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Contraddizioni, rumori e odori

Il mio interesse per le «cose monastiche» preesisteva a queste note vagamente e teoricamente pubbliche e continuerà dopo la loro fine. È un interesse come un altro? È mera evasione in un mondo di carta più presentabile di quello popolato da draghi e maghi? È un’altra manovra del ben noto programma di idealizzazione di sé?

O è, invece, un «gesto magico», come quello dei pellegrini di Santiago che toccavano la testa scolpita del maestro Mateo nella speranza che un po’ della sua sapienza e del suo talento si trasferisse a loro? Sarebbe bello se fosse così. Sarebbe bello se fosse almeno un’aspirazione a quella «correzione dei difetti» di cui parla san Benedetto nel Prologo della sua Regola.

La domanda mi si è riproposta mentre leggevo l’articolo del vescovo-monaco Erik Varden, sull’«attualità» della Regola e sull’utilità di andare, oggi, «a lezione da san Benedetto»1, che prende avvio proprio dal famoso Prologo e dal concetto di «scuola del servizio del Signore». Secondo Varden «la schola di cui parla Benedetto è un luogo in cui si impartisce la conoscenza, certo; ma ancor più essenzialmente è un luogo di iniziativa in cui si crea qualcosa di nuovo. Questo qualcosa è un modello innovativo di comunità che riunisce liberamente degli uomini per mezzo di un patto di vita e un obiettivo chiaro».

Per illustrare tale modello, anzitutto Varden richiama l’attenzione per contrasto sulle tre categorie di monaci (cioè di persone?) in qualche modo opposte a quella dei cenobiti; tre categorie che rimandano a riconoscibili modi di esistenza contemporanea: gli eremiti, che, provati alla scuola comunitaria, si ritirano in solitudine, dove il cimento si fa ancor più arduo, con tutti i rischi che ciò comporta (forse soprattutto di autocompiacimento); i sarabaiti, che «hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni» e che «incontriamo normalmente nella vita di tutti i giorni»; i girovaghi, che non si fermano mai da nessuna parte, girano in tondo e non concludono niente, «e anche qui riconosciamo una tipologia di persona diffusa nel nostro tempo, dove si dispiega un movimento circolare destinato a un non-arrivo, non solo nello spazio materiale o entro i confini intricati della mente umana, ma nelle vaste e aride distese di internet».

In opposizione a ciò nella scuola di comunità, tra i cenobiti, si impara a conoscersi, a perseverare, a non disperdersi, a moderare appetiti e voglie, a placare la rabbia, a perdonare e a essere pazienti, e tutto questo insieme. Più che impararlo, infatti, ce lo si insegna. La correzione dei difetti, per fare un esempio e per tornare a essa, è infatti un programma che può essere soltanto collettivo, da svolgere nell’ambito di quella comunità che «libera l’uomo dalle illusioni sull’umanità e su sé stesso e gli insegna ad affrontare l’umanità nella sua complessità, con le sue contraddizioni interiori ed esteriori, i suoi rumori e odori, e con la sua capacità di grandezza. Invece di sognare tediosamente un “popolo” teorico, impara, attraverso la battaglia, ad amare le persone così come sono».

A questo punto Varden sviluppa il gioco di parole anticipato dal titolo del suo articolo, in base al quale la schola Dei, di Dio, benedettina può diventare una schola DEI, dedita alla diversità, all’equità (che non è sovrapponibile all’eguaglianza) e all’inclusione: tre concetti aggiornatissimi e dai risvolti eminentemente pratici centrali nella Regola, compresa a loro eventuale degenerazione. Ma per il momento mi accontenterei di non dimenticare che qualsiasi programma di correzione, da opporre al dilagare della ininterrotta assoluzione di sé, e per non essere una «pia illusione» o una storiella che ci si racconta prima di addormentarsi, ha sempre bisogno di altri, contraddizioni, rumori e odori compresi.

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  1. Erik Varden, Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto, in «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

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Con dignità

«Molti di noi pensano che Dio ci abbia abbandonato in questo momento in cui siamo chiamati dallo stesso Signore a vivere il carisma cistercense.» Una frase del genere non può lasciare indifferente chi si dichiara «interessato» al monachesimo, tantomeno chi è vicino a esso, figuriamoci chi ne fa parte.

A maggior ragione se si considera che ad averla pronunciata è stato l’abate generale dei trappisti, d. Bernardus Peeters, nel corso di una riunione della Regione Oriens (Filippine, Indonesia, Giappone, Hong Kong e Australia) dell’Ordine, il 7 maggio scorso. Ho potuto leggere il testo della sua conferenza sul numero 2 di quest’anno del semestrale «Vita Nostra»1, e ne sono rimasto assai impressionato. È difficile sottrarsi all’impressione che l’abate generale si sforzi di trovare una «chiave di lettura» positiva, o quantomeno «teologicamente sostenibile» di quanto sta accadendo al suo Ordine, al monachesimo tutto. Si sforzi «disperatamente»? No, disperatamente no, poiché la speranza, anche nel buio sempre più fitto, è inseparabile compagna della sua fede. Diciamo allora che si sforza con uno slancio verso il futuro che gli è imposto anche dal suo ruolo. D’altra parte sono i suoi stessi monaci a chiederglielo: «Ricevo lettere da fratelli e sorelle che non sanno più dove dobbiamo andare… Desiderano nuovi percorsi, ma si sentono intrappolati nell’oscurità del presente. Si aspettano da me, dall’Ordine, una maggiore iniziativa per intraprendere qualcosa di nuovo… “Per favore, enfatizza il positivo e dacci speranza!”» E l’abate generale lo fa.

