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«Come fanno gl’uomini» (Silvia Evangelisti, «Storia delle monache», pt. 2)

(la prima parte è qui)

«Nessuna istituzione in Europa ha mai concesso alle donne quelle possibilità di valorizzazione di cui esse hanno goduto in convento.» Da queste parole del 1910 della studiosa americana Emily James Putnam prende le mosse Evangelisti per aprire i capitoli dedicati ai conventi come centri di attività intellettuali e creative, forse la parte più ricca del volume. È impressionante la quantità di figure nascoste e dimenticate: scrittrici, poetesse, drammaturghe, scultrici, pittrici, musiciste, la maggior parte delle quali «produceva» per necessità per il pubblico ristretto della propria comunità (un tema molto significativo è quello delle opere teatrali che venivano messe in scena nei conventi, a volte persino davanti a qualche esponente del mondo «di fuori»). «Esistono tuttavia alcune eccezioni», ricorda Evangelisti. In campo teatrale, ad esempio, l’autrice cita suor Juana Inés de la Cruz, la portoghese Violante do Céu, o le toscane Antonia Pulci, Beatrice del Sera, Cherubina Venturelli, Raffaella de Sernigi, Annalena Odoaldi…

Non va trascurato che queste autrici, a differenza dei loro «colleghi» monaci maschi, non avevano modo di assistere a eventi culturali all’esterno del loro convento, dovendo quindi fare affidamento in pratica soltanto su se stesse e sul poco che filtrava per realizzare le loro opere. Il campo nel quale questo aspetto è più significativo è forse quello della pittura, e il caso che mi ha colpito di più è quello di Plautilla Nelli (1523-1588), priora a diverse riprese del convento domenicano di Santa Caterina da Siena di Firenze (ancora lui). Seguace e devota del Savonarola, di Plautilla Nelli restano tre opere di sicura attribuzione (un Lamento sul Cristo morto, al Museo di San Marco di Firenze, un’Ultima cena, a Santa Maria Novella, e una Pentecoste, nella chiesa di San Domenico a Perugia), quattro opere di incerta attribuzione e un cospicuo elenco di opere documentate e perdute, anch’esse di sicura o incerta attribuzione, nonché un gruppo di disegni e bozzetti molto discussi.

La «madre pittora» è una delle pochissime artiste di cui parla Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, in particolare nell’edizione del 1568. Il suo profilo si trova nella «Vita di Madonna Properzia de’ Rossi scultrice bolognese» ed è stato la base di tutte le ricerche successive, anche perché contiene la testimonianza primaria degli scambi che in qualche modo l’artista (che, per ragioni anagrafiche, conobbe soltanto gli inizi della clausura) riuscì a intrattenere con l’esterno: dopo aver descritto un primo gruppo di opere, infatti, Vasari aggiunge «e per le case de’ gentiluomini di Firenze tanti quadri che troppo sarei lungo a volere di tutti ragionare». E contiene anche un preciso riferimento ai problemi di studio e «aggiornamento» che una monaca artista incontrava, non potendo uscire dal suo convento: «Ma quelle cose di mano di costei sono migliori che ella ha ricavato da altri, nelle quali mostra che arebbe fatto cose maravigliose se, come fanno gl’uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali».

La riprova, secondo il Vasari, si ricava da un fatto evidente: «Il vero di ciò si dimostra in questo: che nelle sue opere i volti e fattezze delle donne, per averne veduto a suo piacimento, sono assai migliori che le teste degli uomini non sono, e più simili al vero».

Il volume di Evangelisti si chiude con uno sguardo sull’attività missionaria delle monache e sulle istituzioni femminili che, pur negli anni della Controriforma, riuscirono a mantenere un legame attivo con il mondo, soprattutto sul terreno dell’educazione e dell’apostolato sociale. Le Orsoline di Angela Merici, le «gesuitesse» o dame inglesi di Mary Ward, le Visitandine di Francesco di Sales e Giovanna di Chantal e le Figlie della carità di Vincenzo de’ Paoli e Luisa di Marillac sono gli esempi illustrati da Evangelisti: «Indipendentemente dai successi e dalle sconfitte, le donne che agirono all’interno di queste organizzazioni rappresentarono un’espressione avanzata dei movimenti spirituali di riforma cattolica tra il Cinque e il Seicento e un elemento di cambiamento sociale che avrebbe lasciato il segno nei tempi a venire».

(2-fine)

Silvia Evangelisti, Storia delle monache (1450-1700), il Mulino 2012 (trad. ital. di M. Borg di Nuns. A History of Convent Life, Oxford University Press 2007 (informazioni ulteriori su Plautilla Nelli le ho tratte da Plautilla Nelli (1524-1588). The Painter-Prioress of Renaissance Florence, a cura di J.K. Nelson, Syracuse University Press 2008).

