Devo a un saggio di Isabelle Cochelin l’aver appreso della probabile – più che probabile, secondo la professoressa dell’università di Toronto – esistenza di due distinte cucine nei monasteri europei altomedievali, per lo meno in quelli – aggiungerei – abitati da una comunità numerosa1. Come nel caso del «carcere», luogo monastico ancora poco esplorato e studiato, anche le cucine sono state un argomento sul quale gli studiosi, secondo Cochelin, si sono mossi con una certa superficialità, legata anche alla moderata importanza attribuita loro dai monaci stessi: «Nelle consuetudini monastiche la differenza di trattamento delle due cucine abbaziali, quella chiamata “regolare” e quella “laica”, offre un ottimo esempio della scarsa attenzione che gli estensori delle consuetudini medesime rivolgevano, o ritenevano di rivolgere, al mondo secolare che li circondava, anche a quegli aspetti tutt’altro che secondari per la vita quotidiana».
Eccole, dunque, le due cucine: la cucina «regolare» (coquina regularis), nella quale i monaci di coro svolgono il loro servizio a rotazione settimanale, come prevede anche Benedetto (cap. XXXV: De septimanariis coquinae), e l’altra cucina, il cui stesso nome nelle fonti è assai variabile: l’alia coquina, appunto, la cucina pubblica (coquina publica), laica, secolare, esterna, dei servi (coquina famulorum). Le tracce di questa seconda cucina vanno cercate, non tanto nelle regole, quanto nelle raccolte di consuetudini, che cominciano ad apparire verso la metà del IX secolo e vengono redatte in alcuni monasteri per esportare, a vario titolo, i propri usi verso altre comunità, oppure, come nel caso del famoso testo di Bernardo di Cluny, per istruire rapidamente i nuovi arrivati.
Questi testi, molto affascinanti per l’appassionato di regole, forniscono la base alla tesi di Cochelin e offrono piccoli ma indubitabili indizi. Nelle Consuetudines cluniacenses di Ulrico di Zell (metà XI sec.) si legge ad esempio: «È noto inoltre che in nessun caso nella cucina regolare si cuocerà altro che fave e verdure [aliud quid coquitur in coquina regularis praeter fabas et olera], né altro tipo di legumi. Le stesse fave, infatti, se sono novelle, e vengono quindi condite col pepe, non vengono cotte dai fratelli, ma dai servi nell’altra cucina [non coquuntur a fratribus, sed a famulis in alia coquina]».
La cucina regolare è un luogo di rilievo simbolico, poiché permette ai confratelli a turno di «servire», ma non può soddisfare completamente la richiesta di preparazioni alimentari che un grande monastero richiede: l’alto numero di monaci, la tavola dell’abate e dei suoi ospiti (talvolta con tempi ed esigenze particolari2), i lavoratori presenti presso l’abbazia, i pellegrini, i poveri, e così via. Ci vuole tempo, e personale, è un lavoro che richiede continuità, quindi ci vuole un’altra cucina.
Da un lato, infatti, è possibile ipotizzare che i monaci di coro volessero liberarsi da un incarico che era diventato assai gravoso, per via soprattutto delle quantità. Che qualcuno si lamentasse risulta con chiarezza, ad esempio da questo passo del Commentario di Ildemaro di Civate: «Ci sono molti che vorrebbero essere destinati ad altri incarichi che a quelli di cucina, perché sono molto faticosi [Nam sunt nonnulli, qui magis cupiant aliam obedientiam exercere, quam in coquina servire propter laborem]»3. Dall’altro si può anche pensare che un certo atteggiamento di sacralità nei confronti delle proprie attività, e dei relativi utensili, potesse spingere i monaci a delegare pratiche di cucina considerate impure, poiché prevedevano il contatto con determinati cibi, a un’«altra cucina», secolare.
Di questa altra cucina i testi monastici parlano poco, e indirettamente, anche per una forma di «clausura mentale» che, come detto, spingeva i monaci a non vedere, o a vedere confusamente, il mondo laico che li circondava. Ma che tale cucina fosse comunque collegata al refettorio, e rifornisse quindi anche la mensa dei monaci di coro, è confermato da altri testi, che parlano ad esempio di passaggi e finestre di collegamento, o della ricognizione serale del priore, nonché da ricerche cartografiche (molto interessante l’analisi condotta sulla planimentria conservata a San Gallo) e archeologiche.
