La clausura è uno degli aspetti del monachesimo meno accessibili dalla mia posizione, nondimeno ne osservo sempre con interesse vivo e massima cautela le tracce – documenti, scritti, testimonianze –, evitando la frusta curiosità dei laici che chiedono: «Com’è possibile?» e cercando di non spostarla dal suo contesto proprio. Ho letto, ad esempio, la Verbi Sponsa, cioè l’«Istruzione sulla vita contemplativa e la clausura delle monache» della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (1999), e ho preso qualche appunto.
1. Il fondamento evangelico della clausura è Gesù che si ritira a pregare «sul monte», «o, comunque, in luogo solitario, non accessibile a tutti, ma soltanto a quelli che egli chiama a sé, in disparte» (VS, 3). Ora, non posso non osservare (è una semplice osservazione non una ricerca di contraddizione) che Gesù, tuttavia, dal monte, dopo la preghiera, discendeva, tornava nel mondo. Se prendiamo alcuni dei passi citati dal documento della Congregazione, possiamo leggere infatti: «E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro…» (Mt 17,9); «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante…» (Lc 6,17). Le claustrali no, «rimangono sempre “con Lui sul monte santo”», tanto che Giovanni Paolo II, che a loro spesso si è rivolto con particolare attenzione, precisa che «nella vostra vita di preghiera si prolunga la lode di Cristo al suo eterno Padre» («Alle claustrali di Nairobi, maggio 1980). Ecco, si prolunga, a tempo indeterminato.
2. «La clausura, anche nel suo aspetto concreto, costituisce… una maniera particolare di stare con il Signore, di condividere “l’annientamento di Cristo, mediante una povertà radicale, che si esprime nella rinuncia non solo alle cose, ma anche allo spazio, ai contatti, a tanti beni del creato”» (VS, 3). Qui, il riferimento alla povertà radicale mi rimanda inevitabilmente a Chiara d’Assisi e al dibattito piuttosto acceso che ho scoperto essere in corso sulla riconducibilità o no della clausura al suo carisma originario. Alcuni studiosi, infatti, si interrogano se la clausura per Chiara sia stata un ripiego, o meglio un compromesso necessario tra l’adesione totale al messaggio di Francesco, nel mondo, e l’esigenza primariamente istituzionale di spostare fuori dal mondo certe forme di religiosità femminile. Va detto che proprio altre studiose clarisse respingono questa linea di pensiero e rileggono le fonti ricordando la particolare posizione del luogo di reclusione della comunità clariana, cioè nella città, e trovandosi in linea con le parole del documento vaticano: «L'”altissima povertà” è ancora più radicale perché associata alla reclusione in un piccolo luogo che rendeva le sorelle totalmente dipendenti dal proprio lavoro e dalla provvidenza del Padre celeste: la reclusione clariana è espressione estrema del “non volere altro sotto il cielo”» (s. Chiara Agnese Acquadro, osc). Su questo punto, altre letture in corso.
3. Di grande interesse, poi, come in molte altre «cose monastiche», è il passaggio dal significato teologico di un determinato atteggiamento, di una certa «forma», alla sua attuazione pratica, e il testo della Congregazione ne rappresenta il paradigma. La sua seconda parte, «La clausura delle monache», merita un discorso a parte; mi limito a riportare questo snodo, molto significativo: «Di conseguenza [data la sua specificità] anche la disciplina della clausura, nel suo aspetto pratico, dev’essere tale da permettere la realizzazione di questo sublime ideale contemplativo, che implica la totalità della dedizione, l’interezza dell’attenzione, l’unità dei sentimenti e la coerenza dei comportamenti» (VS, 5). È di fronte a una quaterna del genere, molto più che davanti alla reclusione, che magari mi scappa un «com’è possibile?»
(L’Istruzione Verbi Sponsa si può leggere qui.)