Sicuramente (Dice il monaco, CXII)

Dice Bernardo di Chiaravalle, scrivendo all’arcivescovo Enrico di Sens, intorno al 1138:

Mi stupisco che alcuni abati del nostro Ordine monacale violino con aggressiva contestazione questa regola dell’umiltà, e – ciò ch’è peggio – nutrano una superba visione delle cose pur sotto l’umile aspetto e l’umile tonsura, sì da non sopportare che i sottoposti si lascino andare a una sola paroletta riguardo ai loro ordini, mentre essi sdegnano d’obbedire ai loro vescovi. Spogliano le chiese per rendersi indipendenti; si affrancano per non obbedire. Non così s’è comportato Cristo. […] Cos’è questa temerità, o monaci? Per il fatto che siete a capo di monaci non è men vero che siete monaci voi stessi. La professione fa il monaco e solo la necessità fa il capo. Perché la necessità non pregiudichi la professione, occorre che il senso della preminenza costituisca un’aggiunta a quello della monacazione, ma non lo sostituisca. […]

Io sono sicuramente un monaco [«Certus sum enim ego monachus»], e per combinazione abate di monaci [«et monachorum qualiscumque abbas»], ma se a un dato momento mi adopero a scuotermi di dosso il giogo del mio pontefice, mi sottopongo senz’altro alla tirannide di Satana.

♦ Bernardo di Chiaravalle, Lettera XLII, 33, 35, in Lettere, Parte prima 1-210, introduzione di J. Leclercq, traduzione di E. Paratore, commento storico di F. Gastaldelli («Opere di San Bernardo», VI/1), Città Nuova 1986, pp. 239-243.

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Sì, d’accordo, i classici…

MedioevoMonastico Sì, d’accordo, i classici, però «in verità, quando si siano letti e riletti con grandissima passione e fatica, null’altro lasciano ai lettori se non vacua sonorità e rumor di parole» (Girolamo); diamogli comunque una letta, perché «se hanno detto per caso qualcosa di vero e conforme alla nostra fede… lo si deve rivendicare per il nostro uso» (Agostino). E se qualcuno «non saprà leggere, alle ore prima, terza e sesta andrà da chi lo può istruire… e, anche se non vuole, sarà costretto a leggere» (Pacomio) almeno qualcuno dei libri «che vi ho lasciato in unico armadio» (Cassiodoro). Occhio che «se qualcuno ordisca o tenti di sottrarre… anche uno solo di questi libri sopra elencati, non abbia parte nella resurrezione dei giusti, ma abbia parte con quelli che, posti alla sinistra, saranno dannati al fuoco eterno» (cod. Casin. 57).

Per i libri prego rivolgersi all’«armarius, che è anche maestro della scuola e bibliotecario, rivestito di un’aura da filosofo, si occupa con cura diligente della biblioteca… Non sia dunque né titubante né timido, ma molto fermo e mai dimentico della carità» (Consuetudines Floriacenses); sta a lui preoccuparsi della bontà dei testi perché «sappiamo tutti benissimo che, per quanto pericolosi possano essere gli errori di parole, molto più pericolosi sono gli errori di senso» (Karolis epistola de litteris colendis): io, per il lavoro di revisione, mi sono rivolto a Paolo Diacono, «nostro fedele e amico, invitandolo a percorrere con la massima attenzione gli scritti dei Padri, come per raccogliere dagli immensi prati delle loro opere fiorellini scelti e comporre come una ghirlanda tutto quanto vi trovasse di utile» (Karolis epistola generalis de emendatione librorum). Ci sarebbe anche Beda, che però viaggia molto ed è sempre preso a «imparare, insegnare, o scrivere» ed è fissato col computo.

Testi corretti, mi raccomando, perché la grammatica è importante. Diffidate di quelli che «affermano che, poiché Dio non si discute, né si menziona nell’arte della grammatica, dove risuonano solo nomi ed esempi dei pagani… può a ragione essere da loro respinta e ignorata. Evidentemente non sanno che insegnare una disciplina tecnica è una questione ben diversa dal parlare di Dio» (Smaragdo) e «senza colpa, anzi in modo lodevole, apprende quest’arte chi… desidera possedere la scienza del parlare correttamente e l’abilità dello scrivere». Anche perché, spesso, nelle Sacre Scritture «il senso, se inteso secondo il significato letterale delle parole, risulta assurdo» (Rabano Mauro); quindi leggiamo pure i poeti pagani per imparare la grammatica, mentre «i discorsi superflui sugli idoli, sull’amore, sulla cura delle cose mondane, li dobbiamo sradicare, radere a zero e tagliarli col ferro più tagliente, come si fa con le unghie» (Girolamo); «bisogna leggere le opere degli autori… chi si sarà abituato al loro stile, parlerà, senza neanche volerlo, in modo elegante» (Alcuino di York).