Trovo infine molto gustoso che la studiosa non tralasci un’altra motivazione, più prosaica, per la diffusione di questa altra cucina (che, va ricordato, tendette a scomparire con l’avvento dell’istituto dei conversi): forse «i monaci non volevano mangiare male tutto l’anno, circostanza assai probabile se tutte le preparazioni fossero rimaste affidate alle loro mani inesperte e sempre diverse. Onde evitare tale rischio, avranno ritenuto più sensato assumere dei cuochi “professionisti” per la parte più sostanziosa del menù. Per contro, la cottura di fave e legumi sembrava alla portata anche di cucinieri poco esperti».
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- Deux cuisines pour les moines: coquinae dans les coutumiers du XIe siècle, in Enfermements II. Règles et dérèglements en milieu clos (IVe-XIXe siècle), sous la direction d’Isabelle Heullant-Donat, Julie Claustre, Élisabeth Lusset et Falk Bretschneider, Publications de la Sorbonne 2015, pp. 89-113 (che può essere letto qui).
- Si veda la Regola di Benedetto, LIII, 16-18: «La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall’arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero. Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve. A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n’è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l’obbedienza».
- Per il commento di Ildemaro alla Regola di Benedetto, si può consultare lo splendido sito a esso dedicato: The Hildemar Project).
Trovo curioso che non si faccia cenno a quello che a me pare il motivo principale per avere due cucine: il doppio regime alimentare nei monasteri. Secondo la regola di san Benedetto i monaci si astengono dalla carne per gran parte della vita (ad eccezione di anziani, bambini e infermi), inoltre la quaresima monastica (che dura da settembre a Pasqua) prevede un unico pasto e l’astensione anche da uova e formaggi (festività a parte). Ma i malati, gli ospiti del monastero, i collaboratori esterni come contadini e artigiani alle dipendenze del monastero non seguono gli stessi obblighi. Mi pare quindi plausibile che, per comodità, si sia ricorsi a due cucine: una per la comunità vera e propria, l’altra per le ulteriori esigenze. In alcuni monasteri e in alcune epoche, poi, il regime alimentare era ancora più penitenziale: si pensi alla vita di mortificazione anche sotto questo punto di vista che si conduce(va) nelle trappe. Gli ospiti vengono sempre nutriti con alimenti vari e ben cucinati. La motivazione che i monaci non sapessero cucinare mi pare invece debole: intanto non si vede perché in una vita non potessero imparare, poi di solito esiste un responsabile della cucina, che non turna e che si occupa delle ricette vere e proprie, mentre gli altri a turno lo aiutano nei lavori di routine.
Grazie per le osservazioni.
Credo si debba considerare il breve saggio come un episodio di una ricerca più ampia sulle “Consuetudini”; è la studiosa stessa, peraltro, a ricordare la particolarità delle sue fonti e anche la loro epoca, precedente alla diffusione di nuovi ordini più “rigorosi”. Nel saggio si fa riferimento anche alla nota “polemica” tra Cluny e Clairvaux, che toccava anche alcuni aspetti “gastronomici”, per trarne indicazioni sull’attività di questa “seconda cucina”, che secondo la studiosa serviva anche il refettorio dei monaci coristi.
Mi pare di aver capito inoltre che il fenomeno abbia avuto un inizio e una fine: di sicuro alcuni riforme successive hanno spinto nella direzione che hai delineato nel tuo commento.
Davvero “famulus” si traduce in “servo”? Per quanto ne so di storia medievale, mi pare una traduzione alquanto forzata…
Grazie per l’osservazione.
Mi sembrava una resa accettabile, ma naturalmente posso sbagliarmi.
Mi appoggiavo anche alla studiosa francese, che, commentando quel passo, scrive: «Les fèves étaient servies avec du poivre et donc apprêtées par les serviteurs laïques (famuli) dans l’”autre cuisine” (alia coquina)».
Lei cosa suggerirebbe?
Mi scusi, MrPotts, se le rispondo solo ora, ma non sono sempre collegato a internet.
Secondo la mia esperienza, è meglio lasciare il termine così com’è, “famulo” o al più “famiglio”. Mi rendo conto che in italiano è un termine in disuso e forse testimoniato in vecchi dizionari. Io lascerei fammelo o famiglio, poi se uno è curioso di capire va vedersi l’etimo del termine. È una mia opinione, nulla di più: “servo” ha una stratificazione semantica che a mio avviso toglie una specificità al termine “famulus”
fammelo = famulo