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Contraddizioni, rumori e odori

Il mio interesse per le «cose monastiche» preesisteva a queste note vagamente e teoricamente pubbliche e continuerà dopo la loro fine. È un interesse come un altro? È mera evasione in un mondo di carta più presentabile di quello popolato da draghi e maghi? È un’altra manovra del ben noto programma di idealizzazione di sé?

O è, invece, un «gesto magico», come quello dei pellegrini di Santiago che toccavano la testa scolpita del maestro Mateo nella speranza che un po’ della sua sapienza e del suo talento si trasferisse a loro? Sarebbe bello se fosse così. Sarebbe bello se fosse almeno un’aspirazione a quella «correzione dei difetti» di cui parla san Benedetto nel Prologo della sua Regola.

La domanda mi si è riproposta mentre leggevo l’articolo del vescovo-monaco Erik Varden, sull’«attualità» della Regola e sull’utilità di andare, oggi, «a lezione da san Benedetto»1, che prende avvio proprio dal famoso Prologo e dal concetto di «scuola del servizio del Signore». Secondo Varden «la schola di cui parla Benedetto è un luogo in cui si impartisce la conoscenza, certo; ma ancor più essenzialmente è un luogo di iniziativa in cui si crea qualcosa di nuovo. Questo qualcosa è un modello innovativo di comunità che riunisce liberamente degli uomini per mezzo di un patto di vita e un obiettivo chiaro».

Per illustrare tale modello, anzitutto Varden richiama l’attenzione per contrasto sulle tre categorie di monaci (cioè di persone?) in qualche modo opposte a quella dei cenobiti; tre categorie che rimandano a riconoscibili modi di esistenza contemporanea: gli eremiti, che, provati alla scuola comunitaria, si ritirano in solitudine, dove il cimento si fa ancor più arduo, con tutti i rischi che ciò comporta (forse soprattutto di autocompiacimento); i sarabaiti, che «hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni» e che «incontriamo normalmente nella vita di tutti i giorni»; i girovaghi, che non si fermano mai da nessuna parte, girano in tondo e non concludono niente, «e anche qui riconosciamo una tipologia di persona diffusa nel nostro tempo, dove si dispiega un movimento circolare destinato a un non-arrivo, non solo nello spazio materiale o entro i confini intricati della mente umana, ma nelle vaste e aride distese di internet».

In opposizione a ciò nella scuola di comunità, tra i cenobiti, si impara a conoscersi, a perseverare, a non disperdersi, a moderare appetiti e voglie, a placare la rabbia, a perdonare e a essere pazienti, e tutto questo insieme. Più che impararlo, infatti, ce lo si insegna. La correzione dei difetti, per fare un esempio e per tornare a essa, è infatti un programma che può essere soltanto collettivo, da svolgere nell’ambito di quella comunità che «libera l’uomo dalle illusioni sull’umanità e su sé stesso e gli insegna ad affrontare l’umanità nella sua complessità, con le sue contraddizioni interiori ed esteriori, i suoi rumori e odori, e con la sua capacità di grandezza. Invece di sognare tediosamente un “popolo” teorico, impara, attraverso la battaglia, ad amare le persone così come sono».

A questo punto Varden sviluppa il gioco di parole anticipato dal titolo del suo articolo, in base al quale la schola Dei, di Dio, benedettina può diventare una schola DEI, dedita alla diversità, all’equità (che non è sovrapponibile all’eguaglianza) e all’inclusione: tre concetti aggiornatissimi e dai risvolti eminentemente pratici centrali nella Regola, compresa a loro eventuale degenerazione. Ma per il momento mi accontenterei di non dimenticare che qualsiasi programma di correzione, da opporre al dilagare della ininterrotta assoluzione di sé, e per non essere una «pia illusione» o una storiella che ci si racconta prima di addormentarsi, ha sempre bisogno di altri, contraddizioni, rumori e odori compresi.

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  1. Erik Varden, Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto, in «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

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Senza rimedio

 A un certo punto di un suo breve testo di presentazione del carisma certosino, il grande studioso del monachesimo, e monaco trappista, André Louf dedica un capitoletto al tema del «deserto»1. L’esperienza del quale, che ha nell’Esodo il suo paradigma, può suscitare, anche oggi, entusiasmo – la solitudine tanto ricercata e finalmente raggiunta –, ma solo per un tempo assai breve. Passato appunto l’entusiasmo iniziale, è «la tentazione che attende inesorabilmente» il monaco chiuso nella sua cella: «L’assenza di distrazioni esteriori ributta il solitario addosso a se stesso, riaccendendo i desideri fino a quel momento inconfessati che brulicano ancora nel suo cuore, e che ora si rivelano realmente inconfessabili». Nel silenzio esplode come un bomba la fragilità dell’individuo e «tutte le sue illusioni e i suoi miti» (le storie che ci raccontiamo) si sgretolano.

