Inesperto e sempliciotta

Gli scrittori cristiani antichi ci ricordano che il peccato originale è derivato sì dalla tentazione di diventare «come Dio, conoscitori del bene e del male», ma, praticamente, è coinciso con un’assunzione di cibo: «La donna, vedendo che l’albero era buono da mangiare, piacevole a vedersi e desiderabile perché faceva acquistare intelligenza, prese del frutto e mangiò» (Genesi, 3, 6). Pertanto si digiuni, per cercare di espiare il gesto fatale, in vista di un ritorno alla condizione edenica.

I Testamenti sono stati setacciati alla ricerca di punti di appoggio, giungendo nei primi secoli dopo Cristo a due concezioni antitetiche: «Il digiuno può essere infatti privazione momentanea di cibi, intesi quali prodotti buoni di un universo anch’esso buono o, piuttosto, atto per rivendicare la totale estraneità dell’elemento spirituale, puro e incorruttibile, rispetto al corpo, con i suoi bisogni fisiologici, e al mondo, opera malvagia di un perfido creatore» (Carla Noce).

Ecco, la «totale estraneità», un concetto-fiume del quale non conosco la sorgente, ma di cui ho seguito estesi tratti, lungo la storia del monachesimo e oltre, quando si è vieppiù corrotto in quel sentimento di «separatezza» (e nel corrispettivo senso di colpa quando, infine, il mondo si è reso visibile). Lo guardo con estremo sospetto perché so che mi attrae, e fa sì che ingurgiti un volume come Il digiuno nella chiesa antica, nel quale posso leggere, tra gli altri, un testo come Sul maltrattamento del corpo, ventinovesimo discorso del Libro dei gradi – opera di area siriaca databile tra la fine del IV secolo e l’inizio del V e probabilmente relativa alla comunità protomonastica dei «Figli e Figlie del Patto».

Qui il concetto di digiuno si allarga e diventa simbolo di un più ampio atteggiamento di rifiuto del male, in cui vengono accostate attività molto diverse e direi difficilmente assimilabili. D’altra parte è il peccato stesso che non fa differenza, così tutto finisce sullo stesso piano, compreso l’omicidio: «Chi ruba e froda, depreda e agisce iniquamente, di certo se la gode ma si rende colpevole. Per la superbia, la licenziosità, l’inimicizia, la musica [?], il gioco, le chiacchiere, le risate e i cattivi costumi uno certo se la gode, ma poi viene condannato. Per la magia, l’omicidio e la menzogna… per le divinazioni, gli oracoli e gli incantesimi… per tutte le parole vane e odiose… sarà riconosciuto colpevole e condannato. Se invece si sarà trattenuto da tutte queste cose, avrà digiunato e si sarà umiliato, vincerà e la scamperà».

Idealmente Il libro dei gradi suggerisce un vertiginoso «digiuno dal mondo», ma ammette forme e gradi diversi (in relazione ai diversi livelli di «perfezione» della comunità). E qui l’anonimo autore si ammorbidisce un po’, concedendo a coloro «che non sono all’altezza dei digiuni dei quali ho parlato» un’alternativa: il comportamento corretto, perché «il digiuno di chi si allontana da ciò che è male e poi mangia è da Dio preferito rispetto a quello di colui che si astiene dal cibo e poi compie il male». In ogni caso occorre approfittare del passaggio sulla terra per «filtrarsi, alleggerirsi, purificarsi» e rimediare, con l’aiuto del Signore, alla trasgressione originale. Sì, perché, per tornare all’inizio, «il digiuno… salda i debiti di Adamo».

È un’espressione, quest’ultima, di Efrem il Siro, teologo-poeta morto nel 373 e autore di dieci inni sul digiuno, che getta sulla scena originaria uno sguardo che mi ha fatto sorridere, perché riconosce anzitutto che «l’albero era in fiore e il frutto splendido», e poi sottolinea che «Adamo era inesperto ed Eva sempliciotta».

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