«Molto illustre e Amatissimo Sig. Padre» (Le lettere di Virginia Galilei, pt. 1)

Mi hanno proprio commosso le lettere della clarissa suor Maria Celeste a suo padre, cioè di Virginia a Galileo Galilei. «Nata di fornicatione» nel 1600 dalla relazione more uxorio dello scienziato con Marina Gamba, Virginia venne sistemata nel 1616 nel convento di San Matteo ad Arcetri (l’anno successivo vi entrerà anche la sorella Livia), dove digerirà la monacazione forzata, cedendo in breve alla «logica del quieto abbandono alla vita claustrale». L’epistolario sopravvissuto comincia nel 1623 e si conclude nel 1633, pochi mesi prima della morte della clarissa e nove anni prima di quella di Galileo, che nel frattempo era stato confinato dal Santo Uffizio proprio ad Arcetri, nella villa «Il Gioiello», dirimpetto al convento.

Dieci anni di lettere durante i quali il rapporto si fa sempre più caloroso e intimo, come una lenta manovra di affettuoso avvicinamento. L’indirizzo cui Virginia spedisce le sue lettere è sempre lo stesso: «Al Molto Illustre Signor Padre mio Osservandissimo, il sig. Galileo Galilei»; l’intestazione oscilla tra «Molto illustre Sig. Padre» e «Molto illustre e Amatissimo Sig. Padre», mentre la firma è quasi invariabilmente «sua figliuola Affezionatissima». Curiosamente la strada percorsa da Virginia, in questo avvicinamento a un padre già molto famoso e tormentato da gravi problemi di salute, è quella dei dolciumi e delle «cose mangiative». Le prime lettere, ma la consuetudine durerà fino alla fine e sarà anzi reciproca, sono piene di «qualche pesciuolo marinato», di «quattro susine» (che «non sono di quella perfezione che avrei voluto»), di «pochi calicioni» (paste con zucchero e mandorle), di «una pera cotta» («ho imparato questa nuova foggia di cuocerle che forse più le piacerà»), di «morselletti» (canditi di cedro), di girelli, mostacciuoli e marzapanetti, di «12 fette di pasta reale» («a ciò se le goda per mio amore») e di fiori di «ramerino» (rosmarino), anch’essi canditi e «che tanto soglion gustarli». Un simbolo palese e insistito di un affetto che non fa che crescere: «Oh se almeno io fossi abile ad esprimerle il mio concetto!» si lamenta Virginia. «Sarei sicura ch’Ella non dubiterebbe ch’io non l’amassi tanto teneramente quanto mai altra figlia abbia amato il Padre». Ma le parole mancano e Virginia scivola in una formula a dir poco acrobatica: «Non so significarglielo con altre parole, se non con dire ch’io l’amo più di me stessa: poiché, dopo Dio, l’esser lo riconosco da lei… sì che mi conosco anco obligata e prontissima, quando bisognassi, ad espor la mia vita a qualsivoglia travaglio per lei, eccettuatone l’offesa di sua Divina Maestà».

La salute del padre è una preoccupazione costante, sempre riaccesa anche dalle oggettive circostanze dell’epoca: mi faccia sapere come sta, rimandi il viaggio che c’è la peste, non si strapazzi nell’orto, non esca che fa troppo freddo, la prego, mi faccia sapere se i dolori sono passati… E, come tutte le persone che amano, Virginia darebbe una gamba perché i mali di lui toccassero a lei, tanto da riconoscere che «io non m’avveggo mai d’esser monaca, se non quando sento che V.S. è ammalata, poiché allora vorrei poterla venir a visitare e governare con tutta quella diligenza che mi fosse possibile».

(1-continua)

Cito da Virginia Galilei, Lettere al padre, a cura di B. Basile, Salerno Editrice 2002; ma le lettere si possono leggere anche online sul sito della Bibliotheca Augustana.

3 commenti

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3 risposte a “«Molto illustre e Amatissimo Sig. Padre» (Le lettere di Virginia Galilei, pt. 1)

  1. Donna di gran cuore, Virginia. Non so in quante avrebbero perdonato al proprio padre una cosa del genere.

    • MrPotts

      Il quale padre, mi pare, non esitava a esaudire le richieste di aiuto di Virginia, come se fosse consapevole del debito che aveva contratto nei confronti di lei. E lei sembra sapere che lui sa… (ma è un attimo per me fare illazioni moderne che con la storia non c’entrano alcunché).

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