Ah, non dimentichiamo l’aritmetica, eh? «Se non assumerai come dato certo e inamovibile che il potere dei numeri risiede sia nel contenere in sé il principio di ogni cosa, sia nella loro facoltà generativa, non progredirai rapidamente verso la loro piena e perfetta comprensione» (Gerberto d’Aurillac); che poi noi «non si spese di meno nell’insegnamento della geometria, per la cui introduzione si fece costruire un abaco» (Richerio di Reims): si sa, d’altra parte, che «l’utilità di questa disciplina è estremamente grande… perché è la più sottile per stimolare i poteri dello spirito e dell’intelletto, per affinare la capacità di osservazione e la più piacevole per indagare con il potere della ragione molte cose definite vere, che sembrano a molti strane e sorprendenti» (Gerberto). Io, se devo essere sincero, «sia nei momenti di studio personale, sia nel mio lavoro, insegno ciò che so e imparo ciò che non so» (Gerberto).

Per quanto riguarda la musica – che «tra tutte le discipline nessuna ha via più diretta per raggiungere l’anima di quella che coinvolge l’udito» (Boezio) – ricordarsi che «il cielo e la terra e tutte le cose che in essi si compiono, per divino beneplacito, non si danno senza disciplina musicale» (Cassiodoro) e rivolgersi a Ucbaldo di Saint-Amand («Chiunque desideri essere iniziato ai rudimenti della musica… dovrà porre particolare attenzione alla qualità delle note, ossia all’altezza di ciascuna di esse»), ma soprattutto a Guido d’Arezzo, che mi ha scritto che ha messo a punto un sistema «affinché d’ora in poi, per suo mezzo, chiunque dotato di intelligenza e dedito allo studio impari facilmente il canto»; dice che dopo l’abc non c’è nemmeno bisogno dell’insegnante, e ha aggiunto che «se c’è qualcuno che pensa che io menta su questo, venga, sperimenti e veda [venga, sperimenti e veda!] che da noi fanno proprio in tal modo i ragazzi» (Guido).

In ogni caso, suggerisco anche di tradurre, poiché «quanto più facilmente si comprende nella propria lingua, ciò che si comprenderebbe a stento o solo in minima parte in una lingua straniera» (Notkero). E se vi mancano dei libri, «poiché non posso sostenere i costi dell’allestimento, mandatemi molti fogli di pergamena e ricompense per gli scribi e riceverete delle copie» (Notkero).

Con viva cordialità.

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Un piccolo giochino per ribadire l’eccezionale qualità del libro di Lidia Buono, Medioevo monastico nello specchio dei libri, di cui ho già detto qualcosa e dal quale sono tratte tutte queste citazioni.

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Dai dotti e parimenti dagli indotti (Voci, 32)

HistoriaMonastica Nel 1561, e in edizione accresciuta nel 1575, Pietro Ricordati (anche Calzolari), monaco benedettino e «indagatore eruditissimo», dà alle stampe una monumentale Historia monastica, un «enorme zibaldone storico-narrativo, in forma di repertorio cronologico» che mira a ricordare al mondo la gloria passata dell’ordine benedettino che all’epoca si diceva ampiamente decaduto. Con evidente riferimento al modello boccaccesco, l’immensa materia è ordinata – o forse bisognerebbe dire accatastata – in cinque giornate ed esposta in forma di dialogo, di reciproco racconto, tra un gruppo di religiosi, avviato in uno dei chiostri del monastero di Santa Giustina a Padova.

Verso la metà della quarta giornata, nella quale «si raccontano gl’huomini dotti, che sono stati Monaci, che in qual si voglia professione hanno scritto», si legge un breve profilo del monaco tedesco noto prevalentemente come Niccolò Germano, attivo nella seconda metà del secolo XV. Un piccolo ritratto che è l’occasione per un’interessante precisazione.

* * *

Di Niccolò Cosmografo.

Dopo costui [il monaco cui era dedicato il profilo precedente, Andrea Tedesco] fu fra i Tedeschi un altro gran Litterato Monaco chiamato Niccolò, il quale hebbe delle sacre lettere assai buona cognizione, ma nelle scienze humane fu consumatissimo. Studiò molto svegliatamente la Cosmografia di Tolomeo, e la ricorresse, e la restaurò con gran giudizio e diligenza. Onde è miracolosa cosa il vedere adesso la Cosmografia di esso Tolomeo, da lui ricorretta con le sue pitture, e nuove tavole diligentemente ordinate, e con grande accortezza ricorrette. Scrisse sopra tal materia sette libri, i quali dedicò a Papa Paolo secondo. Un libro de’ Luoghi maravigliosi. Uno di pistole a più persone, & altre cose non poche. Visse sotto Federigo terzo intorno a gl’anni del nostro Salvatore 1470.

