Da un momento all’altro («Abitare il silenzio», di Francesca Sbardella, pt. 3/3)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

«Sono stanca. Non ne posso più, non le capisco. Sono stanca di stare ore e ore in ginocchio in quel coro, di mangiare di corsa e in silenzio, di non poter dire quello che voglio quando voglio, di camminare senza fare rumore (tanto non ci riesco), di non potermi specchiare1. Sono delle folli. O sono delle folli loro o lo sono io.» Dietro lo sfogo tratto dal suo «diario di campo» e riportato con onestà dall’antropologa Francesca Sbardella, potremmo forse allinearci in tanti, tra i non credenti che guardano ai monasteri. E anche le parole che seguono danno voce a un sentimento che non è sconosciuto: «Sembra davvero che da un momento all’altro arrivi dio in persona a cena stasera. Forse stasera lo conosco! In questo sono brave, una finzione perfetta. Sembra talmente vera che non posso non crederci».

AbitareIlSilenzioForse mi è gia capitato di dire che il mio punto di vista al riguardo è assestato su una formula che volge in positivo quest’ultima frase: credo a chi dice di credere, non ho motivo di pensare che sia una finzione. Peraltro è la studiosa stessa a ricordare che si è trattato solo di uno sfogo2 (anche del corpo, con una certa probabilità), tant’è vero che chiede alle suore di pronunciarsi su questo aspetto. Tra le altre, suor Anne è lapidaria e definitiva: «Se la presenza di Dio non è reale, la nostra vita è stupida», e all’obiezione che si tratta in ogni caso di una «presenza» astratta, ribadisce: «Non è visibile, ma è reale. Certo è una questione di fede. Per noi è reale, se no non ha senso restare qui. Tutti questi gesti hanno un significato perché viviamo con qualcuno, viviamo con Dio». Ed è esattamente una affermazione del genere che mi spinge a credere a suor Anne.

È interessante l’approfondimento che Sbardella compie in questa direzione sul tema delle immagini. Nel «tentativo – a tratti disperato – di reificare il dialogo mistico», le monache si circondano di immagini devozionali che forniscono quel «supporto visibile» che può essere d’aiuto soprattutto nei momenti di stanchezza e vulnerabilità: l’immagine aiuta perché permette un contatto fisico – anche semplicemente tenendo in tasca un santino. «L’immagine diviene un tramite concreto… per poter vedere ciò in cui [le monache] credono.»

Tuttavia anche le immagini sono mute (quelle corredate di voce, le immagini televisive ad esempio, non sono ammesse e non contano), e non potrebbe essere diversamente nello scrigno di silenzio del monastero. Un silenzio che non è soltanto la condizione primaria per essere pronte ad accogliere il Signore, svuotandosi da se stesse, ma che sembra addirittura il linguaggio grazie al quale una comunicazione con Lui diventa possibile. Se Dio è «materialmente» assente, creiamo un luogo che sia la casa dell’assenza; se Dio non parla («la divinità non risponde, non parla, non dice nulla effettivamente a parole», e talvolta le suore ne soffrono), o meglio, se Dio ci parla col silenzio, allora gli parleremo nello stesso modo, con la stessa lingua. Al di là della Scrittura e delle preghiere, che non danno adito a un vero dialogo, Dio e uomo si parlano col silenzio.

«Si parlerebbero», mi viene da correggere. E quando suor Christine afferma che «in ogni caso, Dio non ci parla attraverso le parole. Le parole sono qualcosa che appartiene all’umano», sarei tentato di sospettare del paradosso. Ma anche in questo caso non vedo perché dovrei mettere in dubbio a priori quanto mi dice una persona che pensa e che parla, anche se si tratta di una monaca carmelitana.

(3-fine)

______

  1. Dice suor Anne: «È normale che non ci siano specchi: non siamo qui per guardarci, ma per guardare il Signore», Francesca Sbardella, Abitare il silenzio. Un’antropologa in clausura, fotografie di Franco Zecchin, Viella 2015, p. 97.
  2. «Si tratta sì di una finzione [il sacro] ma, come tutti i prodotti di reificazione, ha una propria consistenza e realtà… Meglio non cadere quindi nell’errore di sottovalutare, o ancor peggio, di non considerare affatto ciò in cui gli altri credono o che dicono di vedere e di percepire», pp. 88-9.

 

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