litri] per la consueta pietanza cotta dei fratelli». Sicché ho smesso, per evitare tutto quello spreco, tanto quelli mangiano soltanto un’insalata condita «con aceto e olio, aglio e verdura minuta». E allora ti sei messo a fare stuoie… osserva Pacomio. Sì, «per non starmene seduto a far nulla».

Be’, ragionevole, no? No, niente affatto.

Appreso che con quel «sistema» erano state fabbricate cinquecento stuoie, Pacomio le fa portare e, sotto lo sguardo sbalordito del cuoco e dei suoi aiutanti, le fa gettare nel fuoco. Ecco, «come voi avete trascurato la regola che vi era stata assegnata riguardo alla cura dei fratelli, a causa di un pensiero ispiratovi da Satana, così anch’io ho bruciato il lavoro delle vostre mani, affinché comprendiate che cosa vuol dire disprezzare le leggi dei padri date per la salvezza delle anime». E se non avete capito, considerate che c’è un’enorme differenza tra rinunciare a qualcosa che si può avere liberamente e rinunciare a qualcosa per necessità o per forza. Nel primo caso, per l’astinenza si riceverà una ricompensa, «ma se non viene servita [ai fratelli] nessuna pietanza cotta, non sarà loro accreditata alcuna astinenza per ciò che non hanno neppure visto».

E poi, aggiunge Pacomio, che saranno mai ottanta sestarii d’olio. Non stiamo parlando di malati o di bambini, sono monaci adulti e in salute: «Che tutta la materia del mondo intero vada pure in perdizione, e non sia sottratta all’anima un’unica e semplice virtù!»

(L’episodio è tratto, con qualche «licenza», dai Paralipomeni alla vita di Pacomio, in Pacomio, servo di Dio e degli uomini. Fonti greche sulla vita di Pacomio e dei suoi discepoli, introduzione generale di W. Harmless, introduzione, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2016, pp. 388-90.)

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«Non ci sono negozi, né fabbriche di monache» (il Carmelo teresiano)

Stava per sfuggirmi, per così dire, un articolo molto «significativo» che il carmelitano Rafal A. Wilkowski ha dedicato al Carmelo teresiano femminile sull’ultimo numero del 2022 della «Rivista di vita spirituale»1. Partendo infatti dalla premessa che il carisma non è un concetto astratto, bensì uno stile di vita che si trasmette di generazione in generazione («Il carisma viene incarnato, oppure non esiste come tale»), il padre carmelitano espone e commenta anzitutto alcuni dati statistici. (Certo, essendo figlio del mio tempo, avrei trovato più «giusto» un articolo scritto da una diretta interessata, cioè una carmelitana. Con ogni probabilità un tale articolo esiste e semplicemente io non l’ho ancora letto, e comunque il p. Wilkowski è «persona ampiamente informata dei fatti», svolgendo, oltre a quello di segretario personale del Padre Generale, anche l’incarico di segretario per le monache dell’Ordine.)

Il Carmelo teresiano femminile è composto (al maggio del 2022) da 10.040 monache, che popolano 834 monasteri sparsi in 97 Paesi. In Europa e in America del Nord solo il 20 per cento delle monache ha meno di 50 anni, mentre il 33 per cento (il 28 per cento in America) ne ha più di 80, con un’alta percentuale di ultranovantenni. Il quadro si ribalta in America del Sud e in Asia. Le parole del p. carmelitano sono misurate ma inequivocabili: «Le comunità, specialmente nel mondo occidentale, stanno invecchiando e diminuendo» (oltre 80 comunità sono state soppresse in 10 anni, dal 2012, le nuove professioni non compensano i decessi e le dispense, e si tratta di un «processo inarrestabile». D’altra parte «non ci sono negozi, né fabbriche di monache. I dati statistici raccolti mostrano chiaramente che il tempo dell’espansione dell’Ordine è ormai passato alla storia ed è giunto il tempo della riduzione».

Due casi specifici vengono citati per illustrare più da vicino la drammaticità della situazione: quello del Carmelo belga, che dai 32 monasteri del 1979 (con 536 monache) è passato agli 11 del 2022 (con 117 monache), una situazione di crisi irreversibile: «Il modo in cui si è vissuto finora non ha più le condizioni fisiche per sostenersi. […] Ora è una lotta per la sopravvivenza»; e quello del Carmelo italiano, che, pur mantenendo quasi lo stesso numero di monasteri (da 54 a 53 nello stesso arco di tempo), ha visto diminuire il numero delle monache a 968 a 600.

