Ho dunque letto il meritorio lavoro di Mauro Mazzucotelli dedicato alla Cultura scientifica e tecnica del monachesimo in Italia1, in particolar modo di quello benedettino. Una cultura che per un bel tratto ha seguito lo sviluppo delle scienze in ambito laico, prima di crollare «bruscamente e per sempre» all’epoca delle leggi di soppressione delle congregazioni e degli ordini religiosi. Crollata per ragioni estrinseche, e quindi migrata altrove, senza tonaca: non mi è sembrato, infatti, scorrendo questa lunga galleria di nomi di cogliere una specificità monastica di avvicinamento alle scienze, il metodo essendo quello, indipendentemente dal saio o dal camice. Con ogni probabilità anche in virtù di una precisa scelta dell’autore, la stragrande maggioranza dei nomi che affollano le sue pagine corrispondono a individui che ritenevano importante e necessario osservare, cercare, registrare, catalogare, eventualmente sperimentare, e tramandare le conoscenze acquisite, al pari di pregare e cantare le lodi del Creatore: due «percorsi», se così li vogliamo chiamare, che in concreto nei monasteri non si ostacolavano a vicenda, anzi. «Il contrasto tra la scelta della vita dedicata a Dio e la passione per lo studio della scienza risulta superabile, come appare analizzando singole vicende e biografie della maggior parte dei monaci, in una stabile coerenza personale tra l’ascesi e lo studio, tra l’osservanza della Regola di San Benedetto e quella delle leggi che regolano il cammino della ricerca e della speculazione scientifica.» A suggello di questo contrasto superato, o forse mai nemmeno sentito, Mazzucotelli riporta una bella frase dell’abate napoletano Antonio Genovesi (tra l’altro, il primo titolare della prima cattedra di economia dell’università italiana), che così rispondeva al classico «giovane che voleva intraprendere la carriera ecclesiastica»: «Ella vuole essere un teologo: ma non il sarà mai senza un poco di aritmetica, di geometria e di fisica; poiché quelle le formeranno l’arte di ragionare e questa le farà conoscere il primo libro di Dio ch’è il mondo».
E non pare esserci neanche una specificità di interessi, a parte forse per quelle discipline più legate ad alcuni aspetti tradizionali del «sapere» monastico, come la botanica, con ricadute su medicina e farmacologia, e le scienze della natura «coltivata» e vissuta: idraulica, silvicoltura, agraria, meteorologia. «Il mondo vegetale arboreo, erbaceo o floricolo ha sempre avuto un legame abituale con la congregazione di Vallombrosa», ad esempio (e Giovanni Gualberto, il fondatore di Vallombrosa, è il patrono delle guardie forestali italiane), oppure la consuetudine di studi naturalistici dei camaldolesi. L’indice dei nomi raccoglie monaci scienziati per ogni branca, e sia di attitudine sperimentale e di ricerca, sia erudita: «È davvero impressionante – ad esempio – l’ampiezza del sapere di alcuni monaci del XVII secolo, come il fogliante Camillo Stella o il camaldolese Clemente Mattei o il cassinese Gerolamo Ruscelli», capaci di spaziare dalla matematica, all’astronomia, alle scienze del calendario, alla cartografia e alla meteorologia.
Il mio grande rammarico, non nuovo, è che tra non molto non ricorderò nulla di questa schiera, magari giusto con qualche eccezione. Mi accontento di sapere che questo fenomeno è esistito e ha avuto una dimensione non trascurabile; lo deposito sullo scaffale mentale che ospita quelle cose che a un paio di metri di distanza sono un’etichetta che riporta il loro nome, e poi, a mano a mano che ci si avvicina, si allargano e si inabissano tendendo a infinito; e sono grato all’autore del libro, cui potrò in caso tornare periodicamente – libro che, nelle intenzioni, va considerato come propedeutico a «un Dizionario bio-bibliografico dei monaci italiani che si sono occupati di scienza e hanno lasciato tracce scritte di questa loro cultura. È un lavoro che mi sta impegnando da tempo con, è il caso di dirlo, pazienza certosina e che spero possa vedere la luce in un futuro non troppo lontano».
(1-segue)
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- 2 voll., Abbazia San Benedetto, Seregno, 1999.