Lo fa esplorando cinque «movimenti» nei quali vede «lo Spirito Santo attivamente presente» nella vita dell’Ordine, senza tuttavia per questo nascondere le corrispondenti difficoltà. Cominciando dal «coraggio di abbracciare la nostra vulnerabilità» (che potrebbe quasi sembrare un eufemismo), si viene a sapere, ad esempio, che nel 2022 è stato promulgato uno «Statuto per l’accompagnamento delle comunità fragili», che invita a vedere nella vulnerabilità un’opportunità di rinnovamento e che, tra le altre cose, evidenzia un percorso in cinque «ben note fasi», che ricordano molto i cinque momenti dell’elaborazione del lutto definiti dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross: «Sono le cinque fasi della morte annunciata», commenta l’abate generale con crudo realismo. Lo Statuto introduce anche la figura del Commissario monastico, il cui «primo e principale compito» è quello di cercare insieme alle comunità in crisi (undici al momento quelle «commissariate») una via di rivitalizzazione o di riconoscere l’eventuale inevitabilità della chiusura: perché «alla fine, quindi, si tratta di vivere e di morire con dignità».

Gli altri «movimenti» individuati dall’abate generale sono la crescita delle collaborazioni innovative tra diversi monasteri (un solo esempio: la condivisione del noviziato fra tre abbazie); la presenza comunque di qualche nuova fondazione; l’importanza sempre maggiore del ruolo delle monache, espressa con una formula prudentissima ac evidentissima: «La crescente consapevolezza della complementarità tra uomini e donne nell’Ordine»; infine, il senso di corresponsabilità collettiva: «L’attuale fragilità delle comunità di tutto il mondo ci ha fatto anche capire che esiste una responsabilità condivisa da tutti i membri di una comunità e da tutte le comunità dell’Ordine».

Le conclusioni dell’abate generale sono, come richiesto, piene di punti esclamativi incoraggianti, ma a me è parso ancor più coraggioso, per un monaco nella posizione di d. Peeters, aver lasciato trasparire da tutto il testo la sensazione di trovarsi per così dire sull’orlo dell’abisso. «Forse è giunto il momento di cercare di nuovo le parole per formulare la nostra missione nella Chiesa e nel mondo di oggi, per dare una direzione alla nostra vita», ammette l’abate generale, là dove il sottinteso e ben più drammatico di quanto chiaramente espresso.

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  1. Bernardus Peeters, ocso, Credo in Spiritum Sanctum, Dominum e vivificantem. Credo nello Spirito Santo, il Signore, il datore di vita. Come lo Spirito Santo è all’opera nella vita dell’Ordine oggi, in «Vita Nostra» XIV (2024), 2, pp. 3-15.

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Chi, se non noi monaci?

Talvolta, quando leggo «Vita Nostra», il semestrale dell’Associazione «Nuova Cîteaux», ho l’impressione, se non proprio di spiare dal buco della serratura, quantomeno di essere un ospite che ascolta una conversazione alla quale non era stato invitato. Non è l’organo ufficiale dell’Ordine Cistercense (dei suoi due rami) a uso interno, si tratta, in fondo, di una pubblicazione, tuttavia la mia sensazione è quella, poiché la quasi totalità degli articoli che vi vengono appunto pubblicati deriva da occasioni interne all’Ordine, spesso strettamente interne, come le «settimane di formazione», le lettere circolari, le «commissioni liturgiche», ecc. È una rivista scritta da monaci e monache che si rivolgono ai propri confratelli e consorelle, quindi, come si può immaginare, di eccezionale interesse per avere un’idea di cosa (alcun)i monaci e monache (cistercensi) di oggi pensano di se stessi e della loro scelta di vita.

Il primo numero del 2024, dal punto di vista sopra indicato, è assai notevole. A cominciare da alcune riflessioni dell’abate generale (ocso) Bernardus Peeters, sollecitate dalla domanda di un postulante che l’ha colto di sorpresa: «Qual è il vantaggio, per me e per la comunità, di appartenere a un Ordine?» La risposta dell’abate è concreta: «È un corpo grazie al quale siamo chiamati a sostenerci gli uni gli altri». E a riprova cita tre casi specifici di aiuto materiale: una colletta internazionale per una comunità in difficoltà («voi avete donato con generosità»); una visita a una comunità lungamente rimandata a causa di una guerra («la cerimonia ha avuto luogo mentre intorno continuavano i combattimenti»); l’ondata di solidarietà in seguito alla morte improvvisa di un abate («il fatto che noi fossimo là come comunità dell’Ordine»). È nella crisi che il legame di carità dell’Ordine si dispiega al massimo grado: «È proprio questo il momento in cui abbiamo disperatamente bisogno l’uno dell’altro come comunità».

A seguire con l’intervento di m. Cristiana Piccardo sul servizio abbaziale, sulle difficoltà del dialogo intra-comunitario, tra «aggiornamento» e rispetto degli Usi e delle Osservanze (come far convivere, ad esempio, lo stimolo al dialogo con l’osservanza del silenzio?) e sulla secolare dialettica tra libertà e obbedienza («la libertà aderisce a… ciò che è giusto e nato dalla ricerca sincera del bene comune»). A seguire ancora con le pacate rivendicazioni di Patrizia Girolami (ocso) in tema di liturgia: «Chi, se non noi monaci, possiamo gustare e testimoniare la bellezza della liturgia? Chi, se non noi monaci, possiamo riscoprirne il senso teologico e aiutare gli altri a riscoprirlo? Chi, se non noi monaci, possiamo offrire, oggi, la possibilità, a chiunque lo voglia, di vivere il mistero della liturgia?»