Passando dal freddo, e impietoso, dato al «che fare?» e alle prospettive, il discorso del p. Wilkowski si fa necessariamente più sfumato. Anzitutto bisogna distinguere tra il carisma e le strutture attraverso il quale si è espresso e si esprime, fra Tradizione e tradizioni, là dove la prima si rinnova costantemente negli individui che lo incarnano in un determinato tempo, mentre le seconde sono soggette all’usura del medesimo tempo, subiscono l’influsso delle circostanze esteriori e non sono eterne. Le forme tradizionali danno conforto e sicurezza (o l’illusione della sicurezza), ma se si svuotano del loro contenuto vanno superate.

Il momento impone discernimento e capacità decisionale, continua p. Wilkowski, anche se è molto più facile dirlo che farlo, e ricorda una tipica frase teresiana: «Cosa vuoi che faccia, Signore?» È il «problema» più arduo che si ripresenta, quello che un non credente fatica più che mai a comprendere: «Discernere significa riflettere seriamente su cosa vuol dirci il Signore attraverso le situazioni nuove che si presentano. Qual è la sua volontà in tutto ciò?» Riflettere: va benissimo, ma alla fine della riflessione come interpretare il silenzio che seguirà a quella domanda?

«Forse», accenna p. Wilkowski, occorre saper morire per poter risorgere. Concetto non lieve, se applicato a situazioni concrete. «Si deve piuttosto imparare a lasciare in modo consapevole e maturo tutto ciò che è relativo, temporaneo. Questa è l’ars moriendi. Si deve imparare a rinunciare, se necessario, a certe forme di espressione per assimilarne altre. Si deve riscoprire il valore di vivere nella povertà delle forme, nell’esperienza della sofferenza», sembra quasi, se posso permettermi, un modo garbato di annunciare e preparare alla fine, come parrebbe confermare la frase che segue, un vero strappo dall’astratto al concreto: «E non si deve percepire la chiusura del monastero come la fine del mondo e allo stesso tempo come un fallimento personale».

E si torna così agli aspetti pratici più impellenti. Incentivare la creazione di «Carmeli-infermerie» per assistere le monache anziane? Come risolvere il problema delle sorelle che si ritrovano senza il monastero in cui hanno vissuto per mezzo secolo? Come mantenere vivo il senso di comunità dell’intera famiglia carmelitana? Cosa significa, aggiungo io, l’insistenza sulla «formazione permanente» di fronte all’estinzione delle comunità?

La conclusione di p. Wilkowski sintetizza, con una punta di particolare enfasi, questa compresenza di lucidità e vaghezza: «Uno degli elementi essenziali del carisma teresiano è il realismo: camminare nella verità. I tempi attuali richiedono questo realismo. E questo è difficile. […] Senza questo realismo il Carmelo teresiano sarà perduto».

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  1. Rafał Aleksander Wilkowski, ocd, Il carisma nel Carmelo teresiano femminile, in «Rivista di vita spirituale» a. 76 (2022), n. 4, pp. 427-451.

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Con sorpresa di molti (Paul Quenon e la vita inutile)

Gethsemani 2023 01

Abbazia di Gethsemani (foto Potts)

 Ho avuto modo di tornare su un libro che avevo letto qualche anno fa, In Praise of the Useless Life, Elogio della vita inutile1, il cui autore, Paul Quenon, è monaco trappista presso l’Abbazia di Gethsemani, a New Haven, in Kentucky, da oltre sessant’anni e vi ha passato la prima parte del suo noviziato sotto la guida di Thomas Merton, che quella abbazia a suo modo ha reso famosa. Allora, ad attrarre la mia attenzione era stato, oltre alla testimonianza su Merton, il capitolo dedicato agli eremitaggi che sorgevano nei dintorni dell’abbazia; questa volta, invece, il libro mi ha colpito per la quantità di particolari che, mi sento di poter dire, soltanto un monaco americano poteva scegliere di includere nel suo testo.