Per illustrare questo fenomeno, Louf cita estesamente la testimonianza di un giovane certosino anonimo: «Il deserto è un fuoco purificatore. Nella solitudine ciò che siamo veramente viene in superficie. Tutte le bassezze… tutto il male…», ecc. Diventa impossibile nascondere, dissimulare, sorvolare sulle sgradevolezze, e «risulta evidente come con troppa facilità ci giustifichiamo, considerando le nostre mancanze al pari di tratti del carattere». Niente più scappatoie, niente più distrazioni, niente più artifici: ci viene sbattuta in faccia «la nostra miseria senza rimedio». E alla fine di questo cammino buio e doloroso, secondo il giovane monaco, c’è Dio ad attenderci. A quel punto siamo così svuotati, domati, trasformati e malleabili, che Dio può compiere il miracolo: cavare dalla nostra miseria la meraviglia.

Per quanto consideri la vocazione alla solitudine, e per quanto possa concordare nel biasimare il «malcostume» di giustificare i propri difetti quali aspetti della propria personalità («Eh, cosa vuoi, sono fatto così»), devo confessare che, ogni volta che m’imbatto in questo tipo di accanimento, avverto un moto di irritazione. Non è forse possibile anche nel «mondo» riconoscere le proprie debolezze? Non ci pensa spesso (più che spesso) proprio il mondo a farle emergere, a sbattercele in faccia? Non è possibile riconoscere anche là fuori, in mezzo agli altri, le bugie che ci raccontiamo e smascherarle? Non sono proprio gli altri che spesso sono decisivi per smantellare illusioni e miti privati?

Anche per un miscredente, poi, si tratta di un «cammino di verità» (distrazioni comprese), anche se in fondo al quale non c’è nessuno ad attenderlo. O forse invece sì, qualcuno c’è, visibile.

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  1. André Louf, Saint Bruno et le charisme cartusien aujourd’hui, Editions Parole et Silence 2009, pp. 45-53.

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Non solo draghi

Vecchi libri sul monachesimo: una combinazione perfetta e irresistibile. Poco importa – so che dovrebbe – che alcune delle informazioni che contengono siano state nel frattempo corrette, alcune opinioni superate: questi saggi di cinquanta, sessanta, cento anni fa ai miei occhi condividono con l’argomento di cui trattano una specie di affrancamento dal tempo. Se lo scopo delle mie letture fosse soltanto quello di «sapere» dovrei concentrarmi sulle opere più «aggiornate», ma questo varrebbe per qualsiasi «argomento»; non avrebbe senso infatti, se non per gli storici della materia, leggere un libro di una qualsiasi disciplina scientifica o storica che non fosse aggiornato «alle più recenti scoperte della ricerca». Io ho scelto di leggere di «cose monastiche» e la relativa bibliografia, la minima parte che mi riesce e mi riuscirà di frequentare, mi è parsa sin da subito tutta «presente», tutta in un certo senso al di là del concetto di «aggiornamento». Parte di questa impressione so che è dovuta al fatto che il monachesimo rappresenti per me una «evasione», non dissimile da quella che si indirizza ai draghi, ma mi auguro che ci sia anche dell’altro.

Di cosa sia fatto questo «altro» tuttavia non sempre mi è chiaro. Di sicuro c’entra il tempo, quell’effetto di «cerniera», se mi si passa il termine, che i monaci producono tra un passato anche remoto e il presente: come scrive Giuseppe Turbessi1 «i monaci, per la forma della loro stessa vocazione, sono come la frontiera tra questi due mondi: quello dei Padri e quello attuale; quello della ricerca esclusiva di Dio e quello dell’umanesimo cristiano». Temo però, per usare un eufemismo, che si tratti comunque di aspetti marginali, secondari, frutto in sostanza di fraintendimenti e di visioni parziali. Non voglio usare analogie – che, come si sa, sono istigate da un demone –, ma per quanto uno possa studiare una lingua straniera, è impossibile diventarne madrelingua.

«Ai monaci», scrive Daniel-Rops nel 1958, «i credenti chiedono di essere “sentieri” verso Dio, una specie di intermediari tra le loro debolezze e le loro aspirazioni, dei testimoni del grande desiderio che essi hanno dell’unico necessario e che le esigenze della vita quotidiana non permettono loro tanto spesso di soddisfare.» I monaci e le monache di oggi si riconoscono ancora in questo ipotetico ruolo di mediatori? E i non credenti cosa chiedono, se chiedono? Che cosa ha senso che chiedano?

La tentazione è di chiedere quello che Paolo VI chiamava «il quadro… d’una piccola [ahimè, sempre più piccola?] società ideale, dove finalmente regna l’amore, l’obbedienza, l’innocenza, la libertà dalle cose e l’arte di bene usarle». Di chiedere cioè, più che l’immagine, la realtà di un «altrove esistenziale». Quindi ancora di evasione stiamo in fondo parlando? Di cattiva coscienza? Forse, se c’è qualcosa da chiedere, è più giusto chiederlo a se stessi.

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  1. Autore, tra gli altri, di un bellissimo esempio di quei «libri vecchi sul monachesimo» di cui dicevo all’inizio, Ascetismo e monachesimo in S. Benedetto, Editrice Studium 1965.

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Sollievo e carta velina

Circostanza forse voluta, forse no, sulle pagine 4 e 5 dell’«Osservatore romano» di ieri, 1° febbraio 2025, per la XXIX Giornata mondiale della vita consacrata, sono apparsi due articoli che, se così si può dire, volgono lo sguardo rispettivamente al monachesimo di domani e a quello di ieri.

