Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione, o forse proprio per questo motivo, il libro che Georges Duby ha dedicato all’arte cistercense (e a san Bernardo) si legge con grande piacere, e direi anche con grande profitto1. Il piacere è dovuto in gran parte al testo vero e proprio, steso in uno stile storiografico sempre meno frequentato che non rinuncia, in nome della precisione e del rigore, a un evidente impulso narrativo, sfrondato dagli apparati, che lo rende «appassionante»; mentre il profitto deriva dal fatto che la lettura di Duby del fenomeno artistico cistercense, eminentemente architettonico, potrà anche essere datata e da aggiornare (io però non lo so), ma non può essere di certo del tutto fuori fuoco.
Il «racconto» di Duby prende le mosse, e non poteva essere diversamente, da Cluny, dal suo splendore, in cui si sacrificava a gloria di Dio, e dei signori, il frutto del lavoro altrui, in cui si «conservavano» i morti, e si pregava per loro («le abbaziali del XII secolo sorgevano pertanto su uno spesso basamento di tombe»), in cui lo spazio si allargava e si ornava per dare risonanza al canto liturgico della comunità, per accogliere le processioni e per predicare attraverso la scultura figurata e la decorazione, in cui la società tripartita dava spettacolo di se stessa, con un posto assegnato a ogni «personaggio», compreso il «povero».
Questo modello apparentemente immutabile non regge allo «slancio del XII secolo», che partendo dal mondo agricolo investe tutto («l’arte cistercense nasce e fiorisce nella fase di maggior vivacità di un lunghissimo movimento di crescita agricola… si sprigiona da questa stessa fertilità») ed esige e produce nuove forme in ogni campo. Nella luce della crescita economica, tutto, se così si può dire, appare nuovo, persino la povertà, o perlomeno da rinnovare, e il monachesimo non sfugge a questa spinta: ci vuole un «nuovo monastero», Cîteaux. Spoglio, essenziale, funzionale, «ripulito» e «nudo», costruito in radure remote sottratte a forza alla foresta («l’arte cistercense incomincia con il creare la radura»), eremo e chiostro al tempo stesso: un luogo dove pregare e lavorare, e tornare alla lettera della Regola benedettina, e seguire più da vicino Gesù sulla strada indicata da Vangelo.
Da lì, dopo un apprendistato, un «riscaldamento», nemmeno troppo lungo fa irruzione Bernardo, facendo risuonare la sua parola «irresistibile e riecheggiata sino ai confini del mondo». Una «incessante, pungolante aggressione», la chiama Duby, contro gli altri monaci rilassati, contro i signori, contro i vescovi, contro la scuola e i suoi «pensatori», contro i crociati tiepidi, contro i rivoltosi, contro la curia, contro «un papa malamente eletto»: «Contro tutto».
Bernardo parla (scrive) di tutto, perché tutto conosce delle cose terrene e di quelle divine, ma non parla praticamente mai di arte, di quello che noi intendiamo per opera d’arte, non gli interessa. L’odiata «decorazione» va eliminata, per fare chiarezza, per tornare a concentrarsi sull’essenza, cioè sull’anima (la propria anima) dove si svolge la vicenda fondamentale dell’essere umano. Non ne ha mai parlato esplicitamente e tuttavia l’arte cistercense gli deve tutto: «San Bernardo è veramente il patrono di quel vasto cantiere e, come si dice, il maestro dell’opera. La sua parola ha governato, come il resto l’arte di Cîteaux. Perché quest’arte è inseparabile da una morale, ch’egli incarnava, che voleva a ogni costo imporre all’universo, e in primo luogo ai monaci del suo ordine».
All’universo.
(1-segue)
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- Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).
Sono contento quando iniziative editoriali mi consentono di leggere opere, oggi etichettabili come «oscure», ma che in altri tempi non lo erano affatto, essendo state anzi assai diffuse e molto lette, tanto da conquistare un’altra etichetta, quella ad esempio di «classico della spiritualità medievale». È il caso delle Pie meditazioni sulla conoscenza della condizione umana1, operetta («tractatulus») di ambiente monastico, benedettino, databile tra il 1160 e il 1190. Spesso attribuite in passato a Bernardo di Chiaravalle, le Meditazioni vantano una ricca tradizione manoscritta di circa 250 esemplari (che le presentano da sole o in compagnia di altre opere), cui sono seguite numerose edizioni a stampa, nonché traduzioni in francese, tedesco, italiano, portoghese, fiammingo, ungherese, danese, svedese e islandese. «Oggi, forse, il testo», osserva la curatrice Milvia Fioroni (si noti quel «forse»), «non è più al centro delle pubblicazioni, ma questo tipo di letteratura si trasferisce dal campo della spiritualità a quello della ricerca storica.» Be’, forse, non è esattamente così, o meglio, è senz’altro così, ma non solo.
Ho poi
La sapienza del cuore1 rappresenta uno degli esempi più tipici di quei libri di «cose monastiche» che non leggo per motivi di conoscenza storica e inquadramento di un fenomeno culturale bensì per… per cosa? Come definire lo scopo di una lettura del genere senza ipocrisia né autocompiacimento? Forse la formulazione più onesta è quella di «conoscenza personale»; forse si può persino rispolverare il concetto di «edificazione». Poi, con una punta – in questo caso sì – di condiscendenza verso le mie fantasie, posso immaginare di essere seduto tra gli uditori dei sermoni di san Bernardo ed esserne chiamato direttamente in causa. Oggi.