Si tratta di osservazioni, immagini, paragoni, piccoli aneddoti che restituiscono una concretezza che un monaco europeo, forse avrebbe evitato, per pudore o per non dare l’impressione di eccessiva «ordinarietà» e quotidianità al racconto (per episodi) di una vita dedicata alla ricerca di un rapporto più intimo con Dio.

Quando ad esempio parla dell’utilità di mandare a memoria poesie, salmi, brani della liturgia fr. Paul ricorda che «un mattino l’anziano fr. Claude, mentre aiutava il cuoco a pulire le verdure, si lanciò in un medley di vecchie canzoni di Broadway, addirittura precedenti la Prima guerra mondiale». Per far capire lo «sballottamento» che può produrre la lettura dei Salmi dice che è un po’ come quando, «da bambini, seduti sui sedili posteriori della Chevrolet nera di papà, molto prima che fossero obbligatorie le cinture di sicurezza, attraversavamo veloci le colline della Virginia del West» – sballottati su e giù, appunto. La sveglia che punta per alzarsi per l’ufficio notturno e che poi non sente perché ha messo la testa sotto il cuscino; il calendario che gli mandano quando scrive per la prima volta all’abbazia e le foto che lo affascinano; il giradischi col quale ascolta le sinfonie di Bruckner mentre è in ritiro all’eremitaggio; la piccola macchina fotografica che tiene in una delle capienti tasche del saio. Oppure, ripensando a lungo viaggio in auto per seguire alcuni corsi a San Francisco, ricorda ancora «le autostrade che attraversano i Great Plains: così ampie, e vuote. Potevo sistemare il Salterio sul volante e recitare l’ufficio divino mentre guidavo (non è una pratica che deve essere imitata, tuttavia)». E l’annuncio dato in refettorio della morte di Merton, paragonato a quello della morte di J.F. Kennedy: «Il tempo si fermò». E il ricevimento nell’ufficio dell’abate in onore di un famoso poeta che aveva tenuto una conferenza all’abbazia: «Qualche morceaux di formaggio trappista, la nostra crostata e un assaggio del celebrato bourbon del Kentucky».

Gethsemani 2023 02

Il coro dell’Abbazia di Gethsemani (foto Potts)

 Il capitolo dedicato alla recitazione dei Salmi («Una vita di canto e musica») mi è stato inoltre di grande aiuto per capire meglio. Anzitutto lo sforzo di mettere a punto il canto collettivo è un’attività che ha un valore in sé (la partecipazione di tutta la comunità, il contributo del singolo e l’accordo, la fusione). La recitazione, poi, non è sempre uguale, non va immaginata come una pratica immutabile. Fr. Paul lo dice molto chiaramente: «Talvolta seguo il significato delle parole, altre volte la mia mente scivola in un casuale flusso di coscienza, oppure semplicemente si perde». Poi, però, una singola parola, una frase emerge, per inabissarsi di nuovo; un intero salmo passa nell’indifferenza, ma all’improvviso uno scatto riaccende l’attenzione: si accorge di pronunciare parole che dicono con esattezza lo stato d’animo del presente. Anno dopo anno «ho l’impressione che quelle non siano soltanto le mie parole, sono le nostre parole, e mi abbandono a una voce più vasta della mia». È la voce dell’umanità. «Quanto è bello essere tirato al di là dei soliti limiti dei tuoi pensieri e delle tue parole, essere spinto a pronunciare parole che non diresti mai… […] Le emozioni vengono sempre prima della dottrina, quando si canta la Scrittura.»

Queste e altre osservazioni sulla vita quotidiana del monaco, o almeno di Paul Quenon, monaco trappista da sessant’anni, sono sempre offerte con un tono piano e privo di qualsiasi enfasi, e credo mi abbiano fatto fare un piccolo passo avanti nella comprensione (anche circa il valore delle testimonianze monastiche): «Nel complesso credo che monache e monaci debbano condividere con gli altri qualche momento della loro vita (per quanto modesto possa essere). Con sorpresa di molti, questo mondo continua a essere un posto in cui esiste il monachesimo, e noi monaci facciamo bene a far sì che la gente ne possa cogliere anche una vaga idea, sia che sia disposta a prenderlo sul serio o no».