Ripigliando qui le parole, M. Bernardo [Olgiati, gentil’huomo di Como] disse: «Io credo che uno il quale, in un luogo dove fussero più persone, dicesse, senza venire al particolare, che i Monaci non solo hanno promossa la Teologia, e condottala a perfezzione, ma tutte l’altre scienze ancora, come la filosofia naturale e morale, la Medicina, l’Astrologia, Cosmografia, Geometria, Musica, Rettorica, Poetica, e parimente le leggi e politezza delle lingue, sarebbe da tutti sbeffato e schernito. Perché se bene si sa che quel Costantino aiutò & arricchì l’arte della Medicina, componendo e traducendo tante e sì belle cose d’essa facultà, e che la Musica è stata ridotta in su la Mano, e che è stato fatto il Decretale, & il Decreto, e che quel Panormita fu la lucerna delle leggi, e che questo Niccolò abbia tanto maravigliosamente illustrato Tolomeo, e che quell’Ambrogio, e tanti altri, habbino avuto sì gran cognizione delle lingue, & arricchita la latina col tradurre tante belle opere della Greca: non dimeno non si sa che quelli che queste cose hanno fatte sieno stati Monaci. E se bene si sa per tutti che S. Bernardo è stato Monaco, non però sa il mondo ch’egli per la Republica Christiana tanto s’affaticasse, trovandosi in tanti Concilij a disputare contro a gl’heretici e scismatici; né che i Papi e gl’lmperadori, i Re & altri Principi si governassero nelle cose importantissime secondo il suo consiglio. Però io pagherei buona cosa che ciò che qui s’è detto si sapesse da tutti gl’huomini. Perché gl’indotti harebbono molto più rispetto e reverenza all’ordine Monastico, che non hanno. E i litterati si terrebbono non poco a esso ordine obligati. E s’io fussi uno di voi altri Monaci, vorrei comporre un libro di tutte le cose che qui fra noi si sono dette, e diranno, per isgannare il mondo, che crede che la maggior parte de’ Monaci, e per il passato & al presente, si sieno dati e si dieno all’ozio, né sappiano far altro che cantar in Coro & andare in refettorio; e lo vorrei fare stampare in lingua volgare, acciò che dai dotti e parimente da gl’indotti potesse esser letto».

Rispose D. Gris[ostomo Niccolini, monaco fiorentino]: «Don Pietro qui nostro ha più volte havuto capriccio di far una simil cosa, come voi dite, e forse un dì la farà. Ma per non perder tempo, e perché mi pare che s’avvicini la sera, ripiglierò il mio parlare».

♦ Historia Monastica, di D. Pietro Ricordati, già Calzolari, da Buggiano di Toscana, Monaco e Decano di S. Paolo fuor di Roma, della Congregazione di Monte Casino, distinta in cinque giornate. Di nuovo dall’autore stesso con somma diligenzia rivista & accresciuta di molte cose notabili, in Roma appresso Vincenzio Accolti, l’anno del Giubileo 1575.

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Eghi (Schedine: Carotta; Buonaiuti)

AllaRicercaDellaBellezza Sandro Carotta, Alla ricerca della bellezza. Percorsi monastici, Nerbini 2023 («Orizzonti monastici»; 48). Il famoso e prolifico benedettino di Praglia ha raccolto in questo volumetto della rinata serie degli «Orizzonti monastici» scritti e contributi di varia dimensione e occasione, «indirizzati a tanti uomini e donne che, sempre più numerosi, cercano nei monasteri un punto di riferimento per la loro vita cristiana» – e non solo, verrebbe da dire. I titoli dei testi dicono già molto: La vita monastica come desiderio, Elogio dell’inutile, Deserto e solitudine, Formazione al silenzio, e così via. Non si cercheranno particolari approfondimenti in queste pagine, si troveranno bensì molti spunti, molti nomi (un po’ troppi, forse) e molte citazioni; e qualche interessante riflessione sull’accompagnamento spirituale: «L’eccessiva preoccupazione di sé non è indice di un cammino interiore ma può essere la manifestazione penosa e non riconosciuta del proprio narcisismo. Il direttore spirituale deve portare la persona guidata a specchiarsi in Cristo e non nel torbido dell’ego». Non sono d’accordo, ma questo non c’entra.

 

BuonaiutiFrancesco Ernesto Buonaiuti, Francesco d’Assisi, Bietti 1939. La libertà del dilettante consente di non rinunciare a leggere libri che pure non rientrano nel novero degli «studi più recenti» o delle «ricerche più accreditate». Come nel caso di questo piccolo testo che cent’anni fa il grande Ernesto Buonaiuti ha approntato su san Francesco, nell’ambito della collana «Profili» (dapprima Formiggini, poi Bietti), una serie di «graziosi volumetti… tutti opera di autori di singolare competenza», intesi a offrire «vivaci, sintetiche e suggestive rievocazioni di figure attraenti e significative». Proprio così. Tra le righe di questo ritratto – scritte in un italiano che da solo vale la lettura – ci s’imbatte poi in osservazioni che vanno oltre la figura dello joculator Domini, il «giullare di Dio», quasi simbolo incarnato della vena più autentica e rivoluzionario-contraddittoria del cristianesimo; e d’altra parte «la società nominalmente cristiana ha sempre vissuto, nel suo secolare sviluppo, di una paradossale legge di contradizioni vicendevolmente compensatrici» (il corsivo è mio). La «minoranza infinitesimale» di Francesco (concetto che riassume splendidamente molte cose: l’esiguità del nucleo originale e il bisogno di «minorità», nonché l’attenzione all’assolutamente piccolo) trova la sua strada nel mondo delle «transazioni ufficiali» in forza di una superiore necessità, tanto che quando papa Innocenzo III diede la sua «approvazione provvisoria» alla nuova forma di vita «non ebbe davvero coscienza di aver autorizzato il più superbo tentativo di rinnovamento della prima vita evangelica, che da tredici secoli la società cristiana si fosse permesso». Inquadrato nelle visioni di Gioacchino da Fiore, il Francesco di Buonaiuti è un uomo solo, ma straniero a nessuno, amato oltre misura da un piccolo gruppo di testimoni diretti per la sua «semplicità irriflessa», il suo «entusiasmo di primitivo», il suo essere allo stesso tempo, perfettamente e lietamente, dentro il mondo e fuori di esso, come nessun altro mai dopo Gesù. L’immagine, suggerita da Buoniauti, che mi porterò dietro è questa, relativa al ritiro in solitudine sul monte Subasio: «Si diede a ramingare, solitario, nella campagna, addestrandosi al misterioso linguaggio delle creature minuscole o imponenti, esili o maestose, fragile ed effimere o resistenti ed eterne che popolano la natura disabitata dagli uomini, e che noi, nella nostra egocentrica angustia mentale e nella nostra inguaribile pigrizia psichica, definiamo inanimate o inintelligenti solo perché ci siamo sequestrati dal loro consorzio e ci siamo serrati alla loro ineffabile e suggestiva parola».

