«Lo scrivere sulla Santa Regola è stato per me uno sfogo del cuore. Non solo perché la nostalgia del chiostro mi accompagna dovunque […]; ma più ancora perché non so darmi pace che un libro sul quale si sono formate tante generazioni di giganti della santità, oggi, fuori dei chiostri, non sia quasi più conosciuto, neppure dal Clero.»
Dopo aver assaggiato le riflessioni benedettine del cardinale Ildefonso Schuster, grazie alla piccola ma efficace antologia curata da Pelagio Visentin1, ho recuperato uno dei volumi che vi erano citati: l’edizione della Regula Monasteriorum del 19422. Non si tratta di un commento teologico o storico-filologico, per ammissione dell’autore stesso, bensì di una serie di «semplici note», in cui vibra un tono personale che le rende assai più preziose e interessanti. A mano a mano che procedevo nella lettura ho avuto come l’impressione di avere tra le mani un quaderno di appunti privati, nel quale il cardinale aveva riportato i capitoli della Regola, nell’originale latino, facendoli seguire da riflessioni, promemoria, indicazioni, ricordi, sottolineature, disquisizioni liturgiche, annotazioni linguistiche, chiose storiche e così via – una Regola tutta piena di Post-it ed evidenziatori.
Sono appunti in cui si coglie anzitutto, come si può immaginare, il monaco, ma anche il novizio, il sacerdote, l’abate, il vescovo, l’uomo di governo della Chiesa, la personalità della vita pubblica, l’osservatore obiettivo: tanti volti uniti da un atteggiamento che si dirà di antiquata compostezza (la «signorilità benedettina», la definisce in generale il cardinale), severo, talvolta triste, comunque preoccupato, e che si traduce in un formalismo stilistico che suscita soggezione: «Quando la fiamma della divina carità avrà consumato e distrutto in noi l’umore dell’egoismo, cioè della superbia vitae nelle sue diverse tumefazioni descritte tanto bene dal Santo Legislatore nella sua mistica scala dell’umiltà, allora il monaco giungerà a quella pienezza di Cristo… che deve regnare sovrana nell’anima»3.
La tristezza del cardinale, che immagino io, è del presente e si scioglie quando lo sguardo si volge indietro e la nostalgia prende con discrezione il sopravvento; anche perché nel monastero non c’è posto per la tristezza: Benedetto lo ricorda nel capitolo XXXI e lo Schuster così commenta: «Il presente capitolo, derivato in gran parte dalla precedente tradizione dei Padri, termina con una massima da incidersi a caratteri d’oro nel chiostro della abbazia: “Nella Casa di Dio nessuno deve starci con tristezza e con turbamento di spirito”». Non può dirlo, ma è evidente come lo Schuster tornerebbe di corsa in un monastero, e non perché esso sia un’anticamera del paradiso abitata da angeli, al contrario: sembra che, nel pensiero del cardinale, proprio lì l’essere umano possa essere veramente tale e guardare senza maschere il proprio volto, poiché soltanto nel chiostro tutte le debolezze emergono senza occultamenti, insieme con la loro fondamentale medicina, l’umiltà: il capitolo VII, sull’umiltà «sta a tutta la Regola come il Sermone della montagna sta all’intero Vangelo. Se non si può propriamente chiamare un riassunto della Regola, ne costituisce tuttavia il fondamento».
Ed ecco che con la nostalgia arriva anche la dolcezza lenitiva del ricordo: «Ricordo d’un abbate della Trappa…», «Quando io ero abbate di San Paolo…»: i ricordi di vita monastica sono i momenti nei quali la severità del cardinale si stempera, in particolare quelli legati al suo maestro, d. Placido Riccardi, il quale, parlando appunto di umiltà, vedeva la propria anima «a guisa di un sasso sospeso nel vuoto».
(1-segue)
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- Alfredo Ildefonso Schuster, o.s.b., Sapientia cordis. Il racconto della vita monastica, Abbazia San Benedetto Seregno 1996 (20033).
- San Benedetto Abb., La «Regula Monasteriorum», testo, introduzione, commento e note del card. A. Ildefonso Schuster, SEI 1942.
- D’altra parte osservazioni più tecniche appaiono oggi belle e remote come certe rovine abbaziali: «L’acclamazione sacra Alleluia vale musicalmente un intero periodo melodico. Si conoscono degli Alleluiari Orientali, dove il vocalizzo può protrarsi per un breve quarto d’ora. Anche nell’abbazia di San Gallo, questi Alleluia dovevano essere ben prolissi se, un giorno, alle note dello iubilus alleluiatico furono sottoposti gli stichi delle sequenze Notcheriane» (p. 107).