«I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII», di Carla Russo (pt. 1/2)

Se è vero, come scrivevo qualche giorno fa, che la mia preferenza va alle testimonianze dirette, sono ugualmente attratto dalla storiografia monastica in tutte le sue forme, anche da quella più specialistica e ai confini con l’erudizione. Quell’insieme vastissimo di studi e ricerche, ora anche più facilmente acessibile, rappresenta per me molte cose: una promessa di apprendimento, l’illusione di una maggiore vicinanza alla «cosa» che mi interessa, l’evasione in un altro mondo, l’alimento della curiosità e anche un po’ di autocompiacimento; e poi quei titoli, a volte così precisi e vaghi allo stesso tempo, sono francamente irresistibili: Aspetti della presenza certosina e cistercense nel dominio visconteo-sforzesco, L’acqua nell’immaginario dei monaci tra tardoantico e alto medioevo, Spazi funerari nei monasteri: fonti scritte, evidenze archeologiche, problemi di metodo, Il tabularium del monastero cistercense di Chiaravalle milanese nelle pergamene per fondi dell’Archivio di Stato di Milano: a proposito di una formula di giuramento di un abate della metà del XIV secolo1, ecc.

Ultima lettura in ordine di tempo, in questo campo, è il paradigmatico I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, di Carla Russo2, dal quale ho appreso un sacco di cose. Il saggio si basa infatti in larga misura su un fondo d’archivio interessantissimo, gli Acta Visitationis Monasteriorun Sanctimonalium Neapolitanarum, cioè la documentazione delle visite compiute dall’allora arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino presso i 37 monasteri femminili della sua diocesi dal 1642 al 1666: verbali, testimonianze, inventari, lettere, raccomandazioni – una fotografia cartacea, capace di restituire anche il dettaglio più minuto.

1642: l’autorità ecclesiastica da un lato è ancora alle prese con l’attuazione della riforma tridentina e di quanto ha prescritto per i monasteri femminili; dall’altro deve intervenire contro abusi, malcostumi e rilassatezze: nel caso napoletano l’arcivescovo prende di petto la questione: «Nella mia visita li ritrovai [i monasteri] così pieni di mali usi che per ridurli alla miglior forma e stato, di cui al presente (col favore divino) si veggono m’è stata impresa molto difficile, laboriosa et per quello che v’ho passato altrettanto disgustosa». 37 monasteri: una popolazione di poco meno di 2.000 religiose tra monache, novizie e converse (le ultime circa il 22%; un rapporto, questo tra monache e converse, regolato con attenzione e specchio dei rapporti sociali trasferiti all’interno del chiostro); un patrimonio immobiliare notevole, e un altrettanto notevole patrimonio mobiliare, legato alla posizione sociale delle «coriste», cioè le monache di coro, figlie della nobiltà cittadina, tutte ampiamente «dotate» e non tutte forzatamente monacate; una precisa sfera di influenza; e una dimensione economica non irrilevante, soprattutto grazie a quello che oggi chiameremmo l’«indotto».

Il quadro economico non è uniforme, e ogni monastero ha le sue particolarità, ma nel complesso «le condizioni dei monasteri femminili di Napoli rimasero buone ed, anzi, in fase di espansione. Nessuno di essi venne a trovarsi privo non solo di quei mezzi di sostentamento necessari, ma anche di quelle disponibilità che potevano assicurare la ricchezza e lo sfarzo delle loro dimore, delle loro chiese e l’espandersi delle nuove costruzioni». In alcuni casi i beni immobiliari valgono più del 50% del patrimonio e delle entrate (Sant’Andrea), in altri sono i capitali a costituire l’ossatura del bilancio (per il 79,5% nel caso di San Giuseppe delle Eremitane), e va ricordato che le monache, attraverso intermediari, prestavano denaro a privati e acquistavano anche titoli di debito pubblico (gli «arrendamenti»), incorrendo quindi nelle «fluttuazioni», in perdite e altri incidenti3.

Sempre sul fronte delle entrate vanno ricordati i «censi» e i «vitalizi», cioè somme ulteriori rispetto alla dote versate dai parenti delle suore a fronte di vaghe e determinate «religiose necessità»; le rette pagate per le educande e le novizie; le vendite di quanto prodotto dai terreni di proprietà (principalmente vino); e, naturalmente, i proventi corrisposti «in natura»: grano, orzo, farina, vino, legna, sale, «fave, orgi, paglia et frasche per servitio del monastero». A San Francesco, ad esempio, si registrano «botte sei di vino, pezze sei di panno fratesco, et tomola sessanta di grano per carità» le quali, tuttavia, «da dieci anni in qua non si [potevano] haverle».

(1-segue)

______

  1. Si tratta di veri titoli di saggi pubblicati.
  2. Carla Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, Università di Napoli, Istituto di Storia medioevale e moderna, 1970.
  3. Nel monastero della Santa Croce di Lucca, ad esempio, «si avverte che tutte le entrate della Regia Corte sono quasi perse e l’intrate della Città si esigono diminuite, et quelle de’ particolari sono di difficile esattione dovendosi esigere molte centinaia di ducati».

 

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