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Il triplete ideale: monaci, Medioevo, libri

MedioevoMonastico Come potevo resistere davanti a un titolo del genere, che unisce tre centri di interesse sempre rinnovato: Medioevo monastico, nello specchio dei libri. Il corposo e ambizioso – a detta della stessa autrice – libro di Lidia Buono1 mira a «tracciare i percorsi attraverso cui l’ingente patrimonio culturale dell’antichità ha alimentato l’universo intellettuale del Medioevo», nella specifica declinazione monastica e ponendo al centro del discorso il libro «come medium della sacra scrittura e, in tal senso, spazio letterario e strumento d’elezione in cui si realizza l’incontro tra l’uomo e l’alterità divina». (E già qui, volendo, sarebbe bello poter decidere se anche oggi gli oggetti chiamati libri possono essere ancora luogo di incontro con una qualsivoglia alterità.)

I primi capitoli si concentrano sulla transizione tra cultura pagana e cultura cristiana, su come nelle prime esperienze cenobitiche occidentali (il Castellum Lucullanum di Eugippio e il Vivarium di Cassiodoro) viene organizzata concretamente questa transizione, per passare poi alla nascita dello scriptorium (e ai metodi di produzione dei libri, e della pergamena di cui sono fatti) e di una vera e propria biblioteca monastica (all’identificazione del luogo fisico e ai relativi sistemi di conservazione del patrimonio librario), all’impulso dato dalla riforma carolingia (ad esempio con la messa a punto di una nuova forma di scrittura corsiva, la carolina appunto) e alla creazione della schola. La seconda parte, assai ampia, è dedicata gli sviluppi della «produzione libraria» in rapporto alle singole arti del trivio e del quadrivio.

Date queste coordinate doverose, che garantiscono una lettura di un certo tipo, diremo da studiosi, va detto che il libro è pieno zeppo di cose interessanti, di informazioni tecniche, di personaggi, di citazioni (molto opportunamente tradotte), e anche di immagini molto istruttive. Grazie a una paziente ricognizione delle immagini che accompagnano i testi si può, ad esempio, imparare come si è passati dall’armarium, inteso come cassa o armadio dove vengono conservati i pochi codici disponibili, alla bibliotheca, intesa come «la piccola cella in cui vengono risposti i libri», come scrive Smaragdo di Saint-Mihiel parafrasando Isidoro per commentare Benedetto (non si tratta di name dropping, ma per ricordare che tutti si appoggiano a tutti); o dallo scriptorium come strumento di scrittura (lo stilo) allo scriptorium come luogo dove avviene la copiatura dei codici. Dice a tal proposito Alcuino di York, figura centrale del cosiddetto rinascimento carolingio: «Siedano qui coloro che scrivono le parole della sacra legge e quelle parimenti sacre dei santi Padri; e badino bene di non interporre a queste le loro frivole parole perché la loro mano, divenuta essa stessa frivola, non cada in errore. Cerchino invece con grande zelo di avere per sé libri corretti, e la loro penna veleggi sicura lungo una strada diritta. Distinguano bene il senso del discorso attraverso segmenti di significato e pongano i punti secondo l’ordine in cui devono essere posti, in modo che non legga cose false né si taccia all’improvviso dinanzi ai confratelli colui che legge in chiesa». Versi tratti da uno dei suoi carmi, a leggere tra le righe dei quali emerge una gran quantità di questioni, dalla stanchezza e dalla distrazione dei copisti che producono errori (per i quali si evoca persino la responsabilità di un vero e proprio diavolo dei refusi, Titivillus) alla necessità di procurarsi buoni esemplari, dall’importanza della punteggiatura alla lettura liturgica ad alta voce.

Già, la fatica di scrivere, come emerge dalle brevi note che ogni tanto saltano fuori dai colofoni o dagli explicit dei codici: «O felice lettore, lava le tue mani, poi prendi questo libro, sfoglialo con delicatezza, tieni le dita lontano dallo scritto. Poiché chi non conosce l’arte dello scrivere ritiene che non costi fatica alcuna. Quanto travaglio comporta invece: oscura gli occhi, spezza le reni e fiacca tutte le membra. Tre sole dita scrivono, ma tutto il corpo si affatica».

