In un saggio del 1979 di Jean Leclercq sulle strategie retoriche messe in atto da Bernardo di Chiaravalle per aiutare i suoi confratelli a sublimare l’aggressività, a un certo punto ho letto: «I monaci medievali non erano psicologicamente diversi dai loro contemporanei, e provenivano da ambienti sociali dove la violenza era all’ordine del giorno e in cui si dava libero sfogo agli impulsi aggressivi in una quantità di scontri e combattimenti. Un buon numero di testi convalida la verità di questo giudizio: ad esempio i registri della sacrestia dell’abbazia benedettina di Fleury dal decimo al dodicesimo secolo, le delibere dei capitoli generali dell’Ordine cisterciense, la Vita di s. Stefano Obazine». Sulle delibere dei capitoli generali dei cisterciensi una nota rimanda a uno studio francese, di qualche anno prima, dal titolo molto curioso: Violenze, risse e omicidi nei cisterciensi. L’ho cercato, l’ho trovato facilmente e l’ho letto.
L’autore, A. Dimier, ha spulciato gli otto volumi degli Statuta capitolorum generalium ordinis cisterciensis, registrando tutti i riferimenti a fatti violenti interni alle comunità e dando conto di tre principali categorie: a) le violenze perpetrate ai danni di abati (la stragrande maggioranza dei casi); b) le dispute, le risse, i crimini commessi tra membri di una comunità; c) i gesti di rivolta di monache. L’arco temporale coperto va dal 1176, anno in cui si dà notizia dell’omicidio dell’abate di Clairvaux, Gerardo, da parte del monaco Ugo di Bazoches (che ha aspettato l’abate, al termine dell’ufficio delle Lodi, nascosto ai piedi della scala che porta al dormitorio e l’ha pugnalato), a una nota del 1738, in cui si danno ulteriori disposizioni per la costruzioni di prigioni nei monasteri dell’Ordine.
Non avevo mai letto, tra l’altro, di questa cosa delle prigioni che nei monasteri cisterciensi «si trovano generalmente sotto la scala che dal chiostro conduce al dormitorio dei monaci», e delle quali si possono ancora vedere alcuni resti, ad esempio nelle abbazie provenzali di Thoronet, Senanque e Silvacane.
La carrellata è interessante anche se non del tutto sorprendente. L’abate che cerca di ristabilire la disciplina e correggere gli errori a volte rischia grosso: può essere picchiato, pugnalato o avvelenato; in un caso viene aggredito insieme al suo priore mentre sta pregando nel coro; in un altro caso ancora è vittima addirittura di un’imboscata prima che arrivi presso la comunità che deve rimettere in riga. La pena in questi casi è sempre l’incarcerazione perpetua, a pane e acqua, e talvolta con i ferri a mani e piedi.
Un caso curioso è quello dell’abate di Fontfroide, Pierre Ferrer, che intorno al 1450 viene accusato di «gestione» scandalosa e quindi espulso dall’Ordine. Dopo un periodo di vagabondaggio, Ferrer «riprende possesso della sua abbazia con un intervento armato», e fatto oggetto di un mandato di arresto dal siniscalco di Carcassonne, «gli risponde barricandosi con un gruppo di armati nel monastero, e tenendolo fino alla morte». «In seguito a questi gravi disordini», commenta Dimier, «l’abbazia di Fontfroide non si risolleverà più.»
Singolare il caso del monaco Jean André, dell’abbazia di Stolpe, in Pomerania, che nel 1466 confessa spontaneamente l’assassinio di una prostituta «che si era introdotta di notte nel monastero», compiuto per «evitare lo scandalo». O ancora quello dei monaci di un abbazia norvegese, che una notte prendono a forza il priore, il sacrestano e il maestro del coro, li caricano su una barca e li abbandonano su un’isola deserta, e che, tornati indietro, aggrediscono l’abate e i suoi ospiti, li spogliano e li cacciano: «Il capitolo generale del 1243 li dichiara scomunicati e passibili della pena prevista per i cospiratori».
«Si deve sottolineare il fatto», conclude l’autore, «che in un periodo di sette secoli di storia dell’ordine di Cîteaux, che contava più di settecento monasteri maschili, e ancor più femminili – si parla cioè di migliaia e migliaia di religiosi – i circa sessanta casi di monaci o monache colpevoli di violenze o omicidi non sono che un’infima minoranza rispetto alla larghissima maggioranza di coloro che seppero restare fedeli alla loro vocazione.» Che poi è quello che osserva anche Leclercq: «La cosa stupefacente è che i monaci, che provenivano da una società così violenta, non soltanto erano meno violenti della maggioranza della gente, ma anche, in qualche modo, riuscirono a riconciliare e ad assicurare un po’ di pace alla loro epoca».
A. Dimier, Violences, rixes et homicides chez les Cisterciens, in «Revue des Sciences Religieuses» 46 (1972), 1, pp. 38-57; che si può leggere qui.