Il primo è firmato dalla neo-Prefetta del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica s. Michela Brambilla1 e si concentra in particolare sul significato e sulla vitalità del carisma di «Ordini e Congregazioni, Società di vita apostolica, Istituti secolari, come pure Associazioni, Movimenti e Nuove Comunità». Non si può peraltro non sottolineare come «da qualunque prospettiva lo si voglia vedere, il momento storico c’è: per la prima volta in duemila anni una donna assume un ruolo di tale importanza all’interno della Curia vaticana, posizione in passato esclusivamente riservata a uomini»2. Infermiera e poi dottoressa in Psicologia, missionaria della Consolata (particolari nient’affatto secondari), s. Michela Brambilla è chiamata a dirigere un ente che supervede una galassia «di più di 800.000 religiosi e religiose, con le comunità femminili che rappresentano oltre due terzi».

La Prefetta sceglie di illustrare il concetto di «corpo carismatico», e le parole d’ordine odierne di sinodalità e di chiesa in movimento, con l’immagine usata dal papa, non nuovissima ma sempre efficace, dell’orchestra sinfonica. Il carisma non è un’istanza immobile, bensì qualcosa che deve fluire in ogni parte del «corpo»: «Nel “corpo carismatico” circola ciò che i membri immettono. Ogni nostro atto e parola, ogni nostro pensiero e sentimento è energia che percorre la fitta rete dei nostri rapporti, e arriva a interessare tutti, perché tutti siamo uniti in un solo corpo, irrorati dallo stesso sangue del carisma vivo. Nessuna parola, nessun gesto, nessun pensiero e sentimento sono neutri: ogni espressione vitale ha conseguenze, nel bene e nel male». Dunque un’orchestra in cui ogni strumento contribuisce col suo timbro, in cui ci sono parti soliste e parti d’insieme, in cui ogni musicista deve ascoltare gli altri e in cui un direttore ascolta più di tutti ed è al servizio dell’«esecuzione» generale. La metafora è, si diceva, efficace; se tuttavia la direttrice guiderà l’orchestra sulle partiture note dei «grandi classici», se spingerà talvolta verso i maestri del ’900, o se addirittura azzarderà qualche «prima esecuzione assoluta» la Prefetta, giustamente, per il momento, non dice.

Nel secondo articolo Flaminia Chizzola racconta di una conversazione con s. Francesca Battiloro, visitandina campana che ha appena festeggiato i 75 anni di professione religiosa3. È una voce che proviene da un altro tempo, si direbbe da un’altra dimensione, e che tuttavia non lascia indifferente nemmeno l’inveterato miscredente. Al di là della storia individuale assai singolare («Sono stata cresimata a 2 anni. A 6 ho fatto la prima comunione. A 8 sono entrata in monastero e a 16 anni ho fatto i voti solenni»), a colpire sono le parole dell’anziana monaca, praticamente immobilizzata e cieca e che ha trovato rifugio in una casa di riposo delle suore della Carità, dopo che il monastero di cui era superiora è stato chiuso («ma di questo la suora dalle mani di carta velina non vuole parlare»). Incalzata dalle domande della giornalista che vuole sapere della clausura e delle sue limitazioni, dell’obbedienza cieca, della passività, dell’anacronismo di certe prescrizioni, dell’accettazione a oltranza, s. Francesca risponde con «indistruttibile calma»: «“La clausura è clausura sempre. Bisogna chiedere il permesso a chi sta sopra”. E se quelli più in alto sbagliano? “Dio si serve di tutto, anche degli errori degli uomini per fare la Sua volontà”. Ma perché accettare tutto, anche gli errori? Perché dipendere sempre da qualcuno? “Tutti noi dipendiamo da Dio”. Da Dio, non dagli uomini. “La Chiesa è la sposa di Dio”. E se la sposa sbaglia? “La sposa fa sempre ciò che desidera lo sposo”. E se non lo fa? “Allora sarà lo Sposo ad agire, non noi”». Testimone sopravvissuta di una fede senza incertezze né delusioni e immutata nel tempo (anzi, fuori di esso), l’anziana monaca attende la fine con serenità («“Io accetto tutto dalle Sue mani”. Tutta questa sofferenza, questa solitudine, passar intere giornate senza parlare con nessuno? “Tutto è permesso da Lui e io mi fido del mio Sposo. Se non hai la fede non puoi andare avanti”») e il miscredente non può fare a meno di pensare, con una strana forma di umana partecipazione, che se avrà avuto «ragione» lei, sarà infine supremamente felice, se invece avrà avuto «torto», non ne avrà consapevolezza.

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  1. Michela Brambilla, mc, Laboratorio del «noi», «Osservatore romano» 1° febbraio 2025 pp. 4-5.
  2. Oltre i primati storici: il senso delle nomine al femminile di Francesco», in «Donne Chiesa Mondo», 141 (febbraio 2025), p. 4. «Alla nomina di Brambilla, Véronique Margron, religiosa delle domenicane della Carità della Presentazione e presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia, in una intervista a “La Croix” ha detto che ha provato “sollievo”: “Era anormale che nessuna donna avesse questo livello di responsabilità in Vaticano”».
  3. Flaminia Chizzola, 75 anni di matrimonio con Gesù, «Osservatore romano» 1° febbraio 2025 p. 5.