Per giungere infine, sorvolando su due articoli sull’esperienza di Tibhirine e sull’«attualità» di Guglielmo di Saint-Thierry che meritano un discorso a parte, all’articolo di Monica Della Volpe (ocso), estremamente significativo a partire dal titolo programmatico: Quali aspetti del nostro carisma potrebbero aiutare il monachesimo italiano a un rinnovamento e a rispondere alle sfide di oggi, non privo di punte più o meno velatamente polemiche (Bose, il sacerdozio dei monaci, il cosiddetto monachesimo urbano, le monache camaldolesi, Civitella, anche Viboldone e le «grandi abbazie benedettine [che] sembrano piuttosto soffocate dal peso di una storia») e che attacca con una presa di posizione inequivocabile: «La vita monastica ha avuto una sua resistenza, basandosi su usi e osservanze la cui validità era comprovata da secoli, ed è arrivata sino a oggi, talvolta però in condizioni pietose; dove è conservata, più che rinnovata, sembra tirare gli ultimi respiri». Il discorso si fa da qui complesso e delicato, e io, osservatore impreparato e non invitato, o mi fermo o ci penso bene prima di proseguire.

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Faticosa e complessa

Chiamata a svolgere una riflessione sulla «preghiera delle donne», per il sempre interessante mensile dell’Osservatore Romano «Donne chiesa mondo», Maria Ignazia Angelini, monaca benedettina di Viboldone, ne ha consegnata una da par suo: asciutta, concreta, stimolante1. Asciutta, poiché in fondo si tratta di poco più di tre dense paginette, senza una parola di troppo; concreta, per le indicazioni su ciò che «avviene» nella pratica di un’attività tanto intuitiva quanto in realtà misteriosa, e per i pochi ma decisivi riferimenti alla propria esperienza («dopo sessant’anni di vita monastica, giorno dopo giorno», «quotidianamente, entrando in coro e sedendo al mio posto, ogni volta…», «la pratica del salmodiare insieme, nei giorni, nelle ore, negli istanti, riconsiderata alla luce di anni, decenni di vissuto corale»); stimolante, per la capacità di tenere insieme riferimenti assai distanti nel tempo (la Bibbia, va da sé, Cristina Campo, Olivia Flaim, Isacco di Ninive), senza rinunciare a dire qualcosa sul nostro, di tempo. Stimolante, aggiungo, per un non credente che voglia provare a capire.

Le donne, nella riflessione di m. Angelini, sono le monache, e la preghiera è quella dei Salmi, e non poteva essere diversamente. In questa prospettiva, il nesso che si stabilisce con gli esempi tratti dalle Scritture (essenzialmente Eva e Maria) è centrale: «Un’esperienza profondamente sintonica a queste oranti, è quella che sta alla radice del monachesimo femminile. È l’esperienza di preghiera che si scopre e si fa sempre più ospitale di tutto l’umano, dimorando stabilmente – tra stanchezza e sopori – immersa in parole di salmi, nel ritmo dei giorni in monastero» (e non si può che sottolineare quell’inciso così realistico di stanchezza e sopori). Pregare i Salmi, dire tutte le loro parole senza esclusione («dirli, leggerli, commentarli, recitarli a memoria, cantarli, suonarli»), diventa un percorso di immersione, trasformazione personale e scoperta, un «battesimo» continuo nel quale la Parola è sempre ri-pronunciata, attraverso la singola persona, in un atteggiamento di rinuncia e affidamento: «La preghiera è sempre una resa del proprio controllo sulla propria vita».

Qui m. Angelini getta un primo sguardo al mondo che si agita intorno al suo monastero, quando indica nella preghiera comunitaria l’antidoto fondamentale allo «spiritualismo narcisista» di chi pensa di poter andare da solo per la sua strada: «La diuturna consuetudine corale col Salterio […] fa maturare nella comunità monastica femminile – priva di ministeri ordinati e ricca del sacerdozio battesimale – una famigliarità liberante, e circolare – un vero e proprio “abitare insieme”». Una consuetudine – ecco il secondo, fermo sguardo – che rappresenta una «avventura spirituale alternativa» rispetto alla cultura «che respiriamo in questa faticosa e complessa svolta d’epoca: la cultura del farsi da sé». La «frequentazione assidua» del Salterio, suggerisce m. Angelini esalta la competenza femminile («materna», dice lei), capace di accogliere il dolore di tutti senza smarrire i «germogli di speranza».

Forse, si potrebbe obiettare, più che una cultura, quella che respiriamo è una condizione infine riconosciuta (che nulla ha a che vedere, nonostante l’assonanza, con la declinazione del self-made man). Una condizione di emancipazione lungamente perseguita che non preclude un’aggiunta decisiva. Perché l’«insieme» (dell’abitare, del fare e anche del farsi) può essere recuperato anche in una dimensione di radicale immanenza, nonostante molte circostanze abbiano detto e dicano il contrario. E nonostante questo significhi l’abbandono definitivo di una certa idea di speranza.

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  1. Maria Ignazia Angelini, Le salmodianti ieri e oggi. Donne e salterio: riflessioni di una monaca benedettina, in «Donne chiesa mondo» 132 (aprile 2024), pp. 4-7.

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«Non ci sono negozi, né fabbriche di monache» (il Carmelo teresiano)

Stava per sfuggirmi, per così dire, un articolo molto «significativo» che il carmelitano Rafal A. Wilkowski ha dedicato al Carmelo teresiano femminile sull’ultimo numero del 2022 della «Rivista di vita spirituale»1. Partendo infatti dalla premessa che il carisma non è un concetto astratto, bensì uno stile di vita che si trasmette di generazione in generazione («Il carisma viene incarnato, oppure non esiste come tale»), il padre carmelitano espone e commenta anzitutto alcuni dati statistici. (Certo, essendo figlio del mio tempo, avrei trovato più «giusto» un articolo scritto da una diretta interessata, cioè una carmelitana. Con ogni probabilità un tale articolo esiste e semplicemente io non l’ho ancora letto, e comunque il p. Wilkowski è «persona ampiamente informata dei fatti», svolgendo, oltre a quello di segretario personale del Padre Generale, anche l’incarico di segretario per le monache dell’Ordine.)