O ancora si imparano le sottili distinzioni tra armarium, inteso qui come persona, che diventa bibliothecarius, passando per il custos cartarum (che si preoccupa dei documenti) e il cantor (responsabile dei libri per la liturgia). I consuetudinari, cioè i testi che corredano la Regola di indicazioni più dettagliate e specifiche, si riempiono di precisazioni circa responsabilità e doveri di queste figure, che tendono a riassumersi in quella dell’armarium: il quale dovrà ad esempio annotare i titoli dei volumi, arieggiarli e badare che non siano aggrediti da umidità (humor parietum) o muffe, approntare adeguati scaffali in modo che siano ben collocati e accessibili (in quibus libri separatim ita collocari possint e distingui ab invicem), e che la compressione non li danneggi (ne vel nimia compressio ipsis libris noceat), verificare la punteggiatura, e così via.

Ogni pagina è ricca di esempi come questi e ne risulta un’immagine complessiva, ed esaltante, di un lavorio indefesso e di un continuo perfezionamento, anno dopo anno, codice dopo codice, riga dopo riga – un «lavoro di squadra» esteso nel tempo e nello spazio. E ogni tanto da questa schiera di anonimi emerge un nome, quello di un individuo che in un tal posto, in un tal momento ha fatto la tal cosa. Come nel caso del presbitero Emeterio, che alla fine di uno dei più bei manoscritti spagnoli del X secolo, il cosiddetto Beato di Tábara, ci ricorda più di mille anni dopo che «Io, Emeterio presbitero [Ego vere Emeterius presbiter] formato dal mio maestro, il presbitero Maius, quando vollero completare il libro per il loro Signore, fui chiamato al monastero di Tábara posto sotto la protezione di san Salvatore e quel libro che trovai solo iniziato, dall’inizio di maggio al 27 luglio, lo condussi in porto… E là sopra la prima cella [Emeterio] stette seduto per tre mesi, ricurvo sul suo lavoro e dove ne ebbe le membra squassate per l’uso del calamo. Il libro fu finito il 27 luglio, era 1008 (= 970), ore 8».

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  1. Lidia Buono, Medioevo monastico, nello specchio dei libri, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo 2023.

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Bruciato completamente (Dice il monaco, CXI)

Dice Marco il Monaco (o l’Eremita, o l’Asceta), grande «psicologo» vissuto in Asia Minore tra la fine del IV secolo e la metà del V:

Quando avremo rigettato dal nostro intelletto ogni vizio volontario, allora dovremo combattere contro le passioni che [sono in noi] per predisposizione. La predisposizione è un ricordo involontario dei mali commessi in precedenza, a cui il lottatore impedisce di progredire fino allo stadio di passione, mentre il vincitore la respinge quando è ancora allo stadio di suggestione. La suggestione è un moto del cuore privo di immagini: gli esperti la bloccano come [un nemico in] una strettoia. Quando i pensieri sono accompagnati da immagini, allora c’è già stato un consenso, perché la suggestione non colpevole è un moto privo di immagini, Ma c’è chi fugge da queste [suggestioni] come un tizzone da un fuoco, e chi invece non se ne ritrae finché le fiamme non lo abbiano bruciato completamente.

♦ Marco il Monaco, Sulla legge spirituale, 139-142, in Custodisci il dono di Dio. Opuscoli spirituali e teologici, traduzione, introduzione e note di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2023, pp. 149-50. (Un piccolo assaggio dall’ultima, notevolissima pubblicazione di Qiqajon dell’anno appena concluso, «prossimamente – spero – su questi schermi».)

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Pericolo: caduta stiliti («Al di sopra del mondo», di Laura Franco)

AlDiSopraDelMondo «Costoro, abbandonato il suolo terrestre, che tutti, senza eccezione, calpestiamo, in quanto dimora poco spirituale, e rifiutatisi di vivere sulla terra, si innalzarono, con tutto loro stessi, su colonne turrite o su pilastri elevati a un’altezza vertiginosa, vi piantarono il loro nido come uccelli amanti della quiete, e risiedettero a mezz’aria, senza tetto e senza suppellettili, a guisa di volatili, e praticando, nel corpo, una condotta di vita pari a quella degli angeli, e seguendo un comportamento al di là dell’umano, trascorsero moltissimi anni in modo soprannaturale». Così riassume perfettamente e introduce il suo argomento l’anonimo autore della Vita di san Luca stilita, citato da Laura Franco nel suo ottimo Al di sopra del mondo, ampia ricognizione del per certi versi misterioso fenomeno degli stiliti1.

In realtà, una delle cose che emergono con piena evidenza dalla lettura del libro è che di sicuro la vita degli stiliti non era quieta. Già la localizzazione delle colonne, nella maggior parte dei casi, rappresentava un ostacolo a tale quiete. Spesso infatti le colonne si trovavano in luoghi per così dire assai frequentati: crocevia, piccoli agglomerati non distanti da grandi centri, luoghi già in precedenza oggetto di pellegrinaggio, vicinanze di mercati, e così via. Lo stilita poi, con la sua semplice esistenza, richiamava persone di ogni tipo (e di ogni credo) e spesso intorno alla sua colonna sorgevano in breve piccoli edifici, monasteri, ma anche taverne, botteghe, alloggi per i viandanti, vere o presunte corti dei miracoli che erano assai criticate dai denigratori. Dallo stilita ci andavano i devoti, i malati, gli oppressi, i dubbiosi, chi cercava giustizia, ma ci andavano anche i vescovi, i governatori, financo gli imperatori, e un sacco di curiosi, perché lo stilita, si direbbe, a differenza degli anacoreti che si seppellivano in una grotta nel deserto, era anzitutto uno spettacolo cui assistere, una «cosa» da vedere e da ascoltare

