«A chi è solo, Dio fa abitare una casa.» Così l’ultima versione approvata dalla CEI (2008) traduce il versetto 7 del Salmo 67 (68). Quella precedente diceva: «Ai derelitti Dio fa abitare una casa», la «Nuovissima» (1987) ha: «Dio riconduce a casa gli sbandati», mentre Ceronetti (1967, poi 1994) lo interpreta così: «È il Dio che guida a una casa / I privi di focolare». Se si risale più indietro si trovano però due indizi diversi e interessanti. Il primo nella Bibbia del Re Giacomo, che dice: «God setteth the solitary in families», il secondo nella Vulgata (la «sisto-clementina» del 1592, derivata essenzialmente dal lavoro di Girolamo), che riporta: «Deus, qui inhabitare facit unius moris in domo». E si potrebbe andare avanti ancora per molto.
Soprattutto con le versioni greche, cioè quelle consultate da Eusebio di Cesarea (263-339) per il suo gigantesco Commento ai Salmi, dove, un po’ a sorpresa, a proposito di quel versetto compaiono i monaci. Infatti alla base di «chi è solo», «solitario», ma anche «derelitto», «sbandato», ecc., se ho capito bene, c’è l’ebraico yehidim, che in una traduzione (Simmaco) diventa appunto monachoi, cioè i «solitari», in un’altra (Aquila) monogheneis, cioè gli «unigeniti», e in un’altra ancora monozonoi, cioè che «hanno un’unica cintura» (perché sono casti).
Eusebio le riporta tutte, ma a me pare evidente come preferisca un’altra versione, quella della Bibbia dei Settanta (realizzata tra il III e il II secolo a.C.), che legge yehidim come monotropoi, cioè «coloro che sono rivolti a un unico fine», o meglio «coloro che hanno un comportamento unico», ossia «non molteplice, e che non si comportano a volte in un modo a volte in un altro, ma praticano uno stile unico di vita, che giunge fino al vertice della virtù». Tutti insieme nello stesso posto, tutti nello stesso modo, con lo stesso scopo santo: un monastero.