Il Carmelo teresiano femminile è composto (al maggio del 2022) da 10.040 monache, che popolano 834 monasteri sparsi in 97 Paesi. In Europa e in America del Nord solo il 20 per cento delle monache ha meno di 50 anni, mentre il 33 per cento (il 28 per cento in America) ne ha più di 80, con un’alta percentuale di ultranovantenni. Il quadro si ribalta in America del Sud e in Asia. Le parole del p. carmelitano sono misurate ma inequivocabili: «Le comunità, specialmente nel mondo occidentale, stanno invecchiando e diminuendo» (oltre 80 comunità sono state soppresse in 10 anni, dal 2012, le nuove professioni non compensano i decessi e le dispense, e si tratta di un «processo inarrestabile». D’altra parte «non ci sono negozi, né fabbriche di monache. I dati statistici raccolti mostrano chiaramente che il tempo dell’espansione dell’Ordine è ormai passato alla storia ed è giunto il tempo della riduzione».

Due casi specifici vengono citati per illustrare più da vicino la drammaticità della situazione: quello del Carmelo belga, che dai 32 monasteri del 1979 (con 536 monache) è passato agli 11 del 2022 (con 117 monache), una situazione di crisi irreversibile: «Il modo in cui si è vissuto finora non ha più le condizioni fisiche per sostenersi. […] Ora è una lotta per la sopravvivenza»; e quello del Carmelo italiano, che, pur mantenendo quasi lo stesso numero di monasteri (da 54 a 53 nello stesso arco di tempo), ha visto diminuire il numero delle monache a 968 a 600.

Passando dal freddo, e impietoso, dato al «che fare?» e alle prospettive, il discorso del p. Wilkowski si fa necessariamente più sfumato. Anzitutto bisogna distinguere tra il carisma e le strutture attraverso il quale si è espresso e si esprime, fra Tradizione e tradizioni, là dove la prima si rinnova costantemente negli individui che lo incarnano in un determinato tempo, mentre le seconde sono soggette all’usura del medesimo tempo, subiscono l’influsso delle circostanze esteriori e non sono eterne. Le forme tradizionali danno conforto e sicurezza (o l’illusione della sicurezza), ma se si svuotano del loro contenuto vanno superate.

Il momento impone discernimento e capacità decisionale, continua p. Wilkowski, anche se è molto più facile dirlo che farlo, e ricorda una tipica frase teresiana: «Cosa vuoi che faccia, Signore?» È il «problema» più arduo che si ripresenta, quello che un non credente fatica più che mai a comprendere: «Discernere significa riflettere seriamente su cosa vuol dirci il Signore attraverso le situazioni nuove che si presentano. Qual è la sua volontà in tutto ciò?» Riflettere: va benissimo, ma alla fine della riflessione come interpretare il silenzio che seguirà a quella domanda?

«Forse», accenna p. Wilkowski, occorre saper morire per poter risorgere. Concetto non lieve, se applicato a situazioni concrete. «Si deve piuttosto imparare a lasciare in modo consapevole e maturo tutto ciò che è relativo, temporaneo. Questa è l’ars moriendi. Si deve imparare a rinunciare, se necessario, a certe forme di espressione per assimilarne altre. Si deve riscoprire il valore di vivere nella povertà delle forme, nell’esperienza della sofferenza», sembra quasi, se posso permettermi, un modo garbato di annunciare e preparare alla fine, come parrebbe confermare la frase che segue, un vero strappo dall’astratto al concreto: «E non si deve percepire la chiusura del monastero come la fine del mondo e allo stesso tempo come un fallimento personale».

E si torna così agli aspetti pratici più impellenti. Incentivare la creazione di «Carmeli-infermerie» per assistere le monache anziane? Come risolvere il problema delle sorelle che si ritrovano senza il monastero in cui hanno vissuto per mezzo secolo? Come mantenere vivo il senso di comunità dell’intera famiglia carmelitana? Cosa significa, aggiungo io, l’insistenza sulla «formazione permanente» di fronte all’estinzione delle comunità?

La conclusione di p. Wilkowski sintetizza, con una punta di particolare enfasi, questa compresenza di lucidità e vaghezza: «Uno degli elementi essenziali del carisma teresiano è il realismo: camminare nella verità. I tempi attuali richiedono questo realismo. E questo è difficile. […] Senza questo realismo il Carmelo teresiano sarà perduto».

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  1. Rafał Aleksander Wilkowski, ocd, Il carisma nel Carmelo teresiano femminile, in «Rivista di vita spirituale» a. 76 (2022), n. 4, pp. 427-451.

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La schiuma delle parole: i certosini e i libri

Sull’ultimo numero di «Benedictina» è apparso un articolo molto interessante della studiosa Emanuela Garibaldi dedicato al ruolo dei libri e della lettura all’interno dell’ordine certosino, con particolare riguardo agli aspetti pratici e normativi1. Lo studio si estende dalle prime scritture normative, le Consuetudines Cartusiae del priore Guigo I, del 1127, attraverso le varie stesure degli Statuti, fino agli Annales ordinis Cartusiensis del priore Innocent Le Masson (1627-1702).

Sin da subito è chiaro come il libro sia centrale per la vocazione certosina («oggetto privilegiato nella propria formazione intellettuale e spirituale»), orientata al distacco dal mondo e alla contemplazione delle «cose divine»; libro da leggere, da trattare con somma considerazione, ma anche libro da ricopiare: il monaco, scrive infatti Guigo, «riceve dalla biblioteca [de armario] due libri da leggere. Riguardo ad essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre anime, siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché, dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo con le mani. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della verità in vece nostra ci sembra di fare»2.