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  1. Paul Quenon, In Praise of the Useless Life. A Monk Memoir, foreword by Pico Iyer, Ave Maria Press 2018.

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Consueti, regolari, «ordinari» (Dice il monaco, CV)

Dice Paul Quenon, ocso, monaco dell’abbazia di Gethsemani in Kentucky:

La natura stessa mi insegna il distacco in virtù della sua caducità. Il mutamento è intrinseco alle cose, e io posso semplicemente fermarmi e accogliere il mutamento come una lezione di vita. Non si può sviluppare un grande attaccamento là dove nulla dura a lungo: anche l’incanto delle mattine più luminose svanisce, persino l’intatto paradiso della primavera in Kentucky mi lascia insoddisfatto. Il cuore sa che non è abbastanza, e ambisce a qualcosa di più. Chiamarla «desolazione» sarebbe eccessivo. Le stesse meraviglie del mondo pare dicano: «Non siamo abbastanza». Il meglio che posso fare è prendere le cose come sono, e come sono lasciarle. Il passare dei giorni e la routine quotidiana della comunità rinforzano questo «naturale esercizio». Essere consueti, regolari, «ordinari» è un modo di essere autentici. Alzarsi al suono della campana significa essere pronti ad abbandonare qualcosa per prepararsi a qualcos’altro, e questo cambiamento, questa alternanza è al tempo stesso una sfida e un sollievo: anche lasciare il coro e andare al lavoro è un sollievo. La giornata del monaco offre un ritmo, un continuo lasciare, prendere, lasciare di nuovo e riprendere: è un allenamento al distacco, mediante il quale posso dimenticarmi di me stesso, perché il più delle volte non ho il controllo della situazione, non devo prendere decisioni. Persino l’idea del mio progresso spirituale si smarrisce a fronte di ciò che sta accadendo qui, adesso, vicino. Possibile che sia così semplice ciò che Gesù intendeva dicendo: «Il regno dei cieli è vicino»?

♦ Paul Quenon, In Praise of the Useless Life. A Monk Memoir, foreword by Pico Iyer, Ave Maria Press 2018, pp. 50-51.

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«Agatone, non farlo» (A scuola dai padri del deserto, pt. 2/2)

GouldLaComunità2 (la prima parte è qui)

Dopo aver affrontato il rapporto maestro-discepolo, all’interno delle comunità monastiche primitive, Graham Gould1 allarga la visuale ai rapporti con il prossimo in genere, e il discorso si fa ancora più interessante, perché gli aspetti, le dinamiche, i problemi che emergono sono quanto mai vicini a noi lettori contemporanei. Non bisogna dimenticare, peraltro, che i Detti dei padri del deserto non sono un’«opera» strutturata e coerente, bensì accolgono, come già si accennava, fenomeni apparentemente contraddittori: ricerca della solitudine e senso di comunità, silenzio e parola, inflessibilità (verso se stessi) e misericordia (nei confronti dei fratelli), entrambe a oltranza, e così via2. Sono la testimonianza di un gruppo di individui che, praticando un instancabile discernimento, si sforzano di inseguire il bene e di rispondere alla chiamata di Dio (alla domanda: «Che cos’è un monaco?» Giovanni Kolobos rispose: «Fatica. Poiché in ogni azione il monaco deve sforzarsi. Questo è il monaco!»).

Ecco allora che, uno alla volta, emergono e vengono affiancati una serie di comportamenti e insegnamenti che brillano come se fossero appena additati e pronunciati. L’ambito più frequentato dai padri è quello relativo all’ira, al giudizio, alla lite e alla calunnia: quattro circostanze, di evidente «ispirazione» demoniaca, da fuggire a qualsiasi costo. All’ira non bisogna mai cedere, resistendo anche alla tentazione di puntualizzare e di ribattere, sottraendosi senza discutere alle situazioni di conflitto (situazioni cui sarebbe consigliabile addirittura di non assistere: accusato di non essere intervenuto nella lite tra due fratelli [che quindi accadevano], Poemen rispose: «Mettiti bene in mente che io non ero qui»). Ancor più da evitare è il giudizio sull’altrui condotta, per non peccare d’orgoglio, per non arrogarsi una prerogativa che è soltanto di Dio, per non cadere nei tranelli del demonio e per non dimenticare le proprie debolezze: al limite accusare se stessi, mai gli altri. «Agatone, quando vedeva qualcosa che il suo pensiero avrebbe voluto giudicare, diceva a se stesso: “No, Agatone, non farlo”. E il suo pensiero si acquietava». E abba Giuseppe, interrogato da Poemen sul diventare monaco, così rispondeva: «Se vuoi trovare pace in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza, di’: “Chi sono io?”. E non giudicare nessuno».

