La maggior parte delle traduzioni, arrivata a LXIV, 9 della Regola, là dove Benedetto comincia a illustrare le qualità del buon abate, dice più o meno: «Bisogna dunque che egli sia dotto nella legge divina, affinché sappia e abbia donde trarre il nuovo e il vecchio»; Oportet ergo eum esse doctum lege divina, ut sciat et sit unde proferat nova et vetera.
È una reminiscenza diretta di Matteo, 13, 52, che suggella il lungo resoconto sulle parabole del Regno di Gesù, il quale così conclude: «”Avete capito tutto questo?”. Rispondono “Sì”. Egli disse loro: “Per questo ogni scriba istruito [doctus] nel Regno dei cieli è simile a un padre di famiglia [homini patrifamilias, cioè un abba] che trae fuori dal suo scrigno cose nuove ed antiche [qui profert de thesauro suo nova et vetera]”».
Già è interessante notare che in altre traduzioni del Vangelo quel doctus diventa, ad esempio, «divenuto discepolo»; mentre in alcune versioni della Regola lo stesso doctum diventa «profondo conoscitore».
Ancor più interessante mi pare la sfumatura che Maria Ignazia Angelini, madre benedettina e badessa di Viboldone, introduce in uno dei suoi commenti alla Regola, raccolti nel volume – superdenso – Niente è senza voce. Ragionando proprio sul capitolo LXIV, m. Angelini osserva: «Quando Benedetto dice che l’abate deve essere “docile” (“doctum” deriva, come participio passivo, da doceri) alle Scritture, “ut sciat et sit unde proferat nova et vetera”, “perché sappia e abbia donde attingere cose antiche e nuove”, gli consegna un compito immane. Solo come discepolo delle Scritture, l’abate può “sapere ed essere” (il riferimento è a Mt 13, 52) l’oikodespotés, il “padrone di casa”».
Bello: doctus inteso non come dotto, che ha in sé, oggi, una staticità polverosa e immutabile, bensì come docile. E, giusto per il piacere di voltolarsi nelle parole, non il «docile» più comune, «di persona che si piega facilmente alla volontà di chi ha il compito di guidarla» (Treccani), ma quello dell’altroieri, cioè «disposto ad apprendere quel ch’altri insegna, e approfittarne. Aureo latino, ch’è contratto di Docibilis. Concerne la mente segnatamente; ma perchè la docilità esercita l’attenzione, non può la volontà non ci avere gran parte: onde nel docile è non solo disposizione naturale, ma merito» (Tommaseo).
Maria Ignazia Angelini, Niente è senza voce. La vita monastica oggi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007, pp.67-68.
Quella della traduzione è una gran questione. Non solo nel corso del tempo il linguaggio del momento può attribuire sensi ben diversi alle parole, ma anche riportarle all’origine dell’etimo, per quanto utile, a volte non è sufficiente per interderle veramente – dato che i tempi e la mentalità degli uomini nella storia cambia, come anche sono diversi gli ambienti culturali in uno stesso periodo storico. C’è una coppia significato-significante in uscita e spesso una diversa coppia significato-significante in entrata…
Tutto vero.
Ricordo soltanto che non mi avvicino mai a questi testi da “specialista”. Cerco di vedere piuttosto, per quanto al di fuori della Rivelazione, quali possono essere gli echi di testi così stratificati.
In effetti c’è da pensarci, anche in ambito “laico”: essere “dotto” vuol dire anche essere “docile”, “malleabile”, disponibile anche a cambiare il proprio modo di vedere una questione in base a ciò che si apprende.
Disponibile a cambiare idea mi pare proprio un punto cruciale, al di là di Benedetto.