Cautela e impegno massimi anche perché i libri sono pochi e costosi da produrre, in termini di materiali e di tempo, tanto che nei testi legislativi compaiono assai presto disposizioni riguardanti il loro possesso, il prestito e la mancata restituzione. Anzitutto il possesso che non può mai in alcun modo essere individuale, bensì sempre e soltanto del monastero, un legame che rimane inscindibile anche in caso di prestito (per esigenze di copiatura) o di temporaneo spostamento (in seguito a viaggi, soprattutto di priori). La mancata restituzione, poi, è trasgressione tutt’altro che lieve: «Il XV secolo è costellato di ordinationes capitolari inerenti a diatribe legate alla proprietà di beni librari». Gli scambi e le delibere vengono discusse nel Capitolo annuale di Grenoble e non sono cose da trattarsi con leggerezza: c’è traccia ad esempio del priore della certosa di Capri che nel 1423 si dimentica di portare i libri che doveva restituire ai monaci di Villeneuve-les-Avignon, o il denaro corrispondente al loro valore, e non è nemmeno la prima volta: gli viene quindi imposta l’astinenza dal vino. In certi casi le pene per i «crimini librari» possono arrivare alla sospensione dal proprio ufficio o addirittura all’incarcerazione (occorsa nel 1426 a un monaco di Valbonne per aver sottratto una Bibbia e un salterio già promessi ad altra certosa).

Va da sé che il punto di svolta è rappresentato dall’invenzione e diffusione della stampa, ma, se l’ansia per la penuria dei libri si stempera (ancorché lentamente), non diminuisce la preoccupazione per la correttezza dei testi sui quali i monaci pregano, studiano o meditano, che anzi si acuisce in seguito all’esplosione della Riforma e ai risvolti anche librari che assume. Il tempo che prima era dedicato alla copiatura si riversa, per così dire, in quello riservato alla lettura; attenzione, però: la maggiore disponibilità non deve tradursi in distrazione o pericolosa bramosia di sapere. Per dire, sono proibite tutte le edizioni delle sacre scritture curate da Erasmo («contrarie alla religione certosina»); viene scoraggiato lo studio eccessivo del greco («Vi sono infatti alcuni che […] affermano anche che nessuno possa giungere alla vera conoscenza e comprensione delle Sacre Scritture se non è istruito nella lingua greca. E così trascorrono il tempo concesso per le letture sacre, cedendo a una certa curiosità d’animo, nelle lettere greche, oltre che in quelle ebraiche»); va bene lo studio, soprattutto per i monaci maturi e formati, ma alcune materie vanno evitate, in primis l’alchimia e l’astrologia («Ingiungiamo solennemente, pena la reclusione, che [il monaco] non si immischi nelle previsioni fallaci dell’astronomia», 1462), ma anche in certa misura la medicina e il diritto (che spinge a occuparsi di questioni cavillose e infruttuose).

Da tali preoccupazioni derivano così elenchi di libri «giusti» e di edizioni corrette, l’introduzione dell’approvazione del priore generale per la stampa di testi liturgici, il divieto di porre aggiunte o correzioni in margine ai libri concessi, l’adozione delle disposizioni dell’Indice di Paolo IV (1559) e di quelli successivi, l’obbligo per i padri visitatori di controllare i libri presenti nelle biblioteche e nelle celle dei monasteri («Ordiniamo che i visitatori di ciascuna Provincia, nonché i convisitatori, quando visitano le case a loro affidate, verifichino i libri conservati sia nelle singole celle sia nelle biblioteche comuni, e che lo facciano con la massima cura possibile», 1567); le grandi imprese di pubblicazioni uniformi dei testi fondativi e statutari. E così via, in buona sostanza fino al XVIII secolo.

D’altra parte, la lettura del monaco certosino ha sempre e soltanto uno scopo, ben chiaro anch’esso sin dalle origini. Lo afferma Bernardo, priore di Portes, nella famosa lettera a un monaco recluso, del 1128-30: «Accostati alla lettura devotamente e con desiderio spirituale, affinché tu possa udirne qualcosa che valga come esempio per la tua conversione, oppure, come il Signore si degnerà di fartene dono, tu possa essere ristorato dalla dolcezza dei discorsi e dei misteri divini. Leggi tutte le sacre Scritture di cui potrai disporre con questa diligenza e con tale intenzione, non per gonfiarti di sapienza, ma per essere edificato nella carità». E con una bella immagine lo suggerisce lo stesso Guigo, in una lettera sulla vita solitaria dei medesimi anni: «Si dedica [il monaco] alla lettura, soprattutto di opere canoniche e religiose, nelle quali conta più il midollo del significato che la schiuma delle parole [in quibus eam magis occupat medulla sensuum quam spuma verborum]».

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  1. Emanuela Garibaldi, «Eterno cibo delle nostre anime»: la disciplina della lettura nelle fonti normative dell’ordine certosino, in «Benedictina» 69 (2022), n. 1-2, pp. 55-93.
  2. Le consuetudini di Guigo I, XXVIII, 3-4, in Fratelli nel deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2000.

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Movente, metodo e fine, origine, senso e scopo

VitaNostra 23 Di grande interesse il numero più recente di «Vita Nostra», il periodico dell’Associazione «Nuova Citeaux», che dedica ampio spazio alla prima parte del capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, tenutasi ad Assisi lo scorso febbraio e che ha visto l’elezione del nuovo Abate Generale, nella persona di d. Bernardus Peeters, già abate della comunità brabantina di Tilburg.