E se si è oggetto di giudizio, se non di calunnia? Niente, fermi, indifferenti, alla lode come all’insulto: «Dobbiamo diventare come questa statua che non si turba né quando è offesa, né quando è lodata», dice abba Anub. La questione della lode, d’altra parte, è legata con sottile distinzione al punto di vista: la lode ricevuta è male, perché ottunde, e perché di sicuro non è meritata, ma la lode offerta è bene, poiché innalza l’altro al di sopra di noi. Meglio ancora la lode testimoniata: «Quanto senti un anziano [abba Matoes, nella fattispecie] che loda il suo prossimo più di se stesso, sappi che è giunto a grande misura: questa infatti è la perfezione, lodare il prossimo più di se stessi».

L’altro dunque, anche per chi lo fugge ritirandosi in una grotta, resta paragone, specchio, occasione di bene, sentinella contro il male, «terreno» sul quale misurare se stessi e le proprie mancanze. Ed è anche colui verso il quale la nostra capacità di «comprensione», pallida ombra della infinita misericordia divina, deve esercitarsi senza sosta. Se i padri rivolgono costantemente a se stessi uno sguardo severo e inflessibile, quando si volgono al fratello sono pronti a sciogliersi.

E su questa nota concludo la mia incompletissima lettura di un libro che, tra gli altri meriti, ha quello di far ripassare al lettore molti dei Detti più belli e interessanti della raccolta, citando questo esempio, perfetto e dolcissimo: «Alcuni anziani si recarono da abba Poemen [ancora lui, uno dei più grandi, se non il più grande, e mi perdonerà se lo esalto…] e gli chiesero: “Se vediamo dei fratelli che sonnecchiano durante la liturgia, vuoi che li scuotiamo, perché rimangano desti durante la veglia?”. Ma egli disse: “Veramente, se io vedo un fratello che sonnecchia, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».

(2-fine)

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  1. Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001 (trad. di The Desert Fathers on Monastic Community, 1993).
  2. «Sarebbe in ogni caso sbagliato negare l’esistenza di comportamenti differenti o affermare che il parere espresso in un apoftegma debba essere in armonia con gli altri», pag. 158.

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«Occorre che sia tu a dirmelo» (a scuola dai padri del deserto, pt. 1/2)

GouldLaComunità2 Ancora i padri del deserto? Certo, sempre. L’occasione mi è stata offerta questa volta dall’ottimo volume di Graham Gould, La comunità1, che attraverso una lettura minuziosa dei Detti dei padri esplora gli aspetti apparentemente contraddittori dell’esperienza del monachesimo primitivo egiziano, con particolare riguardo ai rapporti personali e alla contrapposizione, anch’essa apparente, tra solitudine e comunione.

È assai utile, a inizio lettura, essere richiamati sul fatto che le raccolte dei Detti, come via via sono state affidate alla scrittura, siano intese anche come «un archivio duraturo» dello sviluppo di una comunità desiderosa di «salvaguardare una visione chiara» delle proprie origini2. Molto frequenti, in questo senso, sono i Detti che prendono la forma rivelatrice di «Abba Tizio dice che abba Caio diceva…» Né va dimenticato che molti testi, raccontando di incontri, colloqui e anche frizioni tra i fratelli, finiscono proprio con l’illustrare la natura dei loro rapporti.