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«Con nostro grande dispiacere» (Silvia Evangelisti, «Storia delle monache», pt. 1)

Ho letto la Storia delle monache di Silvia Evangelisti, un «tipico» saggio di quelli che pubblica il Mulino, che ha il merito di affrontare un periodo piuttosto lungo (1450-1700) e di essere basato, oltre che su ricerche personali (l’autrice è docente di Storia moderna all’University of East Anglia di Norwich), su una bibliografia quasi esclusivamente di area anglosassone (per motivi comprensibili, non si tratta di un’esperienza frequente per un lettore italiano). Ne ho ricavato troppe informazioni (troppe perché le dimenticherò) e molti spunti interessanti che so già rappresenteranno punti di partenza per altre letture.

Non essendo uno studioso, sono meno attratto da visioni di insieme e da questioni che pure sono rilevanti, come la composizione sociale dei conventi femminili, dal fatto ad esempio che la «società» conventuale rispecchiasse la struttura di quella «esterna». La divisione in «classi», monache coriste – o velate – e monache converse – o servigiali –, fu sempre netta ed ebbe vita lunga, tanto che fu abolita formalmente soltanto dal Vaticano II («È da notare che le converse non appartenevano semplicemente al gruppo di monache peggio trattato ma erano deliberatamente mantenute in una posizione di subordinazione attraverso un sistema che impediva loro, tra le altre cose, di imparare a leggere e a scrivere»). D’altra parte la monacazione rappresentava per le donne, non soltanto per quelle appartenenti alle classi agiate, una concreta alternativa al «normale» destino del matrimonio, sia perché socialmente accettabile (anche per categorie specifiche come le vedove), sia per ragioni economiche. Si stima infatti che la «dote conventuale» fosse inferiore a quella matrimoniale da un terzo a un decimo.

Un tema centrale di questo periodo fu la clausura, intorno alla quale venne condotta una silenziosa battaglia, che è stata oggetto di numerosi approfondimenti da parte dei cosiddetti «studi di genere» e di cui l’autrice dà conto. Decretata da Bonifacio VIII con la costituzione Periculoso del 1298 («Abbiamo stabilito con la presente costituzione, che in perpetuo senza possibilità di modifica sanciamo di tenere per valida, che tutte e le singole monache, presenti e future, di qualsiasi congregazione e ordine, in qualsiasi parte del mondo risiedano, sotto perpetua clausura debbano permanere nei loro monasteri»), è con il Concilio di Trento (che nel «Decreto sui religiosi e sulle monache» del dicembre 1563 si rifa direttamente a Bonifacio: «Il santo sinodo, rinnovando la costituzione di Bonifacio VIII Periculoso, sotto minaccia del divino giudizio e dell’eterna maledizione, comanda a tutti i vescovi di fare assolutamente in modo che in tutti i monasteri la clausura delle monache, se fosse stata violata, sia diligentemente ripristinata; se invece fosse ancora intatta, venga conservata») che la clausura diventa la «prima obbligazione» per le monache, con una manovra «infallibilmente discriminatoria nei confronti delle religiose, non esistendo alcuna legislazione analoga per i religiosi».

Silenziosa fino a un certo punto, bisogna dire. A proposito della resistenza alla clausura, Evangelisti cita un caso interessante tratto dalle cronache del convento domenicano di Santa Caterina da Siena a Firenze. Nel 1575 un delegato apostolico fece visita al convento per verificare il rispetto delle disposizioni conciliari, che avevano prodotto anche una serie di questioni architettoniche riguardanti porte, grate e parlatorio (un luogo fondamentale). Riportano le cronache: «Et poi venne [il delegato] dentro dalla porta del parlatorio et guardando le grate disse si facesse doppie… et così la finestra non gli piacque et passammo via». Seccato, l’inviato del papa chiese conto di altre cose, al che «la priora se gli volse amorevolmente et disse: monsignor Reverendissimo noi non siamo in clausura ma habbiamo la nostra Regola et costitutione confirmate da papa Paulo 3 le quale non ci obbligono a clausura; non l’habbiamo et non la vuogliamo. Allora detto Reverendo veschovo venne in tale furia che si rivolse alla priora et gli disse che era superba arrogante altiera et gli darebbe il castigo che meritava.»

Le monache volevano mantenere la dimensione di reclusione «aperta» per continuare a dedicarsi alle opere pie al di fuori del convento, in linea con la loro vocazione, ma la battaglia, ça va sans dire, era persa. Pochi mesi dopo la visita, papa Gregorio XIII revocava le dispense e ribadiva la clausura stretta: «Addì 29 [agosto 1575] detto ci fu fatto un comandamento dal Reverendo padre priore di San Marco… da parte del vicario di Firenze che si dovessi rimurare l’uscio di chiesa infra 5 giorni altrimenti ci manderebbe una scomunica; et così si murò detto dì… et noi fummo le prime [a essere obbligate alla clausura] con nostro grande dispiacere».

(1-continua)

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