Al di là di qualche vaga analogia con precedenti culti pagani, lo stilitismo cristiano è stato variamente interpretato, ad esempio come derivazione dall’«uso antico di collocare sulla sommità delle colonne busti o statue di dèi, o ritratti di imperatori» o di generali vittoriosi, quindi in chiave sia religiosa sia politica, sia anche giuridica; o ancora come evoluzione della disciplina ascetica della statio, lo stare immobili in preghiera, incuranti della situazione circostante; e naturalmente come variante, praticabile e prolungabile a tempo indeterminato, dell’essere inchiodati come Cristo in croce, patendone le medesime sofferenze. Lunga storia, quella degli stiliti, la cui diffusione l’autrice colloca al massimo grado tra il V e il VII secolo, in Siria, con varie propaggini soprattutto in Cappadocia, fino a Costantinopoli e in zone più periferiche dell’impero, e ampia documentazione (di area greco-bizantina), ovviamente agiografica, ma anche storiografica e archeologica (che si siano conservati alcuni dei basamenti su cui sorgevano le famose colonne abitate è un fatto che trovo emozionante).

Stabilite le coordinate storiche e geografiche, e inquadrato il fenomeno, l’autrice dedica un capitolo ciascuno ai sei stiliti più importanti (stiliti maschi, pochissime infatti le donne stilite, le stilitisse) e dei quali si sono conservate le biografie: Simeone il Vecchio, Daniele2, Simeone il Giovane, Alipio, Luca e Lazzaro di Galesio. Sei vite in cima a una colonna (o a più di una) che vanno dal 390 circa, nascita del primo Simeone, siriano, al 1053, morte di Lazzaro, originario di Magnesia al Meandro (nell’attuale Turchia). Di ognuno si raccontano le tappe di avvicinamento alla colonna, le particolarità, le forme di ascesi (aspetto che produce le pagine più sconvolgenti e piene di digiuni sovrumani, odori disgustosi, deformazioni, piaghe e vermi), le testimonianze non «inquinate» dall’agiografia, i rapporti (talvolta burrascosi, talaltre idilliaci) con le autorità laiche ed ecclesiastiche, il coinvolgimento con le comunità («[Simeone il Vecchio] si preoccupava della condotta morale delle piccole realtà rurali nei pressi»), la società e il mondo ai piedi delle colonne (che, data appunto la localizzazione delle colonne, poteva essere sorprendentemente animato), gli aspetti che li rendono simili e le differenze. Si dà conto di come presumibilmente erano fatte in concreto le colonne che li ospitavano (alte fino a 18 metri, alcune cave con scala interna, altre con scala esterna, dotate di piattaforma con balaustra ed eventualmente piccolo riparo o del tutto esposte al sole e agli elementi, corredate di grondaie e canaline di scolo), di come si organizzavano le comunità di discepoli intorno alla colonna (semplici recinti o veri e propri monasteri), degli «attendenti» che provvedevano alle (scarse) necessità dell’asceta, della routine quotidiana (pregare, anzitutto, ma poi anche dare udienza, dirimere controversie, distribuire insegnamenti, accogliere richieste e, naturalmente, procurare guarigioni – «un numero esorbitante di guarigioni», anche a distanza e per interposta persona o strumento –, conversioni e miracoli di varia natura), delle visite illustri e di quelle di tutti i giorni, delle occasioni eccezionali in cui si assistette alla discesa temporanea dello stilita e infine delle modalità, anch’esse spettacolari, della sua morte e della calata a terra del santo corpo.

Dopo una rapida carrellata su alcune altre figure di stiliti, e su una categoria di asceti simile e non meno curiosa, i dendriti, cioè coloro che sceglievano di fare penitenza vivendo su un albero o dentro di esso, il volume si chiude con un capitolo assai interessante sulla «fortuna» degli stiliti, dai quasi contemporanei storici bizantini a Edward Gibbon, da poeti come Tennyson, Kavafis e Rilke, a registi come Buñuel e Monicelli.

È pressoché inevitabile provare stupore davanti alla singolarissima eccentricità di questi personaggi, stupore che si condivide, oggi, con quello dei loro biografi («persino i biografi di Simeone [il Vecchio] sentirono il bisogno  di giustificare l’eccentricità della scelta di vita dello stilita agli occhi del loro pubblico») e quello dei loro contemporanei, che non di rado andavano «a vedere lo stilita» quasi fosse un’attrazione del luogo da non perdere, una stranezza che «vaut le détour», come dicevano le guide Michelin («Teodoreto [di Cirro] racconta che uno spettatore [corsivo mio], intento a osservare Simeone [il Vecchio] in preghiera sul pilastro si mise a contare le genuflessioni effettuate dall’asceta in una sola giornata, e dopo essere arrivato a contarne milleduecentoquarantaquattro, rinunciò a continuare»); ed è inevitabile porsi delle domande, come se le ponevano i contemporanei e le ponevano direttamente agli asceti – l’immagine del mite vegliardo va senz’altro corretta: tanto per dire, Simeone il Giovane sale sul suo primo pilastro a sette anni e Lazzaro di Galesio dall’alto della sua colonna non perde occasione «di esercitare le sue funzioni di superiore [del monastero sottostante] nel segno di un marcato autoritarismo».

