Ogni giorno se ne impara una nuova. Monaci e medicina, bene. Anzi, monache e medicina, in un contesto preciso: la Bologna tra la metà del ‘500 e il ‘700 – che comunque può essere considerata una realtà rappresentativa. Tra l’altro, una circostanza che vede protagoniste le donne in un ambito strettamente e gelosamente custodito dai maschi. Due gli aspetti della questione: la farmacia e la cosiddetta «medicina sacra».
Sul primo fronte, la comune nozione associata alla cura del «giardino dei semplici», tipcamente monastica, va allargata alla consuetudine della vendita dei preparati al pubblico. Le speziale e le aromatarie confezionano i loro medicinali non soltanto per le consorelle, ma anche, su ricetta, per i concittadini, che ben li conoscono e li usano. La speziala del monastero del Corpus Domini elenca, nei primi anni del ‘700, i suoi rimedi: «Prima Amaro composto con le sue medicine, cerotti per Amacature, e consolidare le Ossa come sono ordinati, Unguento rosato, unguento per amacature, Decotti sulitivi come sono ordinati dalli Sigg. Medici… Ruotole per li rafredori… Distillato di Capone e Acqua desillata, Vino di Mella Granata, e di Visola, e altri rimedi di varia posta come sono hordinati dalli Sigg. Medici». E una sua consorella, settant’anni dopo, continua a venderli con profitto: «Dalla cassa della nostra spezieria, oltre li medicinali che si mantengono per uso delle Monache, si ricava ogni anno per avanzi circa £500».
Cosa che manda in bestia la potentissima Arte degli Speziali, che denuncia la concorrenza, ne mette in dubbio la liceità e si appella al Protomedicato nel 1697, nel 1699 e nel 1713. Poiché le monache continuano imperterrite, gli speziali vanno a Roma, sollecitano i cardinali, fanno lobbying, al punto che Innocenzo XIII proibisce la pratica «se non per uso interno del monastero». Le monache riducono l’attività, si limitano ai «secreti», ma non mollano.
E così ci si mettono i confessori, che si domandano nei loro manuali se l’aromataria «possa somministrare farmaci a un malato “de se et inconsulto medico”; la risposta è sì, ma solo nel caso che abbia “medicamenti particolari per morbi specifici”». Guai a irritare i medici e i farmacisti maschi, e a toccarli sul soldo. E allora i confessori si interrogano ancora «se l’aromataria pecchi vendendo medicinali al prezzo ufficiale (o tassa) stabilito dall’arte degli speziali». E la risposta è no, ma in realtà sì, perché se il prezzo ufficiale veniva stabilito dall’Arte, «la tassa degli speziali è calcolata sulla base di costi di produzione (botteghe, lavoranti, ecc.) che le monache non hanno». Quindi le sante donne devono abbassare i prezzi: «In altre parole, solo peccando le monache potevano esigere, nello smercio di medicinali comuni, lo stesso prezzo delle botteghe degli speziali».
Ma se non peccano, come ci si auspica, diventano più concorrenziali…
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(Gianna Pomata, Medicina delle monache. Pratiche terapeutiche nei monasteri femminili di Bologna in età moderna, in I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata e G. Zarri, Edizioni di Storia e Letteratura 2005.)
G. Pomata 🙂