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Inter nos

I saggi densi e dotti, e un po’ accidentati, di Guido Cariboni sui cistercensi dei secoli XII e XIII1 hanno suscitato di nuovo in me alcune considerazioni, un po’ naïf e confuse, che rimandano al sottotitolo di questi appunti, quegli «occhi laici sul pianeta monaci» che, con altra accuratezza, sono poi lo sguardo che gli storici depongono sul monachesimo, osservandolo come «fatto» in mezzo ad altri «fatti». E già qui si potrebbe discutere sulla legittimità, o quanto meno sulla significatività, di tale sguardo quando prescinde dal «contenuto» religioso. A questa domanda rispondo nel modo seguente. Meno male che ci sono gli storici! Che proprio in virtù di quell’«in mezzo» studiano e ricostruiscono il fenomeno del monachesimo in rapporto agli altri fenomeni, giacché tale rapporto è sempre esistito, in forme più o meno estese e intense (con la parziale eccezione forse dei certosini); al lettore laico non professionista, invece e d’altra parte, è consentito avvicinarsi al monachesimo come se fosse un fenomeno per certi versi astorico e imprescindibile dal contenuto di fede.

E poi. Le vicende istituzionali dei cistercensi dimostrerebbero ancora che, per semplificare, la quantità uccide la qualità. L’estensione numerica e territoriale dell’Ordine porta infatti tensioni, allontanamenti dall’ideale, impulsi ricorrenti di riforma e di «ritorno alle origini» (e anche qui non può non venire in mente il detto certosino: «Cartusia numquam reformata quia umquam deformata» – bella forza, potrebbe persino pensare il cluniacense spazientito, siete quattro gatti). Dunque nella realizzazione pratica dell’aspirazione a Dio, di una forma di vita ispirata alla carità, esiste un punto di equilibrio che starebbe tra il singolo (l’eremita, perennemente esposto alle illusioni) e la massa, che porta con sé inevitabilmente deformazioni, divisioni e conflitti? Forse non soltanto nell’aspirazione a Dio, ma nella vita in comune in generale? Il piccolo gruppo, i cui membri si scelgono liberamente, essendo l’unica via possibile? La chiave del suo «funzionamento» essendo l’accordo delle volontà che può nascere solo dall’esiguità della compagine (l’unanimitas che era uno dei cardini dell’ideale cistercense)? Si può estendere questo concetto, e come, quando si è in tanti? C’è qui una lezione sul numero? (E già, arriva lui, dopo secoli di pensiero politico al riguardo…)

E quale può essere il rapporto tra piccoli gruppi? O tra il piccolo gruppo e il «grande gruppo»? Mi ha sempre colpito rispetto a ciò il trattamento della segretezza presso i cistercensi delle origini: come era percepita e come la vivevano loro stessi (in questo sovente aiutati dalla collocazione reclusa dei loro «nuovi monasteri»). Scrive ad esempio nella prima metà del XII secolo il cistercense Idungo, nel suo Dialogo di due monaci, rivolgendosi a un «collega» cluniacense: «L’elezione e la deposizione degli abati del vostro ordine, insieme ad alcune cause ancor più difficili, sono trattate dai vescovi, quasi in pubblico, contro il decoro della religione monastica; presso di noi, invece, questi problemi sono risolti tra di noi e da noi di nascosto [apud nos, inter nos, et a nobis in secreto], con convenienza per l’ordine». Sembra quasi che Idungo stia evocando gli arcana imperii… E d’altra parte, Oderico Vitale nella sua Storia ecclesiastica, completata sempre nella prima metà del XII secolo, scrive: «[I cistercensi] serrano le loro porte e nascondono i loro luoghi appartati con massima cura [secreta sua summopere celant]. Non ammettono nei loro penetrali un monaco di un’altra chiesa, né gli permettono di entrare con loro nel luogo della preghiera per la messa o per altri servizi liturgici». Ma quali tratti può avere, oggi, un’idea, se non un’applicazione, «sana» della segretezza?

La storia dei cistercensi, soprattutto nei primi secoli di vita dell’Ordine, e in particolare dopo la morte di Bernardo, è quasi un laboratorio in cui si può osservare con estremo interesse, tra le altre cose, il rapporto di tensione – quasi istantanea, verrebbe da dire – che si crea tra ideali e realtà, e anche tra legge e prassi. Come dimostrano con attenzione minuziosa i saggi di Guidi Cariboni, di almeno uno dei quali proverò a dare conto in seguito.

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  1. Guido Cariboni, Il nostro ordine è la Carità. Cistercensi nei secoli XII e XIII, Vita e Pensiero 2011.

