(la prima parte è qui)
Nelle pagine dedicate alle trasformazioni della liturgia, in particolare quelle linguistiche, Ghislain Lafont fa due affermazioni che mi suggeriscono una digressione. La prima è questa: «Normalmente in una comunità monastica tutte le parole dovrebbero essere d’amore, anche nel caso in cui si dicesse: “Potresti riparare il mio motorino?”; è un servizio che mi viene richiesto, lo svolgo normalmente, e nel mio profondo è un servizio a Gesù Cristo»1. La continuità tra i vari aspetti della vita quotidiana che questo esempio suggerisce e dimostra è per me una delle lezioni più preziose della forma di vita monastica. Un modello di comportamento arduo da seguire, che si scontra con le situazioni contingenti e con le nostre imperfezioni e stanchezze, che può essere agevolato da un ambiente protetto (o forse al contrario…) e che può essere assai difficile altrove; nondimeno resta un modello positivo che non perde il suo valore nemmeno se inseguito con le inevitabili intermittenze di quasi tutte le nostre imprese.
La seconda affermazione si trova poco oltre: «Se l’attuale liturgia è diventata talvolta così mediocre, piuttosto che piangere perché non è più in latino, piuttosto che chiedere che siano ripristinate le vecchie facciate – che permettono alle persone di conservare le proprie – la sola cosa che i fedeli devono fare è di impegnarsi in prima persona, se possono e come possono»2. Qui, come in ogni altra questione che viene via via affrontata le parole di p. Lafont mostrano il fenomeno che trovo sempre emozionante di una mente che ha raggiunto una limpidezza tale da permettere, attraverso di essa, l’osservazione delle cose, delle circostanze, senza distorsioni. Sia che p. Lafont parli dell’abbandono del latino nella liturgia o dell’abolizione della tonaca dei preti, si percepisce, è ovvio, il suo punto di vista, ma non c’è traccia di una sua personale versione della «cosa». Sono portato a credere, dalla lettura dei «documenti» più belli, che uno degli effetti della vita monastica, abbracciata con gioia, possa essere proprio questa chiarezza: lo sguardo del monaco o della monaca, grazie alla forma di vita in cui è immerso senza interruzioni, può raggiungere una trasparenza che garantisce la visibilità della «cosa» per come essa è. Con un’importante differenza rispetto alla trasparenza, per certi versi simile, che possono attingere gli artisti o i filosofi: la carità, o l’amore, a seconda di come la si voglia chiamare: un’osservazione misericordiosa del tutto priva sia di qualsiasi pur efficace forzatura espressiva, sia di certe vanaglorie pedagogiche, sia infine di eventuali sfumature deliberatamente taglienti – cose che possono essere di grande o grandissimo interesse, ma che credo aggiungano qualcosa alla cosa. Per il monaco, per tutti, resta come dicevo il punto di vista, non se ne può prescindere, ed è quello che il più delle volte non posso abbracciare, ma ammiro la qualità che può avere quello sguardo, e che ho trovato in sommo grado nelle parole di p. Lafont.
(2-segue)
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- Ghislain Lafont, Monaci e uomini, nella chiesa e nella società, traduzione di G. Cecchetto, Cittadella editrice 2016 (trad. di Des moines et des hommes, Stock 1975), p. 59. La frase prosegue così: «Perché la parole della preghiera, le stesse che pronuncio con il fratello che possiede il motorino, dovebbero essere proferite in un’altra lingua?»
- Pag. 61.