Domande che di certo si è posta anche l’autrice che, dopo oltre duecento pagine ineccepibili per precisione ed equilibrio, si riserva per sé giusto tre righe, proprio le ultime tre: «Gli stiliti di ogni tempo sono personaggi complessi, che ci possono affascinare per mille motivi, ma forse, soprattutto, come metafora della condizione umana, perché anche noi, come loro, rischiamo costantemente di cadere».

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  1. Laura Franco, Al di sopra del mondo. Vite di santi stiliti, Einaudi 2023.
  2. Della vita di Daniele, Laura Franco ha da non molto curato una bella edizione italiana: Fra terra e cielo. Vita di Daniele stilita, a cura di L. Franco, SE 2020.

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Perduta di vista la terra (Dice il monaco, CX)

Dice il cappuccino Benedetto da Canfield, nel 1610:

La volontà di Dio è un mare spirituale sul quale ciascuno può navigare secondo la dimensione della sua nave, di modo che le barchette delle anime deboli dei principianti remano nei porti, sulle acque basse della volontà esteriore; i barconi dei progrediti veleggiano, spingendosi più al largo, nella profondità della volontà interiore, e i potenti vascelli dei perfetti, perduta di vista la terra, navigano nel mare aperto della volontà essenziale.

♦ Benedetto da Canfield, Regola di perfezione, I, I, 8, a cura di M. Vannini, Edizioni Biblioteca Francescana 2022, p. 19.

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Una buca nel terreno

C’è una breve nota posta tra parentesi, quasi di sfuggita, nel testo di Georges Duby dedicato a san Bernardo che mi ha colpito particolarmente: un dettaglio biografico che non conoscevo, assai crudo, dato senza fonte, ma di non difficile reperibilità. Deriva infatti dal capitolo VIII della Vita di san Bernardo di Chiaravalle di Guglielmo di Saint-Thierry, un capitolo di estremo interesse intitolato Della grande severità della sua vita, e della sua indefessa applicazione in mezzo ai continui intralci dovuti alla sua salute compromessa (De magna vitae ejus severitate, et indefesso inter continua fractae valetudinis incommoda laborandi studio). Ecco il passo in questione:

«Alcuni medici lo visitarono e trovarono ammirevole il suo modo di vivere, dicendo che imponeva alla sua natura sforzi simili a quelli di un agnello attaccato a un aratro e forzato a lavorare. Il suo stomaco distrutto gli faceva vomitare frequentemente il cibo crudo che non aveva potuto digerire, cosa che cominciò a mettere a disagio gli altri, in particolar modo durante l’ufficio nel coro; nondimeno non abbandonò del tutto il consesso dei fratelli, ma, avendo fatto scavare una buca nel terreno, vicino al suo posto, soddisfò in tal modo finché poté quella penosa necessità.»1

In quella «buca nel terreno» («in terra receptaculo») si raccoglie anche, se così si può dire, simbolicamente, la mia complicata «ammirazione» per san Bernardo (e sarebbe necessario definire con accuratezza cosa significa provare ammirazione per una figura lontana nel tempo, il cui profilo ho composto mettendo assieme frammenti di una conoscenza approssimativa). Al di là, infatti, della banale osservazione che non sono acceso dalla medesima fede, molti sono gli aspetti che mi dovrebbero allontanare da lui: e invece. E invece l’attrazione è lì, innegabile, per un essere umano perennemente in rivolta contro se stesso e il mondo («contro tutto», dice Duby), e tuttavia instancabilmente attivo proprio in quel mondo, feroce e dolcissimo, comprensivo ed esigentissimo, umile e consapevole della propria autorità, negligente di sé fino all’autodistruzione e preoccupato della propria traccia lasciata ai posteri – e forse non immune dal desiderio di essere «il migliore».

E mi conforta che lo stesso Guglielmo spenda buona parte del capitolo per una strana «giustificazione» degli eccessi di rigore nel comportamento di san Bernardo; strana perché, mentre ne dichiara più volte l’inutilità, a fronte di quello che Bernardo ha compiuto («nessuno oserebbe condannare colui che Dio giustificò operando con lui e tramite lui tante cose sublimi»), continua a svolgerla, a volte con eleganti giochi di parole: «Se gli imputiamo un eccesso di santo fervore, questo eccesso certamente susciterà il rispetto delle anime pie, e coloro che sono guidati dallo spirito di Dio temeranno di imputare eccessivamente questo eccesso al suo servo».

Ricordando gli anni passati da Bernardo a Cîteaux, Guglielmo ha già fatto un’altra osservazione che mi pare riveli il suo pensiero. Prima di ributtarsi nelle rinunce forsennate, a Cîteaux, infatti, piacque a Dio che Bernardo si sia abituato un po’, uomo lui stesso, a vivere con gli uomini e abbia imparato a comprendere le debolezze umane; che in latino, più concisamente, suona così: «Postquam didicit aliquatenus et consuevit homo cum hominibus esse».

Cioè dopo aver imparato in qualche modo ed essersi abituato a essere un uomo con gli uomini.