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Meteoriti provenienti da regioni lontane dello spazio

Uno è lì, bello tranquillo (per modo di dire), che si legge la sua bella introduzione all’opera di un frate cappuccino inglese di fine ’500 – introduzione di gran pregio, che rispetta il canone di: cenni biografici sull’autore, tempi di composizione dell’opera, suoi temi principali e fonti, ricezione e fortuna – ed ecco che arriva il colpo a sorpresa. Si chiede infatti l’insigne studioso, estensore dell’introduzione: «Che senso ha, oggi, riprendere in mano e leggere la Règle de Perfection?». Già, perché si tratta della Regola di perfezione di Benedetto da Canfield (stampata nel 1610), ottimamente curata da Marco Vannini nel 2022 per le Edizioni Biblioteca Francescana – e forse potrei chiedermelo anch’io, perché leggerla, oggi…

Di questo «capolavoro che diede forma a tutta la mistica del XVII secolo» proverò a dire qualcosa più in là; per intanto mi preme generalizzare quella domanda: non è forse quello che mi chiedo ogni volta che prendo in mano uno dei «miei» libri di monaci? Continua il Vannini: «È stato infatti più volte autorevolmente notato come la letteratura mistica del Seicento, in specie quello francese, sia per noi oggi una sorta di meteorite proveniente da regioni lontane dello spazio […]. Ciò vale indubbiamente anche per la Régle de Perfection, un genere letterario che ci sembra appartenere a un altro mondo». Non posso forse, in qualche misura, sostituire alla «letteratura mistica del Seicento» i detti dei Padri del deserto, o i sermoni di san Bernardo, o le costituzioni certosine? E i motivi addotti dallo studioso – concetti desueti (come suona alle nostre orecchie la perfezione?), linguaggio astruso, spiritualità ignota agli uomini e alle donne di oggi, eccesso di citazioni bibliche – non possono essere estesi con qualche aggiustamento a molti testi monastici, medioevali e non solo? Non è il caso quindi di lasciare che su tali testi si depositi la polvere del passato e dell’erudizione?

«Ma noi pensiamo che non sia affatto così», afferma con vigore il Vannini. «Crediamo, anzi, che la lettura della Régle de Perfection [di questi testi, aggiungo io] sia di grandissimo interesse esistenziale». È sufficiente aggiornare il lessico, «ovvero dire con un linguaggio oggi comprensibile il significato reale, profondo, del libro. […] Occorre leggere la Régle non come un testo teologico, ma psicologico, relativo alla conoscenza dell’anima».

Che sia uno studioso come il Vannini a fare affermazioni del genere mi conforta molto, se penso alla strada che si tenta in queste note. Per alcuni, con ogni probabilità, non si potrà prescindere completamente dal contenuto teologico di questi testi (e in fondo non lo fa nemmeno il Vannini), ma quella prospettiva può rappresentare il terreno d’incontro fra, per semplificare, chi crede e chi non crede, l’unico che mi riesce di individuare e che mi piacerebbe fosse rivendicato anche dalla «laicità». Non piace «conoscenza dell’anima»? Benissimo cambiamo: psiche, interiorità? Eh, ma non è la stessa cosa… Va bene, parliamone: sull’«anima» troveremo un compromesso, ma intanto restiamo intesi sulla «conoscenza» della cosa, no?

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«Prego, accomodaTi»

Una delle immagini più ricorrenti nel mio tentativo di comprensione di cosa significhi «essere monaci» è quella di «fare spazio», essendo uno degli obiettivi e degli esiti della scelta di vita di monaci e monache la liberazione di uno spazio interiore in cui accogliere la presenza ininterrotta di Dio e restaurare l’«intimità» con Lui. Liberazione ottenuta mediante una serie di «accorgimenti» esteriori, simboleggiati dal monastero e riassumibili nella Regola e nelle sue molteplici declinazioni, ma soprattutto grazie a una «manovra interiore» che metta da parte le vanità mondane e le realtà transitorie e ponga un limite all’ipertrofia dell’Ego. Senza dimenticare come tale limitazione consenta anche una più pulita accoglienza e un più trasparente ascolto degli altri, e non soltanto dell’Altro.

Ho incontrato più che frequentemente negli scritti monastici (dall’articolo alla Costituzione apostolica, dal IV al XXI secolo) questa idea di «fare spazio», che presuppone quindi un precedente «ingombro» (come di ripostiglio invaso da inutili cianfrusaglie); lo si potrebbe definire un leitmotiv, esemplificabile con una citazione, una per tutte, pescata volutamente a caso: «Allora, in parole povere, cosa “fa” il monaco per gli altri? Il monaco fa spazio a Dio. È dunque un individualista? No: proprio così (solo così) può fare spazio agli altri. Proprio nel vivere dell’essenziale egli trova anche la profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo: sotto lo sguardo della Verità scopre sé stesso e ogni uomo come oggetto di uno sguardo di compassione, di una misericordia immeritata. Porre al centro Dio significa decentrare da sé e accorgersi finalmente dell’altro» (da un articolo della monaca trappista Irene Canepa). E come non ricordare anche che «il silenzio è vuoto di sé stessi per fare spazio all’accoglienza; nel rumore interiore non si può ricevere niente e nessuno. La vostra vita integralmente contemplativa richiede “tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare” Dio e il grido dell’umanità» (Francesco, Vultum Dei quaerere, 33).

