Il «sicurisimo salvo del niente»

Da qualche tempo sto provando ad approfondire l’argomento del quietismo. Per ora non ho fatto altro che accumulare un po’ di bibliografia, osservando crescere la mia fascinazione per un movimento spirituale probabilmente oggetto ormai soltanto di storiografia. Personaggi e vicende non proprio all’ordine del giorno d’oggi, ma che all’epoca, il Seicento, esplosero con tale forza da scatenare la determinazione assoluta della Sacra Inquisizione, che allestì una serie di inchieste e processi sempre più accaniti e protrattisi ben oltre la morte di quei personaggi e la fine di quelle vicende.

Mi colpisce la figura di Miguel de Molinos, l’autore di uno dei testi fondamentali del movimento, la Guida spirituale, che libera l’anima e la conduce nel cammino interiore per acquistare la perfetta contemplazione e il ricco tesoro della pace interiore (1675), che nel 1687 «per sottrarsi alla tortura ed avere almeno salva la vita, si risolse a confessare non solo i suoi errori dottrinali, ma perfino l’immoralità della sua condotta» (G. Perrotti), e che morirà dopo nove anni di carcere.

Mi colpiscono le indagini minuzione nei monasteri, soprattutto femminili, per scovare lettere, documenti e testimonianze che dimostrassero la diffusione del morbo, da estirpare alla radice: «La maggior parte delle religiose inquisite o chiamate a testimoniare nel corso dei processi per quietismo consegnò, più o meno spontaneamente, un cospicuo numero di lettere e biglietti di istruzione spirituale… Tutti quegli scritti vennero requisiti “a fine che non si diffonda maggiormente il contagio”» (A. Malena). E mi colpisce il fastidio che si confessano a vicenda le monache: «Adesso c’è per confessore straordinario un gesuito che proprio ti costringe a risponderli e dire i fatti tuoi alle interrogationi che ti fa, nondimeno ne cava poco da tutte, per quel che intendo» (lettera della domenicana Maria Geltrude Buoninsegni, 1680).

Mi colpisce il concetto di «quiete» che dà il nome al movimento e che mi pare piuttosto una spettacolare manifestazione di nichilismo, per quanto ancorato alla fede – ma è proprio la debolezza, o quanto meno la particolarità, di quell’ancora che insospettisce gli inquisitori e poi li spinge ad agire senza esitazioni. Un’attrazione per l’annichilimento soprattutto di sé che passa con agilità dagli scritti più elaborati alle lettere delle monache meno avvezze alla scrittura, sollecitate dai direttori spirituali a scrivere scrivere scrivere. Così la terziaria francescana Francesca Toccafondi, morta in odore di santità nel 1685, ad alcune consorelle: «Prima usavo di gridare e di strilare ma ora cercho di iscapare e mi burlo del tuto, però sorele carisime io vi in vito quando sete tentate eprovate dalamore cioè tentate con sentimenti e provate con tormenti a fugire i questo sicurisimo salvo del niente» (riportata da A. Malena).

Mi colpisce la contiguità con il misticismo della stessa epoca, anch’esso scrutato con attenzione dagli inquisitori: «Le visioni spesse volte sono state a molti più tosto di danno, che di giovamento… In alcuni altri poi sogliono a loro le visioni essere messaggio, overo argumenti di prossima pazzia; perciochè essendo ruinato, o indebolito, il cervello, et essendo da fumi oscurato, si confonde la vista de gli occhi, in modo che veramente appaia loro alcuna cosa; la quale però è fantasia, e falsa» (dalle Lettere spirituali di Bartolomeo da Salutio, 1629).

Insomma, mi colpiscono un sacco di cose, e per ora, come dicevo, accumulo senza alcun ordine frammenti disparati, attirato da quel termine che suona incongruo applicato a una materia tanto veemente. Come scrive Massimo Petrocchi, «l’inquietudine da vincere e la quietudine da trovare era un più generale problema del secolo».

 

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