Tra le righe dei vari testi sono disseminate osservazioni che, pur nella necessità della sintesi e con la consueta discrezione, rimandano alla ferma e talvolta dolorosa riflessione su se stessi che i monaci e le monache del secolo presente sentono in vari modi premere sulle proprie coscienze, una pressione che viene dal contesto culturale e religioso in cui vivono e che, come dice l’abate di Citeaux d. Burton, «ci presenta, per la Chiesa e per il futuro del nostro Ordine, delle sfide immense!» Cosa ci si aspetta dai monaci, si chiede ancora d. Burton, in questo mondo «disincantato dal suo stesso disincanto»? E la sua risposta affianca quattro virtù, quattro volti noti ma non per questo facili né immediati: «Nel nostro [non passi inosservato l’uso del possessivo “nostro”] mondo secolarizzato, questo è ciò che ci si aspetta da noi: la profondità della sapienza e l’ampiezza della tenerezza, raddoppiata dalla lunghezza della pazienza, ed essa stessa a spirale verso le altezze della speranza!»

Nel testo di d. Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei «cugini» della Comune Osservanza, che prende spunto da un passo di Matteo, si può leggere d’altra parte, che «la comunione fraterna in Cristo è la sostanza della missione, di tutta la missione della Chiesa, anche della missione dei monasteri. La comunione è il movente, il metodo e il fine, l’origine, il senso e lo scopo della missione della Chiesa». Insieme bisogna vivere, camminare, mangiare, fare, parlarsi, vedersi e ascoltarsi, e decidere – e da abate di lunga esperienza d. Lepori aggiunge: «Il problema non è tanto di prendere sempre le decisioni giuste, ma di far crescere il consenso, il sentire insieme della comunità» (e quanto mi piacerebbe chiedergli fin dove crede si possa spingere questa impostazione al crescere meramente numerico della «comunità» in questione).

Ancora più esplicite e fitte le considerazioni della Sintesi dello stato dell’Ordine di m. Maria Francesca Righi e d. Godefroy Raguenet de Saint Albin. Un testo breve e calibrato nel quale a tratti mi è parso di percepire un antagonismo più marcato col mondo della «secolarizzazione globale» e che vuole riaffermare il senso dell’«inalterata attualità del nostro carisma», pur muovendo dalle ombre circostanti prodotte dalla crisi (ecologica, sanitaria, economica e legata agli abusi), dalla riduzione della comunità, dalla «fragilità delle nostre strutture», dai «sentimenti di isolamento». Anzitutto il carisma, appunto, che trova, tra le altre, un’inattesa declinazione resistenziale: «I fondamenti della vita monastica, i pilastri del nostro carisma, ci permettono di resistere alla mondanità manageriale e alla preponderanza della tecnoscienza». Poi la fraternità, e poi ancora la formazione, «questione cruciale, evidenziata in vari modi» che rimanda anche al problema assai complesso tra i monasteri delle giovani Chiese e quelli del vecchio mondo («Siamo ancora (troppo?) in gran parte non toccati dall’interculturalità che segna la vita religiosa apostolica oggi»).

Molti anche gli spunti «tecnici», come ad esempio l’osservazione che «le conferenze regionali sembrano essere una risorsa sottoutilizzata»; oppure il suggerimento che «la mancanza di padri immediati non potrebbe aprire la strada alle “madri immediate”?»; o ancora l’invito a esplorare gli aspetti migliori della «comunicazione», ad esempio con «una piattaforma interattiva, un blog moderato da un membro della Casa Generalizia, ecc.»); o infine la velatissima e sorprendente (e quindi espressa in latino…) proposta di valutazione di nuove forme di professione di fronte alla «sete esistenziale dei candidati» (non sempre e non più soltanto giovani – «dovremmo rivedere il nostro vocabolario, quando sono spesso ultracinquantenni»): «Proprio come la richiesta dei laici cistercensi è stata un segno dei tempi, così una proposta di vita monastica ad tempus è forse un percorso da esplorare».

«Il vecchio mondo se n’è andato», concludono m. Righi e d. Raguenet, e occorre che l’Ordine si apra, al proprio interno e all’esterno, dialogando, condividendo, testimoniando, accogliendo. È necessario, «se non vogliamo essere i guardiani o le reliquie di un mondo passato».

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Ostaggi (Gregorio e Bernardo, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

L’inaggirabilità del corpo, si diceva; campo decisivo dove si gioca la nostra «partita». Per san Gregorio Magno la strada da seguire è quella di un radicale ritorno in se stessi (habitare secum), chiudendo le porte che in noi si aprono al mondo, e ai suoi «pericoli», e spegnendo i sensi che vi sono connessi. In tale prospettiva il chiostro è simbolo perfetto di questo movimento e al tempo stesso strumento pratico di grande efficacia, quasi una piattaforma di lancio per ascendere alla contemplazione delle cose celesti. Parlando di san Benedetto, Gregorio sintetizza dicendo che in quella solitudine raggiunta «abitava con se stesso nel senso che si manteneva nel chiostro del suo pensiero; ma ogni volta che l’ardore della contemplazione lo portava alle altezze, senza dubbio si lasciava sotto se stesso» (il corsivo è mio). «In questo contesto», commenta Patricia Metzger1, il chiostro è presentato come un baluardo contro il mondo, così come la Chiesa e la fede sono presentate come paradisi di pace nel cuore di un mondo tormentato» (e non è difficile scorgere qui uno dei motivi di attrazione che gli stessi edifici monastici suscitano nei laici che li visitano).