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  1. Cito, traducendo come posso, da La Vie de saint Bernard, par Guillaume de Saint-Thierry, continuée par Arnauld de Bonneval et Geoffroi de Clairvaux, traduit du latin par F. Guizot, nouvelle édition préparée par N. Desgrugillers, Editions Paleo 2010, pp. 55-60.

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Un sogno di perfezione morale (Georges Duby e l’arte cistercense, pt. 2/2)

SanBernardoArteCistercense (la prima parte è qui)

«Per capire Fontenay», scrive Duby1, citando l’abbazia «figlia» di Clairvaux, fondata nel 1119 e uno degli esempi più alti dell’architettura cistercense, «in quello che ne forma il significato e il colmo della bellezza, bisogna avvicinarvisi passo passo, per i sentieri della foresta, nella pioggia d’ottobre attraverso i rovi e i pantani, faticosamente.» Occorre quindi raggiungere la radura, che rappresenta il nucleo, la prima conquista del drappello di monaci che si lasciano tutto alle spalle per cercare un luogo, sottratto a forza di braccia alla selva primordiale, dove rintracciare, ricostituire la regolarità dello spirito, la «somiglianza» a Dio smarrita nella «regione della dissomiglianza» che è il mondo con le sue irregolarità.

In realtà non proprio tutto si sono lasciati alle spalle questi monaci: il «soffio dei tempi nuovi» li segue, insieme ad esempio ai progressi tecnici, a una nuova considerazione del lavoro (compreso quello salariato, che viene impiegato) e persino a un diverso rapporto con il denaro come strumento che non viene disdegnato (si produce e si vende, e il ricavato si usa), tutte cose che produrranno una «espansione tumultuosa» e risultati economici ragguardevoli. Li segue, senza che quasi se ne accorgano, il «movimento di rinascita dell’individuo»: le nuove abbazie che sorgono a un ritmo impressionante non sono abitate da una massa indistinta di religiosi salmodianti, bensì da gruppi compatti di individui non ignari della società da cui provengono e non privi di personalità. Nei reparti di uomini che disboscano, bonificano, arano sopravvive quello spirito di cavalleria (lealtà, coraggio, amore), quel gusto per la conquista e in fondo anche per l’avventura che è lo stesso Bernardo ad aver portato a Clairvaux: «San Bernardo non ha mai rivolto il suo sguardo su altri uomini, se non cavalieri, su antichi cavalieri, i monaci di coro, e su gli altri che ha sognato di attirare a sé», dice Duby, e continua: «Bernardo sarebbe stato un cavaliere magnifico. Ma non imparò mai il maneggio delle armi. Se l’avesse fatto forse non si sarebbe mai stornato dal mondo».

Molto si portano dietro anche del monachesimo «vigente»: la scelta cenobitica, l’ascetismo, il rispetto del passato; l’idea è quella di rimettere il monachesimo al suo giusto posto, cioè ai margini: «L’ideologia cistercense, costruita sulla trama del disprezzo del mondo, non vuole aggiungere nulla, taglia, monda, epura, ed è per questa ragione che la costruzione di Cîteaux altra non è che quella di Cluny ripulita». E nei nuovi monasteri, specchio e scuola dove l’uomo giunge alla migliore conoscenza di sé, in nome della misura e dell’equilibrio esteriore ed interiore si distrugge il vecchio uomo e si fa emergere quello che, come si diceva, conserva la somiglianza. Si bonifica l’anima, allo stesso modo in cui si bonifica il luogo: «Una vittoria dell’ordine sul caos, sforzo dell’uomo per spogliarsi della primitiva rozzezza della selva, per ritrovare il posto da lui occupato prima della caduta, prima di smarrirsi nelle regioni di dissomiglianza, dominando le belve e la vegetazione selvaggia.»

Semplificando molto la parte dedicata al declino, in questo progetto di salvezza dell’anima e di edificazione della «città perfetta» c’era secondo Duby una falla, la falla dei fratelli conversi: «Senza accorgersene, i monaci erano sulla via di diventare quello che i fondatori dell’ordine avevano loro prescritto di non essere mai: dei signori» – e fu proprio la popolazione contadina ad allontanarsi per prima dai cistercensi. La vitalità di Cîteaux si raccolse altrove e la loro capacità di interpretare l’evoluzione dei tempi si trasferì ad altri «protagonisti» più in sintonia con tale evoluzione: gli stessi ordini cavallereschi, la Cattedrale, le confraternite, e poi gli ordini, mendicanti.

«La costruzione cistercense è la proiezione di un sogno di perfezione morale», riassume in una formula Duby, e al centro di questa costruzione c’è il chiostro, «crocicchio dell’universo» dove tutto è luce e chiarezza, raffigurazione di un paradiso ricostruito: «Un’area in cui giunge al suo termine l’addomesticamento del caos silvestre, in cui tutto il cosmico ridiventa collezione ordinata, accordo musicale». E non è forse per questo che i chiostri cistercensi piacciono tanto anche oggi, «oggi che ne rimane solo il guscio, che tanto più ci commuove in quanto è perfettamente vuoto»2? Perché quell’ideale, quell’immagine seppur fuggevole allo sguardo del turista, l’hanno conservato?

Ah, dunque esisteva un posto dove… esiste ancora…

(2-fine)

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  1. Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).
  2. Forse non tutti sarebbero d’accordo su questo «vuoto».

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