E allora, con la massima cautela, e con l’incoscienza, del dilettante, si può provare a tirare un filo con un altro concetto nel quale mi sono imbattuto più volte nelle mie limitatissime letture di mistica e di cabbalà ebraica e che trovo sommamente «pensierogeno»: quello di tzimtzum, cioè la «contrazione di Dio in sé stesso [che] ha lo scopo di liberare uno spazio mistico primordiale nel quale egli ritorna poi attraverso la creazione». È Dio per primo, con un «gesto» misteriosissimo di «autolimitazione», a «fare spazio» affinché il mondo, e tutto il resto, sia. E, come mi insegna ulteriormente l’introduzione di Daniela Leoni alla formidabile raccolta delle omelie di Kalonymus Shapira1, lo tzimtzum «non è un evento realizzatosi una volta sola all’inizio della creazione, ma rappresenta la modalità attraverso la quale Dio si rapporta ogni giorno con la realtà».

Non solo. Nella prospettiva di rabbi Shapira «ogni uomo, per entrare in comunione con Dio – o meglio, per lasciare che il Dio infinito entri in comunione con lui – deve compiere in sé stesso lo tzimtzum, imitando quella auto-limitazione del sé che ha Dio come modello esemplare». L’annullamento dell’Ego (la nullificazione dell’egocentrismo «tanto importante come strumento mistico del pensiero chassidico») è l’«abito fondamentale di cui l’uomo deve rivestirsi per poter accedere all’adesione totale del proprio essere al Creatore (devequt), nel quale solo è possibile trovare il senso della propria esistenza»2.

Ma sta parlando un chassid o, per dire, un Padre del deserto, o un certosino? Se vogliamo, poi, e senza avventurarsi in questioni che non sono all’altezza di affrontare, «fare spazio» è una manovra sempre consigliabile, no? Fare spazio nelle conversazioni, alle cose interessanti, alle confidenze, nel traffico, sull’autobus…

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  1. Kalonymus Shapira, Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira, introduzione di D. Leoni, traduzione e note di L. Cattani, Giuntina 2023.
  2. Aggiunge Adin Steinsaltz: «È possibile asserire che l’egocentrismo è, di fatto, una perdita dell’anima. I nostri maestri dicono: “Chiunque abbia in sé uno spirito rozzo – disse il Santo, benedetto Egli sia – Io e lui non possiamo coabitare nel mondo”, difatti l’io di un uomo del genere riempie tutta la realtà e non vi lascia spazio nemmeno per il Santo, benedetto Egli sia, e a maggior ragione per gli altri» (L’anima, traduzione di A.L. Callow e C. Nicolini Coen, Giuntina 2018, p. 91).

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San Bernardo celo, Isacco della Stella manca

Il mio «interesse per le cose monastiche», credo di averlo già detto, è fatto anche di aspetti leggeri, molto leggeri, sui quali fantastico spesso, fiducioso che non si tratti di mancanza di rispetto, di ostinata secolarizzazione, ma, in fondo, di affettuosa adesione, di semplice gioco. E anche in qualche misura desiderio che queste «cose» conoscano più ampia diffusione.

Alcuni di tali aspetti non sono, forse, così leggeri, come ad esempio il sogno di una libreria superspecializzata in cui si trovi tutto quanto è stato pubblicato sul monachesimo, e nient’altro: scaffali e scaffali di volumi ordinati cronologicamente per ordine: il che produrrebbe, tra l’altro, un fantastico «ordine3», un ordine al cubo. Poi, naturalmente, ci vorrebbe una rivista, anch’essa specializzata, ma non di quelle, serie e bellissime, che già esistono, bensì un periodico di larga divulgazione, e non soltanto quei frequenti «speciali» (Scopri come viveva un monaco del Medioevo, aut similia, che dicono un po’ sempre le stesse cose): no, un bel mensile – chessò, «Famiglie monastiche», «Chiostri» – con tutte le sue belle rubriche.

Poi un supermercato di prodotti monastici! Ce n’è più d’uno online, benissimo, ma io m’immagino un iper di quelli che si vedono dalle tangenziali, con una grande insegna luminosa nella nebbia – MONKS & NUNS –, un comodo parcheggio, reparti ben segnalati e una caffetteria dove gustare il caffè leggero delle monache e sgranocchiare i mandorlati rosa e verdognoli che piacevano tanto al Principe di Salina (glisso sul relativo catalogo cartaceo dello store che conservo gelosamente). «Offerta lampo! 500 g di lavanda di Senanque al -30%». Va da sé che andrebbero previsti anche dei punti vendita più piccoli, più local, come vanno ora di moda, ma ugualmente ben forniti – «Padre, mi scusi, dove trovo la Chartreuse?», «Oh, mi spiace, purtroppo siamo rimasti senza; l’abbiamo già riordinata, ma sa, i certosini hanno i loro tempi…», «… che noi senz’altro rispettiamo»; «Scusi, sorella, è arrivato il miele millefiori di Finalpia?», «Oh sì! Giusto ieri, ed è buonissimo! Lo trova in fondo al secondo corridoio sulla destra».