Anche san Bernardo invita a partire dalla miseria della nostra condizione per orientarsi a Dio, ma non facendo leva sulla colpa, come Gregorio, bensì sulla progressiva conoscenza di sé, non sulla chiusura bensì sull’apertura. Mettendo anche in guardia sui rischi legati all’idealizzazione della contemplazione. L’interiorità, per Bernardo, non è un rifugio dolce e riposante, non deve esserlo se si vuole evitare il compiacimento – cioè l’inautenticità. Scrive Bernardo, con micidiale finezza, al canonico Ogero (Lettera 87): «Di’ la verità, cioè che tu hai avuto cura più della tua quiete che dell’utilità degli altri. E non c’è da meravigliarsene: anche a me, lo confesso, piace che una siffatta quiete ti piaccia, purché non ti piaccia troppo». E aggiunge, inchiodando alla sua responsabilità il povero Ogero, che, con sollievo, aveva «deposto il carico della cura pastorale»: «Qualsiasi bene che piace tanto che se non lo si può realizzare, secondo le norme, ci spinge però a realizzarlo lo stesso anche in un modo non lecito, è un che di troppo e per il fatto stesso che non è compiuto secondo le regole non è un bene». Il pericolo per Bernardo, secondo la lettura di Metzger, non è (quasi) mai nel mondo, ma (quasi) sempre e comunque in noi stessi, «nelle illusioni e nelle false immagini che alimentiamo su noi stessi».

L’ingresso nel chiostro, reale e simbolico («luogo alto e segreto, ma per nulla tranquillo»), quindi, non è una fuga dal mondo, corrisponde invece alla creazione di uno spazio, reale e simbolico, di accoglienza interiore per incontrare il divino, nella sua indefettibile misericordia. La quiete monastica libera dunque dall’affanno della ricerca di sé, e dalle trappole dell’autoaffermazione, in virtù di una completa apertura e disponibilità all’incontro. Non si abbandona se stessi, nel chiostro, semmai ci si sveste. E questo è un punto di comprensione cruciale anche per un non credente come il sottoscritto, cruciale per quanto assai sfuggente se privato, appunto, dell’altro Protagonista di tale incontro.

«Lungi dall’essere un ripiegamento su stessi», conclude Metzger, «la quiete si rivela qui come il culmine dell’incontro, permettendo all’uomo non di sfuggire al mondo, ma di trovare la distanza necessaria per non esserne ostaggio.»

Ma chi, o cosa, c’è laggiù, se Lui non si vede?

(2-fine)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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Un esperimento nel tempo (Gregorio e Bernardo, pt. 1/2)

Sul primo numero di quest’anno la rivista di «area cisterciense» «Vita nostra» ha dato in traduzione italiana un altro saggio molto interessante di Patricia Metzger, studiosa francese di liturgia e specialista di san Bernardo, dedicato al confronto del pensiero di san Gregorio e, appunto, san Bernardo sul corpo1. Argomento che li accomuna: «Entrambi descrivono i limiti e gli impedimenti della condizione umana e, più precisamente, la pesantezza che si lega al corpo». Si tratta, va da sé, di un testo per studiosi, che offre tuttavia numerose aperture in cui il lettore generico e laico può introdursi con profitto, se non si ritiene del tutto sbagliato considerare i due autori alla stregua, se così si può dire, di «pensatori esistenzialisti» ante litteram.

Entrambi condividono una situazione storica simile, avvertono in maniera simile la pressione del «mondo» e non vi si sottraggono, fondano il proprio pensiero sull’esperienza vissuta e sull’osservazione della realtà quotidiana e muovono da una simile visione della «miseria umana», «entrambi sanno che è attraverso il corpo che possiamo comunicare tra di noi, come con Dio»: il corpo come luogo inaggirabile dove cresce rigogliosa la nostra ambivalenza e… si gioca un po’ tutto.

Per illustrare la posizione del grande papa, la studiosa cita un brano mirabile dal suo Commento morale a Giobbe in cui Gregorio mostra come la nostra condizione di eterna mutevolezza ci spinge, per arginare il «malessere», a usare rimedi che si trasformano nel loro opposto (indeboliti dall’inattività, vogliamo fare, ma fare ci stanca e vogliamo riposare…), e così «il bisogno di curarsi non fa mai difetto. Tutti questi sollievi che cerchiamo di utilizzare nell’esistenza sono come tanti antidoti che usiamo contro il nostro malessere. Ma queste medicine si mutano in veleno, poiché, se rimaniamo un po’ a lungo attaccati al rimedio scelto, siamo disturbati da ciò che avevamo previsto dovesse ristorarci». Di conseguenza ci smarriamo in una continua e penosa trasformazione («Alla ricerca di ciò che non possiede, quando lo riceve, [l’anima] sperimenta l’ansia») e ci troviamo in una situazione analoga anche di fronte al sapere, alla conoscenza: «Vedendosi al tempo stesso vasta e limitata, [l’anima] non sa più cosa pensare di se stessa: se non fosse grande, non si sarebbe mai posta tali questioni e, se non fosse piccola, risolverebbe almeno i problemi che si pone».

Il corpo («sintesi di quello che vive l’uomo, gettato nel cuore del mondo», dice Metzger, usando un termine molto significativo) è dunque per Gregorio il peso che ci trascina in basso e che ci inchioda, negativamente, alla realtà terrena, distogliendoci dal cielo. Da esso dobbiamo prendere le distanze; dal corpo e dal mondo dobbiamo per quanto possibile allontanarci per ritrovare, in un luogo riparato e in noi stessi, la via che ci riconduca a Dio. Non così per Bernardo, che alla considerazione della corporeità non ne fa seguire il disprezzo: la creatura non va disprezzata, poiché se ne disprezzerebbe implicitamente il Creatore.

