«Con nostro grande dispiacere» (Silvia Evangelisti, «Storia delle monache», pt. 1)

Ho letto la Storia delle monache di Silvia Evangelisti, un «tipico» saggio di quelli che pubblica il Mulino, che ha il merito di affrontare un periodo piuttosto lungo (1450-1700) e di essere basato, oltre che su ricerche personali (l’autrice è docente di Storia moderna all’University of East Anglia di Norwich), su una bibliografia quasi esclusivamente di area anglosassone (per motivi comprensibili, non si tratta di un’esperienza frequente per un lettore italiano). Ne ho ricavato troppe informazioni (troppe perché le dimenticherò) e molti spunti interessanti che so già rappresenteranno punti di partenza per altre letture.

Non essendo uno studioso, sono meno attratto da visioni di insieme e da questioni che pure sono rilevanti, come la composizione sociale dei conventi femminili, dal fatto ad esempio che la «società» conventuale rispecchiasse la struttura di quella «esterna». La divisione in «classi», monache coriste – o velate – e monache converse – o servigiali –, fu sempre netta ed ebbe vita lunga, tanto che fu abolita formalmente soltanto dal Vaticano II («È da notare che le converse non appartenevano semplicemente al gruppo di monache peggio trattato ma erano deliberatamente mantenute in una posizione di subordinazione attraverso un sistema che impediva loro, tra le altre cose, di imparare a leggere e a scrivere»). D’altra parte la monacazione rappresentava per le donne, non soltanto per quelle appartenenti alle classi agiate, una concreta alternativa al «normale» destino del matrimonio, sia perché socialmente accettabile (anche per categorie specifiche come le vedove), sia per ragioni economiche. Si stima infatti che la «dote conventuale» fosse inferiore a quella matrimoniale da un terzo a un decimo.

Un tema centrale di questo periodo fu la clausura, intorno alla quale venne condotta una silenziosa battaglia, che è stata oggetto di numerosi approfondimenti da parte dei cosiddetti «studi di genere» e di cui l’autrice dà conto. Decretata da Bonifacio VIII con la costituzione Periculoso del 1298 («Abbiamo stabilito con la presente costituzione, che in perpetuo senza possibilità di modifica sanciamo di tenere per valida, che tutte e le singole monache, presenti e future, di qualsiasi congregazione e ordine, in qualsiasi parte del mondo risiedano, sotto perpetua clausura debbano permanere nei loro monasteri»), è con il Concilio di Trento (che nel «Decreto sui religiosi e sulle monache» del dicembre 1563 si rifa direttamente a Bonifacio: «Il santo sinodo, rinnovando la costituzione di Bonifacio VIII Periculoso, sotto minaccia del divino giudizio e dell’eterna maledizione, comanda a tutti i vescovi di fare assolutamente in modo che in tutti i monasteri la clausura delle monache, se fosse stata violata, sia diligentemente ripristinata; se invece fosse ancora intatta, venga conservata») che la clausura diventa la «prima obbligazione» per le monache, con una manovra «infallibilmente discriminatoria nei confronti delle religiose, non esistendo alcuna legislazione analoga per i religiosi».

Silenziosa fino a un certo punto, bisogna dire. A proposito della resistenza alla clausura, Evangelisti cita un caso interessante tratto dalle cronache del convento domenicano di Santa Caterina da Siena a Firenze. Nel 1575 un delegato apostolico fece visita al convento per verificare il rispetto delle disposizioni conciliari, che avevano prodotto anche una serie di questioni architettoniche riguardanti porte, grate e parlatorio (un luogo fondamentale). Riportano le cronache: «Et poi venne [il delegato] dentro dalla porta del parlatorio et guardando le grate disse si facesse doppie… et così la finestra non gli piacque et passammo via». Seccato, l’inviato del papa chiese conto di altre cose, al che «la priora se gli volse amorevolmente et disse: monsignor Reverendissimo noi non siamo in clausura ma habbiamo la nostra Regola et costitutione confirmate da papa Paulo 3 le quale non ci obbligono a clausura; non l’habbiamo et non la vuogliamo. Allora detto Reverendo veschovo venne in tale furia che si rivolse alla priora et gli disse che era superba arrogante altiera et gli darebbe il castigo che meritava.»

Le monache volevano mantenere la dimensione di reclusione «aperta» per continuare a dedicarsi alle opere pie al di fuori del convento, in linea con la loro vocazione, ma la battaglia, ça va sans dire, era persa. Pochi mesi dopo la visita, papa Gregorio XIII revocava le dispense e ribadiva la clausura stretta: «Addì 29 [agosto 1575] detto ci fu fatto un comandamento dal Reverendo padre priore di San Marco… da parte del vicario di Firenze che si dovessi rimurare l’uscio di chiesa infra 5 giorni altrimenti ci manderebbe una scomunica; et così si murò detto dì… et noi fummo le prime [a essere obbligate alla clausura] con nostro grande dispiacere».

(1-continua)

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