Oggi ci divertiamo con una novella del notaio bolognese Giovanni Sabbadino degli Arienti, la 46ª delle sue Porretane, date alle stampe nel 1483. L’altro giorno, scorrendo un indice bibliografico, ne ho letto il titolo-argomento, e non ho potuto resistere: «L’abbate de Sancto Proculo, mangiando cum li soi monaci lasagne, se scotta la boca: dove l’uno de l’altro se trova ingannato».
Nel 1388 l’abate dell’abbazia di san Procolo a Bologna, «officiata da’ devotissimi religiosi negri de san Benedecto», in seguito a una terribile pestilenza si ritrova solo con due monaci, Domizio e Martino. «Or avvenne che, avendoli fatto uno venerdì, giorno di passione, il cuoco loro uno buono catino de lasagne cum buono caso gratusato a disenare», l’abate non riesce a trattenersi, tanto è invitante il profumino, e ne prende subito un boccone. Si scotta, ovviamente, e si trattiene dal rigettarlo per non dare cattivo esempio agli altri. Solo che nello sforzo, gli viene da piangere, «la qual cosa vedendo don Domizio e credendo che l’abbate se fusse dato qualche ambascia», gli getta in faccia «megio bichiero de vino bianco dolce» e gli chiede: «Oimè, patre mio, che aveti voi? Che doglia ve tormenta ora, che cusì piagneti?»
L’abate, colto in contropiede, butta giù le lasagne roventi e, con gli occhi che gli bruciano per il vino, risponde che gli sono venuti in mente i confratelli morti: «Figliuol mio, el m’è venuto or ora una tenerezza de cuore, che giamai non ebbi la magiore, essendome ramentato che, mangiando altre volte lasagne qui, le mense de questo refettorio erano tutte piene de’ nostri fratelli, che testé non siamo se non tre». Domizio lo invita alla pazienza e si serve delle lasagne. Anche lui si scotta e mentre anche a lui scappa la lacrimuccia, capisce perché piangeva l’abate (ah, ecco perché…), che «avidutosene, li disse: “Perché piangeti vui, don Domizio?” A cui esso rispose: “Patre mio, piango io ancora de quello aveti pianto vui”», oh, ma per chi m’hai preso?.
È la volta di Martino, che, «posto lui ancora il cochiaro nel catino, ne prese una bona menata», e si scotta, e piange e si mette a soffiare, «il che vedendo l’abbate, cum suo gran piacere disse: “Che v’è intravenuto, don Martino, che sì soffiati?” E lui gettando presto fuori el boccone, respose: “Io piango che Dio se ha tolto i buoni e lassato li cativi, poiché l’uno de l’altro siamo traditori”». E dà una manata nel piatto, facendo schizzare il sugo in faccia all’abate. Il momento è teso, ma poi Domizio, «essendo giovene e de piacevole natura» scoppia a ridere, e l’abate, sapendosi in cuor suo colpevole per primo, si limita a un rimprovero: «Don Martino, a’ religiosi non conviene scandeligiarse; la nostra professione rechede pazienzia, e l’abito umiltà: e voi avete questa sancta virtù preterito, dove sieti degno de grave penitenzia. Ma voglio più sia la mia clemenzia che ‘l vostro peccato, il quale ve perdono: ma per l’avenire guardativene».
Detto questo, chiama il cuoco, «che era tedesco», e gli ordina altre lasagne. Cavoli, commenta il cuoco, vi siete già spazzati la prima portata? «”Che ve venga el cacasangue!”, prima blastema che imparano li alamanni quando in Italia vengono». I tre monaci allora si mettono a ridere e «dimenticandose la scotatura e l’occorso scandolo, insieme cum li compagni cum piacere mangiarono il secundo catino de lasagne».
(Ho letto, e citato, il testo da Novelle del Quattrocento, a cura di G.G. Ferrero e M.L. Doglio, UTET 1981, pp. 263-66; ma la si può agevolmente trovare, ad esempio qui e qui: merita!)
E ci fosse stato un terzo catino di lasagne, son sicuro che si sarebbero mangiati anche quello
Eheh, non è da escludere…