Alla debolezza del corpo, alla nostra debolezza, Bernardo risponde guardando a Cristo e alla sua incarnazione: Cristo è entrato nel mondo, e in un corpo, ed è quindi nel mondo e nel corpo che può essere rintracciato. C’è qui un punto di grande interesse ai miei occhi. Nel trattato sui Gradi dell’umiltà e della superbia Bernardo ci invita a scoprire nella nostra miseria la chiave per comprendere e compatire quella altrui, seguendo l’esempio di Gesù «che ha voluto soffrire per sapere come compatire, diventare miserabile per imparare come avere misericordia». Ed ecco il passaggio cruciale: «Non che non lo sapesse prima, lui la cui misericordia è da tutta l’eternità: ma ciò che sapeva per natura da tutta l’eternità, lo ha imparato nel tempo per esperienza» («Quod natura sciebat ab eterno, temporali didicit experimento»). Nel tempo per esperienza! L’avere un corpo è dunque un’esperienza che mancava, da fare per una delle tre Persone (e quindi per tutte, no?). Un corpo mortale, va aggiunto, poiché cos’è il tempo se non la morte? «Conosceva per natura, ma non per esperienza», ripete Bernardo, che pare rendersi conto di aver sfiorato l’idea di una possibile non completa onniscienza di Dio, e si affretta ad aggiungere che, in sostanza, l’ha fatto per noi.

(1-segue)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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«Addirittura una faraona» (liste monastiche della spesa)

Stante la cronologia delle mie «ricerche monastiche» in rete, i siti che frequento mi propongono liste infinite di articoli «che mi potrebbero interessare», recenti, meno recenti, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e, è proprio il caso di dirlo, il naufragar m’è dolce in questo mare; anche perché gli articoli che si possono leggere sulle riviste specialistiche o sulle rassegne storiche spesso rappresentano delle potentissime lenti di ingrandimento che consentono di scorgere particolari solo apparentemente irrilevanti. Come nel caso della relazione che Antonella Ambrosio ha dedicato ad alcuni «registri di amministrazione» della fine del XV secolo del monastero domenicano dei SS. Pietro e Sebastiano, a Napoli1. Grazie a essi «siamo in grado di ricostruire con precisione alcuni dettagli relativi alla sfera del quotidiano e, più precisamente, cosa si consumava alla mensa del refettorio… In un libro di spese, giunto fino a noi vennero infatti annotati, quasi giorno per giorno, gli acquisti effettuati dalla comunità monastica, destinati in gran parte alla cucina e alla dispensa, per un periodo che va dal 1485 al 1496».

Le monache, che davano vita a una comunità «nel complesso aristocratica e colta», mangiavano bene e spendevano regolarmente soprattutto per carne, uova e pesce (tipici alimenti da ricchi); periodici gli acquisti di olio, zucchero e spezie (pepe, zafferano, noce moscata, cannella, zenzero), mentre forniture speciali sono registrate in occasione di ospiti di riguardo: specialmente di formaggi (caso cavallo e caso cecellese, casu mussu, caso de pecora, provole et recocte et casi cavalluczi), ma anche di «taralli, vermicelli, maccheroni, salsicce (per i famigli o per li lavuraturi dele massarie), miele, cedri, zucchero rosato, mandorle e nel 1493 addirittura una faraona». La verdura proveniva in larga misura dai possedimenti del monastero, ma veniva anche acquistata da venditori che si presentavano alla rota, cioè all’«interfaccia» della comunità col mondo esterno. Naturalmente nei lunghi periodi «di magro» la carne veniva comprata solo per le sorelle inferme e per i laici coinvolti nelle attività del monastero, e la circostanza veniva segnalata con precisione («Die XVII mensis augusti per pulii per li infirmi et hova per lo convento et carne per li mastri fabricaturi et dele maxarie»). Insieme alle spese per i cibi sono segnate anche quelle per gli utensili da cucina: «Forfici, piactelli, canistri, cistelli, una panara, due scafarie de rame per la cucina, tianelle, scutelle, curtelli per lo refectorio, cuchiare, un pisaturo ovvero pestello di mortaio».

I registri riportano poi spese periodiche per stoffe, indumenti, calzature, in particolare dei domenicani del convento di S. Domenico Maggiore, che sostenevano in varie attività la comunità femminile (stivali per frate Leone, un ochiaro per frate Simone, lo cappello de frate Natale, la cappa de fra Thomasi converso e una thonica de frate Iacobo) e per… la carta. Certo, perché l’esistenza stessa di questi volumi rimanda a quell’attività scrittoria che, specialmente in ambito domenicano, aveva portato nel XV secolo a «una vera e propria esplosione delle serie archivistiche». Le monache, e i frati che le assistono, sono spinte a tenere nota di tutto, una «registrazione onnicomprensiva» che serve al recupero e alla gestione del patrimonio fondiario, al controllo delle spese, all’inventario dei beni della casa, a testimoniare dell’osservanza delle regole (è previsto anche «un liber consiliorum in cui venivano annotate le deliberazioni della comunità e tutti i nomi delle monache deliberanti e, se esse erano in grado di scrivere, le loro sottoscrizioni»).

Il corpus di scritture, là dove è sopravvissuto, consente di rendersi conto della rete estesa di persone e circostanze che si stendeva dentro e intorno al monastero e con la quale le monache avevano regolari contatti, una «popolosa familia monastica, protagonista anch’essa della vita materiale del convento, composta di domestici che svolgevano le più svariate attività nella cucina e in altri luoghi del monastero e di conversi che si occupavano delle relazioni con il mondo esterno», e poi «tutto un universo» di ortolani, giardinieri, contadini che lavoravano le terre del monastero, operai che all’occorrenza ne riparavano i danni, commercianti che lo frequentavano, artigiani che ne affittavano gli immobili di proprietà… e l’initerrotto flusso di parenti e di ecclesiastici in visita.

Valuta nella quale sono registrate le spese? Ducati e tarì, e va detto che con un tarì qualcosa ci si poteva comprare: ad esempio duy cuchyare de maccaruni o un numero non precisato di citri da confectare.

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  1. Antonella Ambrosio, La vita quotidiana in un monastero femminile di Napoli alla fine del Quattrocento: la documentazione «a registro» dei SS. Pietro e Sebastiano, in «Rassegna Storica Salernitana» XXIII, 1 (giugno 2006).

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