Questo monastero non è un albergo!

Abbazia cistercense di Thoronet (foto Potts)

Abbazia cistercense di Thoronet (foto Potts)

Sono state rese pubbliche le «Riflessioni conclusive» che l’abate generale dell’Ordine Cistercense, Mauro Giuseppe Lepori, ha pronunciato al termine della sua Relazione sullo stato dell’Ordine al XVIII Sinodo, tenutosi a Roma ai primi di luglio. Sono riflessioni molto personali, in cui spesso ricorre la prima persona singolare, e per questo assai interessanti, e attraversate da una grande preoccupazione, appena dissimulata.

Preoccupazione profonda, che va oltre la questione della sopravvivenza delle comunità: «Tante nostre comunità, umanamente considerando, possono fare lo stesso discorso [della vedova di Sarepta, 1 Re 17, 7-16]: abbiamo quel che basta per vivere ancora qualche anno, o comunque per morire in pace, poi sarà finita». L’abate generale si augura che la discussione che sta per aprirsi vada la di là del tema pratico della precarietà, che pure va affrontato, e auspica uno slancio che si racchiude in una domanda molto sincera: «Come siamo chiamati ad esprimere la nostra fiducia che anche nelle condizioni odierne del mondo, della Chiesa, delle nostre comunità, Dio ha un disegno buono, un disegno di vita, per noi e per il mondo?» Insomma, ancora una volta, che senso abbiamo noi monaci oggi? Che ne deve essere di noi?

Con la cautela, e la mitezza, di un abate generale, Mauro Lepori due risposte le tenta: autorità come accompagnamento e comunità come cantiere costante di comunione. Per quanto riguarda il primo aspetto l’abate denuncia il senso di impotenza e solitudine che talvolta avverte («l’abate generale cistercense è un po’ il presidente d’Italia. Ha pochi poteri, e quindi poca “corte”, ma siccome le altre strutture di governo sono spesso in crisi, deve comunque occuparsi di tante realtà difficili, praticamente da solo») e le difficoltà legate all’organizzazione dell’Ordine («la struttura del nostro Ordine non aiuta sempre ad affrontare i problemi con trasparenza»). È importante che i superiori e le superiore si parlino e si aiutino tra loro: accompagnino e siano accompagnati nella loro funzione, che è l’unica che, nella pratica quotidiana di discernimento e decisione, può «tenere insieme» le comunità, mantenerle vive e in cammino, sollecitandone i membri a essere anzitutto fratelli e sorelle. (A questo riguardo, tra l’altro, compare nel discorso dell’abate l’unico, criptico accenno a tensioni intramonastiche: «Poi ci sono falsi pastori o pastore, mercenari o mercenarie, che riescono a fuggire con tutto il gregge, come abbiamo visto purtroppo nel nostro Ordine, col sostegno di altri pastori-mercenari…»)

Dal modo in cui l’abate parla di comunità, seconda traccia della sua risposta, si evince come essa sia da dare tutt’altro che per scontata. È lui stesso a dirlo con inusuale franchezza: «In molte comunità non trovo comunità. Trovo un gruppo, trovo squadra, a volte esercito, ma più spesso ospiti di albergo. È un po’ come gli alberghi che servono un’impresa particolare, per esempio una fabbrica, un aeroporto, un grosso cantiere, e in cui quindi tutti gli ospiti sono più o meno dello stesso mestiere, ma in albergo ci stanno solo per lavorare altrove». No, qualunque sia l’attività cui si è chiamati, la prima ragione della comunità è la comunità stessa, la vita insieme sotto una Regola e una guida. Vita di lavoro, preghiera, meditazione, ascolto, confronto, sostegno, dialogo, silenzio, veglia e ricreazione – tutto insieme, in un «lavoro di formazione continua».

Questa è la ragione e al tempo stesso il messaggio della comunità, in una dimensione mistica, ovviamente, poiché la comunità è «inserita» nel Corpo di Cristo e ha bisogno di questo centro più ancora che dei soldi per pagare le riparazioni e le bollette, «perché senza questo centro vedo che le persone si perdono, perdono la strada, non sono felici, vivono come pagani».

 

1 Commento

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Una risposta a “Questo monastero non è un albergo!

  1. eugeniomariafalconeeditore

    L’ha ribloggato su eugeniomariafalconeeditoree ha commentato:
    Come amo chi parla e dice cose vere e sensate.

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