«E tanto basti» (Le lettere di Virginia Galilei, pt. 2)

(la prima parte è qui)

«Avrei caro», scrive suor Maria Celeste nel 1627, forse in aprile, «che V.S. mi somministrassi qualche quattrino per provvedere ai miei bisogni che sono tanti.» Virginia Galilei non si fa scrupolo di chiedere, con chiarezza, aiuto al padre, il quale è sempre sollecito e non lesina – forse anche per un certo qual senso di colpa nei confronti della figlia, sembra suggerire il curatore. Virginia chiede oggetti vari: stoffe, un panno da stomaco, un coltrone (che la cella può essere freddissima), un nuovo breviario per sé e uno per la sorella («poiché quelli che avemmo quando ci facemmo monache sono tutti stracciati», e «non ci curiamo che siano dorati, ma basterebbe che vi fossino tutti i Santi di nuovo aggiunti, e avessino buona stampa, perché ci serviranno nella vecchiaia, se ci arriveremo»); e chiede direttamente denaro, come nell’interessantissima lettera dell’8 luglio 1629, dalla quale ho imparato che esisteva in convento una specie di regolare compravendita delle celle («conforme all’uso che abbiamo noi altre»).

Virginia ha preferito lasciare alla sorella Livia (suor Arcangela) tutta per sé la cella che condividevano («per essere suor Arcangela di qualità molto diversa dalla mia e piuttosto stravagante, mi torna meglio il cedergli in molte cose», per non contrariarla, insomma), e adesso passa la notte «con la travagliosa compagnia della maestra». Ci sarebbe una cella disponibile, ma viene 35 scudi e lei ne ha soltanto 10, al massimo 15. Galileo manda subito. A novembre, un po’ vergognosa, Virginia lo informa che la cosa non è andata a buon fine: ora però ci sarebbe un’altra cella, di una monaca ammalata, e la badessa, benché valga 120 scudi, «si contenta  di darmela per 80», e se si contano i 30 della dotazione iniziale…

Virginia, peraltro, sa bene a chi sta scrivendo. Nel novembre del 1623, sei mesi dopo la sua pubblicazione, chiede al padre una copia del Saggiatore: «E di più la prego di farmi grazia di mandarmi il suo libro, che si è stampato adesso, tanto che io lo legga, avendo io gran desiderio di vederlo». Qualche anno dopo, ricordandogli il valore cristiano delle «tribolazioni», lo invita a riconoscere le vanità terrene, allo stesso modo in cui «con vista di Lincèo ha penetrati i cieli»; e ancora lo prega di non trascurare la salute per gli studi, «che se il povero corpo serve come istrumento proporzionato allo spirito nell’intender e investigare novità [una scelta di termini davvero tagliata su misura del destinatario] con sua gran fatica, è ben dovere che se li conceda necessaria quiete, altrimenti…»

Ed è proprio nella circostanza del processo romano che i toni si fanno ancora più toccanti. In un primo tempo, pare, Galileo tiene nascosti gli sviluppi della sua situazione, tanto che Virginia si limita ad augurargli ogni bene per il suo «negozio» e ancora nella lettera del 7 maggio 1633, poco meno di un mese dopo il primo interrogatorio, gli riferisce la contentezza sua e di tutto il convento nell’apprendere dei «prosperi successi di V.S.». È una lettera, quest’ultima, che, voglio credere, abbia colpito a fondo Galileo. Virginia infatti, dopo aver raccontato del giubilo generale, dice di aver patito un violento mal di testa, «veramente fuori del mio solito», e aggiunge che non lo dice per fargliene una colpa, bensì perché egli «possa conoscere quanto mi siano a cuore e mi premino le cose sue, poiché causano in me tali effetti; effetti che [attenzione alla grazia di movimenti], sebbene, generalmente parlando, pare che l’amor filiale possa e deva causare in tutti i figli, in me, ardirò di dire, che abbiano maggior forza, come quella [non è finita] che mi dò vanto di avanzare di gran lunga la maggior parte degli altri nell’amare e riverire il mio carissimo Padre, siccome all’incontro chiaramente veggo che egli supera la maggior parte de’ padri in amar me sua figliuola; e tanto basti.»

(2-continua)

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