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«I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII», di Carla Russo (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Se le entrate dei grandi e meno grandi monasteri femminili napoletani1 presentano aspetti inattesi, le uscite sono più prevedibili. Un buon 50%, in media, se ne va per il vitto: una voce di spesa assai ampia e di difficile definizione poiché spesso estesa agli acquisti di materie prime per la confezione delle «cose di zuccaro» e talvolta coperta anche da fondi personali delle monache. Ogni monastero vanta le sue specialità, che vengono usate sia come regali per ospiti e personalità di riguardo, sia come pagamento «in natura» per prestazioni e favori. I resoconti di viaggio riportano liste di questi «prodotti dolciari», nonché vagamente curativi, che rappresentano una festa per la nota ossessione dell’elenco: le «marasche sciloppate, le perette in barattoli, i mostacccioli, le lasagne e le frittelle chiamate zeppole», a Santa Chiara; i «biscotti di galera» a Santa Maria Egiziaca; le «fette di cotogno sciloppate cremisi», i «tagliolini più fini dei capelli», le «cucuzzate in barattoli», le «rotelle profumate», i «lupini di zucchero con ambra pe ’l catarro o distillazione» e al monastero della Maddalena «la pasta reale o marzapani, detti da loro mattoni…» Per San Martino si è conservato l’elenco degli abituali regali natalizi: ai «due Avvocati del nostro monastero, per ciascheduno d’essi» vanno ad esempio «barattoli 12, sosamelli 8, mostaccioli 20, cotognate pezzi 12», 30 mostaccioli al medico primo e 20 al medico secondo, 9 barattoli al procuratore fiscale, e così via fino ai chierici e a «tutti l’artisti che servono al nostro Monasterio i quali hanno l’istesso».

Chi lavora per le monache viene pagato anche in denaro, ovviamente: si tratta delle «provvisioni per il servitio di fuora» – talvolta dei veri stipendi annui, pari in media al 12,5%  del totale –, dai cui elenchi si ricava il profilo della «piccola corte che vediamo ruotare intorno a ogni Casa», l’«indotto» cui si accennava: uno o due medici fisici, un chirurgo e un sagnatore, due o tre o quattro compratori, l’uomo di fatica (il bastaso), il giardiniere, il molinaro, il ramaro; e poi avvocati, procuratori, esattori, scrivani e notai; e infine una schiera di religiosi per far fronte alle innumerevoli celebrazioni liturgiche, principalmente messe, quotidiane e periodiche.

Agli elenchi delle persone che agivano fuori dei monasteri corrispondono quelli della mansioni svolte dalle suore al loro interno. Funzioni e incarichi tipici e ricorrenti, come la portinara, la rotara, l’infermiera, la cellerara, e un po’ meno consueti, come la vestiaria, l’accompagnatrice, cioè colei che «doveva accompagnare, con il viso velato di nero, chiunque entrasse nella clausura», l’ascoltatrice, cioè colei che «aveva il compito di ascoltare le conversazioni delle monache in parlatorio», e infine l’esploratrice, cioè colei che «a discrezione della priora, aveva lo scopo di “esplorare l’eccessi che per casa si facessero et revelarli”» – la spia, in pratica.

Già, gli eccessi, le mancanze, le disobbedienze, le eccezioni, le scorrettezze, i malcostumi: tutte cose che riempiono i verbali delle visite. All’epoca di tali verbali, e prima che i fatti si trasformassero in dicerie e infine in luoghi comuni, gli interventi disciplinari dell’arcivescovo si indirizzano, ad esempio, alla cattiva abitudine di «far musica secolare» troppo di frequente, o di rappresentare commedie, anche se di carattere sacro, oppure di organizzare feste e «lautissimi desinari» in occasione delle solennità; alla pessima abitudine di «comprare» esenzioni dal servizio alla comunità; oppure alle infrazioni edilizio-logistiche: muri di cinta troppo bassi (e strani «fori» comunicanti con l’esterno), «belvedere che occhieggiavano sulla strada», troppe finestre, «angoli troppo isolati e oscuri» nelle chiese; e poi troppi «ornamenti» nelle celle delle monache (tappeti, stoffe, suppellettili preziose, biancheria, «una canna di cambraia, due tovaglie nove, sei salvietti novi, una lettera, uno scaldaletto, due fontanelle, il sicchietto per mettere il vino in fresco, la brascerina con paletta»). Una casistica infinita, qui solo accennata, che dimostra come, in molti anche se non in tutti i casi, le figlie della nobiltà cittadina mal si adattavano a rinunciare a certe prerogative derivanti dalla loro estrazione sociale e a certe abitudini maturate prima della vestizione. E spesso fu battaglia aperta, tra le monache e la gerarchia ecclesiastica, a colpi di interdetti e scomuniche e di ricorsi ad autorità superiori.

Il commento conclusivo su questo punto, complesso, di frequente riveduto alla luce di nuove sensibilità e molto dibattuto dalla storiografia, lo lascio qui all’autrice: «Le disposizioni tridentine avevano sì cercato di salvaguardare la libertà delle fanciulle nello scegliere o meno la vita monastica, ma, in effetti, non avevano risolto quel principale problema che consisteva nel fatto che la monacazione – indipendentemente da ogni trasporto religioso della monacanda – era intesa dalle famiglie ed, il più delle volte, dalle fanciulle stesse come la migliore soluzione sociale di molte vite femminili. Questo, che era uno degli ostacoli di base ad una vera riforma della vita monastica, era in stretta connessione con un altro elemento fortemente nocivo e certamente deformante della vita religiosa: la grande ricchezza dei monasteri».

