È su libri come Io sarò l’amore. Le nuove vie della clausura che misuro la mia distanza da una realtà umana cui pure dedico parecchia attenzione (per quanto esclusivamente libresca). Il nuovo libro di Espedita Fisher si compone di una serie di testimonianze anonime di monache di clausura, aperta e chiusa da alcune considerazioni personali dell’autrice, non nuova a questo genere di indagine. Ci sono anche un saggio di Anna Maria Cànopi, badessa del monastero dell’Isola di San Giulio, e un inserto fotografico di ritratti, di cui mi sfugge l’intenzione.
Per me è come se fosse scritto in un’altra lingua, non ci arrivo. Si potrebbe chiedere perché mi ostini a leggere libri come questo, e la risposta che mi do è che sono attratto dai risultati che derivano da premesse che non condivido o che non capisco. Risultati pratici, intendo, condotta di vita; e risultati buoni, aggiungo, poiché quello che conta, credo, è la pratica che discende da una teoria o, come in questo caso, da un sentimento di fede. Non considero le opere di bene, che sono di molto al di là della mia portata, mi limito, ad esempio, all’armonia di una comunità, al suo fiorire, all’amore reciproco.
Non capisco molte cose: lo scarto verso «qualcosa oltre», l’opposizione che ritorna tra il disordine di un mondo dimentico di Dio e il «vero amore» – come se non ci fossero alternative –, la sottolineatura delle domande sull’origine, sul senso, sul fine. D’altra parte non pretendo nemmeno di capire, soprattutto quando le testimonianze affrontano il mistero della vocazione. Leggo e basta.
«Non c’è persona che presto o tardi nel corso della vita non si trovi davanti a questi interrogativi. La semplice ragione non basta a rispondere, il mistero della vita la trascende», scrive la badessa, e io mi sento di dire che forse non occorre rispondere. Vorrei dire che rispondere o non rispondere, ignorare la domanda o non formularla, non cambia, nella pratica, la sostanza di ciò che ci è toccato e le soluzioni che ci richiede. Obietto a me stesso: e allora, tutti gli individui che nel corso del tempo hanno vissuto l’inquietudine del senso, si sono interrogati, hanno creduto? Tutti scemi? Certo che no! Ma ammetto di non saper aggiungere altro, se non, forse, che il tempo passa anche per il genere umano e che la trascendenza si ritira, come i ghiacciai, e che non provo disagio per un «mondo lasciato a se stesso». È un’altra lingua, dicevo, né io pretendo che la mia sia quella corrente, o tanto meno quella giusta. Ci si può anche ascoltare senza capire tutto, e rispettarsi, e magari prendere un caffè insieme, che per quello non occorrono parole.
Poi capita di essere chiamati in causa esplicitamente da un’altra monaca, una clarissa, che dice: «Credenti e non credenti, ugualmente, hanno nel loro cuore la frontiera tra fede e incredulità […]. Il credente ha bisogno dell’ateo per purificare la sua fede e l’ateo richiede il credente per purificare il proprio ateismo» (Maria Manuela Cavrini). Quando ho letto questa frase ho sorriso. Vi ho scorto un’onesta ammissione di debolezza, che apprezzo. Mi colpisce questa evocazione dell’ateo da parte del credente, mi colpisce perché io non mi considero il nero del bianco rappresentato dal credente. È soltanto in base alla convenzione linguistica corrente che posso definirmi «non credente», in realtà credo a un sacco di cose, e di persone, in base ad altri criteri.
Scrive ancora la clarissa: «Perché sono così come sono? Perché capita proprio a me? Perché non ho altre qualità, altre doti? Non siamo venuti all’esistenza per sbaglio e non siamo numeri di una massa amorfa». Quelle domande non me le sono mai poste. Le eventuali risposte non modificherebbero di una virgola i termini di ciò che devo scegliere di fare quando avrò finito questo temino.
(Espedita Fisher, Io sarò l’amore. Le nuove vie della clausura, Castelvecchi 2013; Maria Manuela Cavrini, In viaggio con Dio. 100 briciole di fede per il cuore, Cantagalli 2012.)