La prima dimensione affrontata dall’analisi di Gould è quella del rapporto tra maestro e discepolo. Una relazione che, a guardarla con gli occhi di oggi, suscita al tempo stesso nostalgia, per la sua progressiva scomparsa, e preoccupazione, per le distorsioni che ancora può generare. Anzitutto il maestro, l’abba, aveva il compito di insegnare al discepolo, il nuovo arrivato, i fondamenti pratici della vita monastica (non c’era una Regola da far leggere e rileggere, come avrebbe prescritto san Benedetto) e di illustrargli i problemi che avrebbe incontrato. È una preparazione, e affinché sia efficace il discepolo vi si deve sottomettere con assoluta obbedienza, riconoscendo l’autorità e la saggezza di chi ha maggiore esperienza di lui: «[Abba Isaia] disse ancora di coloro che iniziano bene la vita monastica e si sottomettono ai santi padri: “Come accade alla porpora: la prima tintura non si scolora. E come i rami teneri si innestano e si piegano facilmente, così avviene dei novizi che vivono nella sottomissione”». Le tentazioni sono pericolose per i novizi perché sono sconosciute, non ne hanno fatto ancora estesa esperienza, e «nessuno può essere di aiuto a se stesso soprattutto quando è oppresso dalle passioni». Dopo un atto di volontà di prima grandezza come quello di voler cambiare vita, curiosamente, si potrebbe dire, «la rinuncia alla propria volontà costituisce la pietra miliare del vero progresso nella vita monastica».

L’obbedienza richiede anche la necessità di rivelare i pensieri, cioè l’apertura del cuore, altro aspetto cui guardiamo oggi con la medesima, inestricabile mescolanza di nostalgia e preoccupazione di cui sopra. C’è una speciale risonanza contemporanea, per così dire, in questa vicenda dell’apertura. Un detto della serie anonima contiene un dialogo illuminante al riguardo. Un monaco racconta che da giovane era afflitto da un pensiero, ma non si risolveva a parlarne con un anziano: andava a trovarlo, ma poi si bloccava, finché lo stesso anziano prese l’iniziativa: «Egli si voltò e vedendomi tormentato mi batté il petto e mi disse: “Che hai? Anch’io sono un uomo”. Come disse queste parole, parve che il mio cuore si aprisse. Caddi ai suoi piedi e lo pregai tra le lacrime dicendo: “Abbi pietà di me”. L’anziano mi disse: “Che hai?”. Risposi: “Non sai che ho?”. Ed egli disse: “Occorre che sia tu a dirmelo”. Allora con grande vergogna gli manifestai la mia passione ed egli mi disse: “Perché per tanto tempo ti sei vergognato a parlarmene? Non sono anch’io un uomo? Tuttavia, se vuoi, ti dico quello che so”». L’equilibrio qui è molto delicato, ma ugualmente il momento è bellissimo.

Inutile sottolineare, ribaltando la prospettiva, la responsabilità che deriva al maestro da questo tipo di rapporto. Responsabilità che ha il suo perno nel discernimento, il quale a sua volta «implica l’abilità dell’abba di distinguere tra le diverse capacità spirituali di persone differenti e di comportarsi, rispetto alle loro tentazioni, in modo adeguato». La parola dell’abba dunque non è mai generica, ma sempre personale, ed è basata sulla propria esperienza, e deve sempre accompagnarsi all’esempio, in «una testimonianza concorde di parola e vita».

Vi sono alcuni di esempi di fallimento del rapporto, o di insofferenza da parte di uno dei due «attori». Alcuni anziani, ad esempio, manifestano una certa riluttanza all’insegnamento e talvolta reagiscono col silenzio alle domande (cosa che rappresenta comunque un insegnamento). Nel complesso, però, prevalgono la comprensione e la carità, che si traducono anche in una sorprendente flessibilità di fronte ai vari casi che si presentano. L’abba è colui che è capace di trovare il modo giusto, per quanto strano possa essere, di rispondere alla richiesta di aiuto del discepolo, come in questa magnifica storia, sempre dalla serie anonima, così riassunta da Gould: «Un anziano incoraggiò il suo discepolo a resistere alla tentazione della fornicazione, ma quando il discepolo gli rispose: “Abba, non riesco più a resistere al peccato”, l’abba cambiò tattica, passando dall’incoraggiamento al coinvolgimento. “Anch’io sono tentato, figliolo. Andiamo insieme, facciamo la cosa e ritorniamo nella nostra cella”. Quando arrivarono alla casa della prostituta, l’anziano entrò, con il pretesto di incontrarla per primo, ma una volta dentro la convinse a non contaminare il fratello. Allorché il fratello entrò (presumibilmente credendo che l’anziano avesse già peccato), ella lo persuase a pregare prima di peccare e, “dopo venti o trenta metanìe”, il fratello, preso da compunzione, uscì incontaminato».