(2-fine)

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  1. Carla Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, Università di Napoli, Istituto di Storia medioevale e moderna, 1970.

 

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«I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII», di Carla Russo (pt. 1/2)

Se è vero, come scrivevo qualche giorno fa, che la mia preferenza va alle testimonianze dirette, sono ugualmente attratto dalla storiografia monastica in tutte le sue forme, anche da quella più specialistica e ai confini con l’erudizione. Quell’insieme vastissimo di studi e ricerche, ora anche più facilmente acessibile, rappresenta per me molte cose: una promessa di apprendimento, l’illusione di una maggiore vicinanza alla «cosa» che mi interessa, l’evasione in un altro mondo, l’alimento della curiosità e anche un po’ di autocompiacimento; e poi quei titoli, a volte così precisi e vaghi allo stesso tempo, sono francamente irresistibili: Aspetti della presenza certosina e cistercense nel dominio visconteo-sforzesco, L’acqua nell’immaginario dei monaci tra tardoantico e alto medioevo, Spazi funerari nei monasteri: fonti scritte, evidenze archeologiche, problemi di metodo, Il tabularium del monastero cistercense di Chiaravalle milanese nelle pergamene per fondi dell’Archivio di Stato di Milano: a proposito di una formula di giuramento di un abate della metà del XIV secolo1, ecc.

Ultima lettura in ordine di tempo, in questo campo, è il paradigmatico I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, di Carla Russo2, dal quale ho appreso un sacco di cose. Il saggio si basa infatti in larga misura su un fondo d’archivio interessantissimo, gli Acta Visitationis Monasteriorun Sanctimonalium Neapolitanarum, cioè la documentazione delle visite compiute dall’allora arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino presso i 37 monasteri femminili della sua diocesi dal 1642 al 1666: verbali, testimonianze, inventari, lettere, raccomandazioni – una fotografia cartacea, capace di restituire anche il dettaglio più minuto.

1642: l’autorità ecclesiastica da un lato è ancora alle prese con l’attuazione della riforma tridentina e di quanto ha prescritto per i monasteri femminili; dall’altro deve intervenire contro abusi, malcostumi e rilassatezze: nel caso napoletano l’arcivescovo prende di petto la questione: «Nella mia visita li ritrovai [i monasteri] così pieni di mali usi che per ridurli alla miglior forma e stato, di cui al presente (col favore divino) si veggono m’è stata impresa molto difficile, laboriosa et per quello che v’ho passato altrettanto disgustosa». 37 monasteri: una popolazione di poco meno di 2.000 religiose tra monache, novizie e converse (le ultime circa il 22%; un rapporto, questo tra monache e converse, regolato con attenzione e specchio dei rapporti sociali trasferiti all’interno del chiostro); un patrimonio immobiliare notevole, e un altrettanto notevole patrimonio mobiliare, legato alla posizione sociale delle «coriste», cioè le monache di coro, figlie della nobiltà cittadina, tutte ampiamente «dotate» e non tutte forzatamente monacate; una precisa sfera di influenza; e una dimensione economica non irrilevante, soprattutto grazie a quello che oggi chiameremmo l’«indotto».

Il quadro economico non è uniforme, e ogni monastero ha le sue particolarità, ma nel complesso «le condizioni dei monasteri femminili di Napoli rimasero buone ed, anzi, in fase di espansione. Nessuno di essi venne a trovarsi privo non solo di quei mezzi di sostentamento necessari, ma anche di quelle disponibilità che potevano assicurare la ricchezza e lo sfarzo delle loro dimore, delle loro chiese e l’espandersi delle nuove costruzioni». In alcuni casi i beni immobiliari valgono più del 50% del patrimonio e delle entrate (Sant’Andrea), in altri sono i capitali a costituire l’ossatura del bilancio (per il 79,5% nel caso di San Giuseppe delle Eremitane), e va ricordato che le monache, attraverso intermediari, prestavano denaro a privati e acquistavano anche titoli di debito pubblico (gli «arrendamenti»), incorrendo quindi nelle «fluttuazioni», in perdite e altri incidenti3.

Sempre sul fronte delle entrate vanno ricordati i «censi» e i «vitalizi», cioè somme ulteriori rispetto alla dote versate dai parenti delle suore a fronte di vaghe e determinate «religiose necessità»; le rette pagate per le educande e le novizie; le vendite di quanto prodotto dai terreni di proprietà (principalmente vino); e, naturalmente, i proventi corrisposti «in natura»: grano, orzo, farina, vino, legna, sale, «fave, orgi, paglia et frasche per servitio del monastero». A San Francesco, ad esempio, si registrano «botte sei di vino, pezze sei di panno fratesco, et tomola sessanta di grano per carità» le quali, tuttavia, «da dieci anni in qua non si [potevano] haverle».

(1-segue)

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  1. Si tratta di veri titoli di saggi pubblicati.
  2. Carla Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, Università di Napoli, Istituto di Storia medioevale e moderna, 1970.
  3. Nel monastero della Santa Croce di Lucca, ad esempio, «si avverte che tutte le entrate della Regia Corte sono quasi perse e l’intrate della Città si esigono diminuite, et quelle de’ particolari sono di difficile esattione dovendosi esigere molte centinaia di ducati».

 

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