Poi la Lego potrebbe mettere sul mercato un bel «Kit Mont-Saint-Michel»; e tutte le case produttrici di modellini dovrebbero fare altrettanto (in realtà c’è qualcosa del genere). Birre, caramelle, tisane e saponette ci sono già, quindi magari mazzi di carte, cancelleria, sticker e infinite emissioni filateliche (lo so, sono tutte cose un po’ novecentesche), e potrei andare avanti; il tutto però senza quella sottile distorsione del senso che si avverte nelle innumerevoli e stucchevoli raccolte di «Relaxing Gregorian». No, bisognerebbe che non si perdesse mai la profonda serietà di una scelta di vita e al tempo stesso si riuscisse a declinarla con l’ironia. Non so, questo è un punto delicato, tanto che talvolta comincio a diffidare della cosiddetta «chiave ironica» che tutte le porte dovrebbe aprire, ma adesso non è il momento…

Il culmine infine sarebbe raggiunto se un mattino, andando in edicola, trovassi l’annuncio di una nuova raccolta a fascicoli: «Monache e monaci. Scopri la vita di chi ha scelto il silenzio del chiostro. Prima uscita la figurina “Abate benedettino” e i primi tre pezzi per realizzare un vero chiostro in miniatura. Solo 1,99€». O forse, meglio ancora, se mi accorgessi che un editore illuminato ha appena lanciato l’Album delle figurine dei monaci: lo comincerei all’istante, dieci bustine per favore, grazie, anche a costo di ritrovarmi con sette san Bernardi e neanche un Isacco della Stella, che, lo si capirebbe subito, è rarissimo.

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La tecnica del nuoto (Dice il monaco, LXXXVI)

Uno degli ostacoli per me insormontabili in questo «tentativo di comprensione» è ben rappresentato da una frase che traggo dall’interessante e sapiente libretto che il camaldolese Vincenzo Bonato ha intestato a una Introduzione al monachesimo1, sotto forma di lettera a un giovane che da esso monachesimo si senta in varia misura attratto (testo cui credo dedicherò qualche altra nota). Passando in rassegna i sentimenti e gli atteggiamenti2 che caratterizzerebbero la «nostra relazione con Dio», e senza nasconderne, appunto, la «difficoltà», il monaco afferma: «L’abbandono in Dio è, forse, il sentimento più difficile da conseguire ma è anche l’unico che, liberandoci dal logoramento delle preoccupazioni, ci può infondere pace. Ciò che egli vuole è necessario che accada, mentre ciò che egli non vuole è impossibile che si realizzi». Be’, certo, commento a margine con una timida matita…

Assai opportunamente, p. Bonato accenna poco dopo alle conoscenze scientifiche che ci hanno reso consapevoli della vastità dell’universo e della nostra conseguente nullità, e al fatto che senza l’amore di Dio «saremmo proprio un niente». Quindi, «abbandonandolo, contando solo su noi stessi o addirittura vivendo sottomessi al nostro ego, corriamo il rischio di diventare realmente un nulla, divorati dal rimpianto». Ecco l’ostacolo insormontabile, per il quale accetto senz’altro l’accusa di superbia, se superbia è e non realismo, e questa è la «correzione» che per onestà propongo: non essendoci altro, dovendo contare solo su noi stessi e cercando di tenere a bada il nostro ego, riconosciamo di essere realmente un nulla, facendo il possibile con gli altri per non essere divorati dal rimpianto (e da altre cose). È poco, è qualcosa, è solo un gioco di parole? Non lo so.

A commento della difficoltà di concepire la bontà di Dio anche quando ci manda le (siamo preda delle) tribolazioni e inevitabilemente pecchiamo (sbagliamo) p. Bonato cita un efficace insegnamento spirituale di Doroteo di Gaza (ancora Gaza), e quindi:

Dice Doroteo di Gaza, monaco, agli inizi del secolo VI:

Siamo noi a non avere pazienza, a non voler fare un po’ di fatica, a non accettare di accogliere qualunque cosa con umiltà; per questo siamo fatti a pezzi [!] e, quanto più cerchiamo di sfuggire alle tentazioni, tanto più ne sentiamo il peso, ci scoraggiamo e non riusciamo a liberarcene. Ci sono alcuni che per necessità devono nuotare nel mare; se conoscono la tecnica del nuoto, quando giunge l’onda contro di loro, si curvano e si immergono finché essa passa, e così poi continuano a nuotare indenni. Se invece vogliono resistere all’onda, ne sono respinti e rigettati a una grande distanza. Come ricominiciano a nuotare, arriva su di loro un’altra onda; se di nuovo oppongono resistenza, di nuovo essa li respinge e li getta fuori, di nuovo vengono fiaccati senza concludere nulla. Se invece, come ho detto, si curvano sotto l’onda e si umiliano sotto di essa, questa passa oltre senza far loro del male ed essi continuano a nuotare quanto vogliono e a fare il loro lavoro. Così accade anche nelle tentazioni; se uno sopporta la tentazione con pazienza e umiltà, essa passa oltre senza fargli del male; se invece continua a tormentarsi, a lasciarsi turbare e a incolpare tutti, punisce se stesso, si rende più pesante la tentazione e non ne riceve profitto, ma anzi ne riceve danno3.

