«Alla presenza di testimoni»: la Regola di Isidoro di Siviglia

Sempre belle e interessanti le regole pre- e post-benedettine precedenti alla definitiva affermazione del capolavoro di san Benedetto. Sono spesso compilazioni di precetti derivati da altre regole, non hanno ancora quel grado di astrazione tipico delle legislazioni più strutturate e il più delle volte mantengono l’evidenza delle situazioni che le ispirano. Sono sì piene di ripetizioni, e talvolta confuse, ma restituiscono nella maniera più chiara il processo di messa a punto di un codice ampiamente applicabile. Mi piacciono perché i monaci che si muovono dietro di esse li vedi balzare dalla pagina come se fossero appena usciti dalla loro cella.

Un bell’esempio è la Regola dei monaci di Isidoro di Siviglia, autore ben altrimenti noto delle Etimologie, redatta probabilmente tra il 615 e il 619 e composta da venticinque, agili capitoli. Non sono in grado di fare regologia comparata (credo che potrebbe essere la mia occupazione ideale), ma alcune cose interessanti desidero annotarle. A partire dal Capitolo I che, fatto non comunissimo, è dedicato al monastero: «L’edificio monastico avrà soltanto una porta ed un’unica uscita per la quale si vada nell’orto», orto che deve essere incluso nel complesso «perché i monaci, lavorando dentro, non abbiano alcun motivo per andar vagando fuori».

Interessante, poi, la motivazione dell’impegno scritto che deve prendere il novizio, che esplicita in maniera diretta il riferimento «militare» della professione: «Come infatti quelli che sono promossi alla milizia secolare, non passano nella legione, se non sono prima iscritti nelle liste, così, anche quelli che si devono distinguere nella milizia celeste, nell’accampamento spirituale, non possono far parte del numero e della società dei servi di Cristo se prima non s’impegnano con la professione orale o scritta». Dopodiché, come nell’esercito, vale solo l’anzianità di servizio – «chi in monastero entra per primo sarà il primo in ogni grado e ordine» –, ogni altra distinzione è abolita.

Bello il Capitolo XIX che, dopo aver ribadito la messa al bando nel monastero della proprietà privata, sfocia nell’elogio del cenobitismo e nella sua giustificazione. Bisogna diffidare dei reclusi e degli eremiti, «molti reclusi, infatti, vogliono nascondersi per mettersi in evidenza» e «tutti quelli che si allontanano dalle folle per riposare, quanto più fuggono gli altri, tanto meno si nascondono». Gli altri, appunto, sono importanti: se siamo viziosi, gli altri ci aiuteranno a curarci; se siamo virtuosi, potremo agli altri essere d’esempio. In ogni caso, «occorre dunque dimorare in una santa comunità e trascorrere la propria vita alla presenza di testimoni». Testimoni umani, e non divini, mi viene da aggiungere, e devo ammettere che trovo questo concetto molto utile come antidoto a certi miei vaneggiamenti asociali.

Più ancora, tuttavia, mi è piaciuto il Capitolo XVII, dedicato alle colpe, tradizionalmente divise in leggere e gravi. L’elenco di quelle leggere è un affresco di umanità, interrotto soltanto dall’esigenza di essere concisi. Siamo tutti lì: chi giunge tardi all’ufficio, chi ama il sonno, chi rompe per caso qualcosa, chi si apparta per un momento, chi riceve una lettera di nascosto, chi non riesce a trattenere una risposta sgarbata, chi ride, chi fa una battuta volgare, chi parla troppo e – primo fra tutti – «chi si diletta a stare in ozio».

Tre giorni di scomunica e passa tutto.

Isidoro di Siviglia, Regola dei monaci, in Regole monastiche della Spagna visigota, introduzione e note di J. Campos Ruiz, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2014.

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