(1-segue)

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  1. Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001 (trad. di The Desert Fathers on Monastic Community, 1993).
  2. «Abbiamo a che fare con un prezioso archivio della vita concreta, in parole e opere, delle comunità monastiche di Scete e del basso Egitto», pag. 43.

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«Un po’ come Dio» (La «Vita di san Bernardo» di Robert Thomas)

VitadiSanBernardo02 Così come tendo a leggere le opere di autori monastici senza troppo riguardo alla cronologia, come se fossero il frutto di un eterno presente del fatto monastico, allo steso modo mi comporto con la relativa letteratura critica e storiografica. Non è molto giusto, lo so, ma ugualmente non rinuncio a leggere libri che potrebbero dirsi «superati», in particolare le biografie, per il piacere di «stare in compagnia» dei loro soggetti. E quindi ben venga aver trovato questa Vita di san Bernardo, scritta dal trappista Robert Thomas1, monaco del 1928 al 2002 di Sept-Fons (di cui fu anche priore) e fondatore dell’iniziativa editoriale «Pain de Cîteaux», dedicata alla divulgazione delle opere dei padri cistercensi. Quanto poi sia «superata» non saprei nemmeno dire, mentre di sicuro è caratterizzata da un abbondante, e per l’epoca relativamente nuovo, uso di citazioni, sia dalle opere di san Bernardo, sia da quelle dei suoi primi biografi. Ne risulta una bella camminata al suo fianco, dal noviziato a Cîteaux («i pochi mesi in cui sarà un semplice monaco») alla fondazione e all’abbaziato a Clairvaux, e poi in giro per la cristianità, ascoltando la «voce» dei suoi trattati, dei sermoni e delle lettere.

Al di là dei suoi mirabili scritti, ampiamente esposti dal Thomas, sono tanti i particolari che, come ogni ben disposto lettore di agiografie, un po’ mi inquietano e un po’ mi affascinano. Nel 1112, quando bussa a Cîteaux, per chiedere di esservi ammesso, si presenta con trenta compagni: tutti i fratelli, meno uno, troppo giovane, uno zio, un po’ di cugini e diversi amici. Quando alcuni parenti lo vanno a trovare a Cîteaux, ancora novizio, per non ascoltare i loro discorsi frivoli e «mondani» si mette della stoppa nelle orecchie e fa finta di ascoltare. Quando i suoi confratelli, tra le vigilie e le lodi, si ritirano per riposare, lui esce nelle campagne circostanti l’abbazia e continua a pregare, da solo. Se mangia «è per evitare di cadere, di avere un mancamento. Ancor prima di incominciare, al solo pensiero che deve mangiare, è già sazio». Non si dà pace finché tutti i membri della sua famiglia, a parte la madre Aleth, «volata in cielo», non sono entrati in un monastero, compresa Umbelina, l’unica sorella, «sposata e che non pensava affatto alla vita monastica». La sua cella a Clairvaux è un bugigattolo, «somigliava a una prigione; la scala ne prendeva un angolo, il tetto, con un piano inclinato, ne mozzava ancora un lembo». «Egli aveva l’abitudine di muoversi dal proprio stallo per risvegliare un monaco che vedeva un po’ addormentato in coro.» Solo nel 1133 visita il paese di Vaud e le abbazie di Alps e Hautecombe; raggiunge papa Innocenzo II a Pisa, poi va in missione a Genova, quindi ritorna dal papa a Grosseto; in aprile è a Roma, a giugno a Blois, poi a Bèze e in autunno a Jouarre… Quando sta tornando «a casa», i suoi confratelli gli vanno incontro, «si precipitano ai suoi piedi, si rimettono in piedi per abbracciarlo, poi lo conducono con gioia a Clairvaux intrattenendosi con lui… La gioia era calma, e senza dissipazioni…» Quando muore il suo amato fratello Gerardo non versa una lacrima, ma il giorno dopo, durante il sermone, non resiste: «Perché mi sei stato strappato? Come sei stato strappato bruscamente dalle mie mani, tu, che facevi con me un’anima sola, tu, l’uomo secondo il mio cuore!» E così via.