Forse, tuttavia, tra male vero e proprio e tentazione vi è una certa differenza…

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  1. Vincenzo Bonato, Introduzione al monachesimo, Nerbini 2021 («Orizzonti monastici»; 46).
  2. E lasciamola qui una «provocazione», che, espressa sottovoce e senza alcuna pretesa di sapienza, può anche non guastare: e se il futuro del cristianesimo fosse quello di una metamorfosi da fede in atteggiamento (complesso di atteggiamenti)?
  3. Doroteo di Gaza, Insegnamento XIII. Sopportare le tentazioni senza turbarsi e rendendo grazie, in Comunione con Dio e con gli uomini. Vita di abba Dositeo, Insegnamenti spirituali, Lettere e Detti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, p. 209. (Vincenzo Bonato dà un’altra traduzione, in cui, tra l’altro, curiosamente, «la tecnica del nuoto» diventa «l’arte del tuffo».)

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Memoria, docilità e solerzia (la prudenza di Josef Pieper)

PieperPrudenzaUna piccola deviazione dal percorso strettamente monastico mi ha portato a leggere il breve trattato che il filosofo e teologo tedesco Josef Pieper (1904-1997) ha dedicato alla prudenza, pubblicandolo nel 1936, per così dire, nel cuore della Germania hitleriana1. Il testo mi ha colpito molto e, seppur fondato principalmente sul, e intriso del, pensiero di san Tommaso, mi è parso assai utile e meritevole di qualche appunto più rischioso del solito.

«Non vi è frase nella morale classica cristiana», esordisce Pieper, «che suoni così poco familiare all’orecchio dell’uomo di oggi, anche del cristiano, e che gli appaia anzi così strana e singolare quanto questa: che la virtù della prudenza è la “genitrice” e la forma base di tutte le altre virtù cardinali, della giustizia, della fortezza e della temperanza… e che l’uomo buono sia tale in virtù della sua prudenza.»

Tenendomi prudentemente (ecco) lontano dalle complicazioni immani della giustizia contemporanea, dai travisamenti della fortezza (nell’arco costituzionale che va dalla resilienza all’immotivata tenacia) e dai travestimenti minimal della temperanza, si può forse dire che proprio la prudenza susciti il maggior sospetto, o almeno che non le sia stata ancora affibbiata un’accettabile maschera postmoderna.

Quale interessante sorpresa è stata dunque trovarsi d’accordo con alcune osservazioni di un filosofo tomista, quando dice, ad esempio, che la prudenza riguarda le vie per raggiungere i fini ultimi – «naturali e soprannaturali» – della vita umana, e non i fini medesimi (intorno ai quali non mi avventuro di certo), e ancor più quando afferma che «la decisione prudente si basa sulla preesistenza di conoscenze vere». Potente antidoto della precipitazione e dell’irresolutezza (e di determinazioni ben peggiori), la prudenza nel suo compimento si basa secondo Pieper su tre premesse, che difficilmente potrei trovare più condivisibili.

Anzitutto la memoria, che è soprattutto fedeltà alla realtà, custodia delle cose e degli avvenimenti «come realmente sono e sono stati»: «La falsificazione del ricordo, contraria alla realtà, attuata dal “sì” o dal “no” del volere, è la rovina vera e propria della memoria». Non può forse essere un comandamento laico? Come non riconoscere la costante minaccia della falsificazione, a partire dalla propria stessa memoria individuale? «E la gravità del pericolo», aggiunge Pieper, «sta proprio nella sua impercettibilità. In nessun altro settore un interesse inconfessato e incontrollabile può inserirsi come qui attraverso deformazioni, ritocchi, omissioni, coloriture, spostamenti d’accento.»

In secondo luogo la docilità. Altra sorpresa, forse, a meno di non intenderla, come suggerisce Pieper, come «rinuncia a fuggire nell’assurda autarchia di un sapere presunto». Imparare, quindi, e di buon grado, ad ascoltare, a farsi consigliare e riconoscere di non potersi bastare in tutto. E sempre in nome della fedeltà al reale, rifuggire dagli estremi opposti: «Incapacità di apprendere e saccenteria [dalla quale deriva l’esecrabile astuzia, la vera falsa prudenza] sono in fin dei conti forme di resistenza contro la verità delle cose reali».

Infine, la solerzia, che non è né mancanza di carattere, né cieca obbedienza, bensì la virtù della «obiettività nell’inaspettato», la prontezza nel decidere per il bene di fronte all’imprevisto, senza cedere all’ingiustizia, alla viltà e all’intemperanza.

La trattazione di Pieper non si esaurisce in questo, che tuttavia mi pare un gran programma di adesione al passato e al presente, a dati di fatto che sono «così e non diversamente», onde poter vagliare quanto è ancora da realizzare. «Fedeltà di memoria, capacità d’istruirsi, chiara obiettività nell’inatteso», conclude Pieper questa parte del suo trattato, «sono queste le virtù del prudente, considerate sotto l’aspetto conoscitivo»: come non sforzarsi di perseguirle con pazienza e applicazione, visto che noi sulla grazia riteniamo di non poterci contare…?

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  1. Josef Pieper, La prudenza, prefazione di G. Santambrogio, traduzione di G. Pezzuto, Morcelliana-Massimo 1999.

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