Giovanni «Catarella» Cassiano

«Mi regordu chi, essendu iu pichottu e standu in li parti di Thebaida, li monachi si congregaru a lu beatu Antoni, chi allhura illà si trovava, per investigari et insemi conferiri di la perfectioni.» In virtù di una ben nota quanto singolare circostanza è assai possibile che un comune lettore italiano del ventunesimo secolo non si trovi affatto disorientato davanti a un testo in volgare siciliano degli inizi del Cinquecento…

Si tratta di Lu raxunamentu di l’abbati Moises e di lu beatu Germanu supra la virtuti di la discretioni, volgarizzamento della seconda «conferenza» ai monaci di Giovanni Cassiano, redatto da un anonimo monaco del monastero di San Martino delle Scale, nei pressi di Monreale, tra il 1510 e il 1550. Ci è stato conservato in un unico esemplare manoscritto, che lo raccoglie non casualmente insieme alla Regula di Santu Benedittu Abbati, cioè alla Regola anch’essa volgarizzata, ed è un testo di estremo interesse filologico e linguistico, come dimostra l’edizione approntata da Ferdinando Raffaele, cui si rimanda per la precisione, la ricchezza di spunti e l’ampiezza di analisi1.

Lo studio molto approfondito che accompagna il testo documenta, tra l’altro, anche i casi di scostamento dall’originale. Uno, tratto dal capitolo 11, è assai curioso. In italiano moderno si legge: «Da ragazzetto [puerulus] – mi confidò un giorno Serapione –, mentre dimoravo presso l’abate Teona, avevo preso l’abitudine, senza dubbio dietro suggestione del nemico, di nascondermi ogni giorno sotto la veste, subito dopo aver consumato la refezione del giorno con il vecchio verso le tre del pomeriggio, una pagnottella di pane; alla sera poi, senza che lui se ne accorgesse, me la mangiavo di nascosto». Ecco invece la versione in siciliano: «Dissi l’abbati Serapiuni: ‘Essendu iu pichottu e standu insembla cum l’abbati Theuni, havia per diabolica tentationi quista consuetudini, chi di poi chi a mezu yornu havia mangiatu cum lu vechu, ogni yornu ocultamenti, quillu non lu sapendu, mi amuchava in pettu unu pani di pisu di unzi sei, e quillu mi mangiava la sira». È stato aggiunto il peso, della pagnottella, e non a caso, ma con riferimento a un passo delle Istituzioni cenobitiche2: l’aggiunta, commenta Raffaele, «risponde, in effetti, a un’evidente istanza di realismo, in quanto contribuisce per un verso a rimarcare la gravità morale del gesto di fronte ai naturali fruitori dell’opera, monaci sovente sottoposti a tentazioni analoghe, e per altro verso a sottolineare, attraverso la specificazione di una quantità ben determinata, l’esigenza di un atteggiamento equilibrato nel soddisfacimento dei bisogni alimentari». (Noto anche che si passa dalle 258 battute del testo latino, alle 321 di quello siciliano, alle 402 della resa italiana.)

Il «traduttore» nel complesso dimostra sicura padronanza della lingua e una certa vivacità di espressione, posta perlopiù al servizio di tre esigenze: la necessità di compendiare, quella di semplificare e quella di spiegare, in considerazione della specifica comunità per la quale veniva steso il testo (è interessante notare che nel momento in cui viene redatto la popolazione del monastero è composta il larga misura anche da monaci non siciliani). Va detto che, forse anche per via di quella circostanza cui si accennava, la resa in siciliano giova al testo di Cassiano. Non posso dire di averlo letto per intero, ma scorrendolo mi sono imbattuto in diversi passi che mi paiono brillare, appunto, di uno spiccato realismo. Chissà, probabilmente è soltanto il frutto del pregiudizio verso ciò che oggi suona alle mie orecchie, inevitabilmente, dialetto (mentre dialetto non era). E tuttavia alla fine di una seria spiegazione basta un termine per ritrovarsi per strada: «Appari, adunca, chi lu dunu di la discretioni non è terrenu, nè di pocu momentu, ma divinu, la quali si lu monacu cum ogni attentioni non l’acquistirà, e si cum certa raxuni non possedirà la discretioni di li spiriti, zoè lu dixernimentu e vera cognitioni di li boni e mali cogitationi chi li supraveninu, necessariu li è, comu cui erra per oscura notti e tenebri, non sulamenti cadiri in fossi e dirrupi, ma ancora truppicari frequentimenti per chani e dritti camini.»

Già, truppicari.

______

  1. Lu raxunamentu di l’abbati Moises e di lu beatu Germanu supra la virtuti di la discretioni, a cura di F. Raffaele, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 2009 (lo si può leggere qui).
  2. «Qualcuno non avverte la sazietà neppure nella misura di due libbre, qualche altro invece si sente soddisfatto anche con una sola libbra e con sei once di cibo», Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, V, 5, 2.

 

1 Commento

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Una risposta a “Giovanni «Catarella» Cassiano

  1. Paola

    Deliziosi… 🙂

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