Unico e inconfondibile Bernardo: ispirato, incendiario, talvolta sbrigativo e tagliente, avversario da temere e amico da amare senza riserve. È un po’ sciocco dirlo, ma come mi sarebbe piaciuto poterlo incontrare: «È gracile, non ha salute, ma il suo viso, i suoi occhi soprattutto impressionano, attirano, soggiogano. Ha l’aria timida e non ha paura di nessuno. Ha uno strano potere di affascinare. Qualcosa di divino emana dalla sua persona, incute soggezione e attira: è un po’ come Dio, al tempo stesso temibile e affascinante». Oggi come allora.

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  1. Robert Thomas, Vita di san Bernardo, traduzione del Monastero di San Giacomo di Veglia, Borla 1991 (trad. di Vie de Saint Bernard, O.E.I.L. 1984).

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Vieni quando vuoi

C’era un anziano monaco scetiota – ho imparato che scetiota è l’aggettivo di Scete, località del deserto egiziano dove si «coagulò» una delle comunità monastiche primitive, e non ho resistito alla tentazione di usarlo… Dunque, l’anziano monaco, «molto zelante nelle fatiche del corpo, ma non acuto nei pensieri», era afflitto da un problema assai comprensibile anche oggi: la dimenticanza. Allora va da abba Giovanni per chiedergli consiglio. Lo ascolta con attenzione, ringrazia, torna nella sua cella e… non si ricorda più niente. Uffa. Rivà, riascolta («le stesse parole»), ritorna: daccapo, niente. Eh, ma che diamine. Ci riprova ancora, e ancora, e ancora, «ma, mentre ritornava indietro cadeva vittima della dimenticanza». Okay, non c’è niente da fare, non posso andare ancora dall’abba… Qualche tempo dopo, si direbbe una sera, l’anziano incontra per caso l’abba e gli confessa: «Sai padre, che ho dimenticato ancora quello che mi hai detto? Ma, per non disturbarti, non sono venuto». Ma no, non dovevi, gli risponde Giovanni, e sai perché? Allora lo manda a prendere una lucerna e gli dice di accenderla. Poi lo manda a prenderne altre, gli dice di accenderle tutte con la prima e infine gli chiede: «È forse diminuita la luce della prima lucerna perché da quella hai acceso le altre?» No di certo! Ecco, spiega l’abba, «nemmeno Giovanni; anche se tutta Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Cristo; perciò vieni quando vuoi, senza esitare».

So che non c’è alcun bisogno di ri-raccontare i detti dei Padri del deserto, la cui essenzialità rasenta la perfezione narrativa, ma credo che la tentazione (e due) di farlo derivi da quella eccezionale combinazione di storicità e astoricità che li caratterizza: si legge una storiella di due anziani un po’ bizzarri, sperduti in un deserto inospitale, e al tempo stesso (ci) si racconta una circostanza immutata della nostra condizione.

E così, anche senza «scomodare il trascendente», viene fuori la comprensione dei propri limiti (se anche non si vogliono chiamare mancanze o imperfezioni); l’umiltà di riconoscere di avere bisogno di consiglio (da notare che a chiederlo non è un giovane a un anziano, ma un anziano a un coetaneo: si chiede a chi sa, non c’entra l’età); la disponibilità a darlo (e la responsabilità che questo comporta); il tatto di non voler gravare oltre misura il prossimo con i propri difetti; la pazienza e la comprensione (e l’intelligenza di escogitare l’esempio perfetto – la luce che non si consuma – per fugare i sensi di colpa dell’altro); la condivisione a oltranza della conoscenza («anche se tutta Scete venisse da me», detto da un anacoreta che si era ritirato in solitudine!); la gentilezza dell’invito di un amico («vieni quando vuoi, senza esitare»).

Il commento dell’anonimo estensore del «detto» ricontestualizza, per così dire, la storia e ne ricava l’esemplarità, senza spegnerne il brillìo: «Questo è il compito di monaci di Scete, dare coraggio a coloro che sono tentati e fare violenza a se stessi, per guadagnarsi reciprocamente al bene».

♦ Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova (1990) 20085, pp. 236 (Giovanni Nano, 18).

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