Leggo Le ore di Dolores Prato perché ho scoperto che contiene una descrizione di prima mano della vita di un convento di visitandine agli inizi del Novecento. Non sapevo nulla (quelle surprise) di questa scrittrice, pubblicata per la prima volta nel 1980, all’età di 87 anni, morta nel 1983 e in qualche modo riportata nella rubrica dei «casi letterari» (le carte del lascito sono territorio ancora in gran parte inesplorato). «Il monastero era un mondo che confinava solo con l’aldilà… Un grosso pallone frenato ancorato da Dio in quel punto del paese.» Il primo è, appunto, un monastero della Visitazione, ramo femminile dei salesiani; l’ultimo è Treia, comune in provincia di Macerata dove l’autrice visse i primi anni di una vita lunga e molto tormentata dalla propria personalità, da una vocazione religiosa e letteraria complesse, da ristrettezze economiche e dagli annessi della condizione femminile dell’epoca. Nel monastero di Treia Dolores Prato passò gli anni dal 1902 al 1910, ospite mal sopportata (lei, prima non riconosciuta e poi affidata dalla madre a una coppia di cugini) dell’educandato.
Lo sguardo, di molto posteriore, su quel tempo è duro, impietoso, e restituisce la rigidità delle consuetudini, l’apparente freddezza delle suore, il dilagare delle differenze sociali anche nel piccolo spazio recluso e infine le poche parole di quel luogo, alle quali l’autrice si attacca per ricostruire una breve vicenda e fissare una specie di «lessico claustrale» (non è un caso, forse, che il manoscritto del suo primo libro, Giù la piazza non c’è nessuno, sia stato rivisto da Natalia Ginzburg). Il senso di orgoglioso isolamento della comunità dal resto del mondo, tutto il mondo, le regole che trasformano il tempo in un quadro immobile, una scelta di fede e di vita che pare uno scafandro (e tuttavia «siamo le farfalle di Gesù», le dirà un giorno una suora, «gli giriamo intorno come le falene intorno alla fiamma») – tutto è raccontato in un modo cui non siamo più abituati.
La foto di gruppo delle consorelle, che rappresenta forse la parte più incisiva del racconto, fissa con perfezione i caratteri, l’aspetto e i modi delle suore. C’è posto per la nobile che ancora cura la propria bellezza, per l’anziana mummificata con le guance come la carta, per la Portinaia che non rispondeva mai alla porta, per suor Chiara «che si vantava di non aver mai fatto il bagno», per suor Margheritina «tanto curva che la sua faccia non distanziava un metro da terra», per la Sagrestana che in coro cantava da basso, per la conversa feroce («Se il demonio c’è io lo vidi quel giorno. Era il demonio quella monaca che se ne andava col sacco dove aveva rimesso la bestia morta») e per suor Maria Saveria: «La faccia: un grande rettangolo, nel mezzo l’allungatissimo naso e la bocca sotto era uno scatolone di grossi denti con la mascella inferiore di molto sporgente da quella superiore», afflitta per di più da una «colossale scarpa ortopedica» che la obbligava a procedere quasi ad angolo retto…
Su tutte spicca prepotente la Madrina, che non è la Superiora. Lo era stata, ma dopo un turno in carica non era stata rieletta e tuttavia era la vera autorità del monastero, braccio esecutivo della svagata Superiora. Al secolo Elvira Masi, romagnola di Lugo, poi suor Margherita Maria – come la santa Alacoque, la grande visitandina mistica del Seicento, allora soltanto beata –, la Madrina «era tutto: amministratrice generale, economa, esaminatrice delle pretendenti, maestra delle novizie; compilava e faceva stampare le farraginose circolari che si dovevano mandare a ogni monastero visitandino; corrispondeva con l’Arcivescovo e la Santa Sede… padrona di tutto, sovrana incontrastata di muri e di persone, da alcuni ricercata come si cerca l’aria quando manca, da altri sopportata come nell’impossibilità di liberarsene si sopportano le pulci». Un personaggio tragico e imponente, con il quale Prato manterrà i contatti ben oltre la fine dei suoi anni di Treia. Una donna di ferro che aveva scelto la clausura in seguito a una delusione amorosa («Un uomo l’aveva abbandonata, un Dio la raccattava»), testarda, severa e fredda con le ragazze, inflessibile con le consorelle, ossessionata dal costruire tanto da trasformare il monastero in un cantiere permanente («“Non può stare senza muratori”, diceva benevola suor Celestina»), a suo agio soltanto nel suo Giardino dove nessuna poteva entrare («“Con codeste sottane mi rovinereste tutto”, erano vesti uguali alla sua, ma non erano la sua») e dove cresceva i fiori per l’altare e gli altarini («Coltivava solo i resistenti, escludeva i delicati»). Una donna pratica e diffidente, insofferente di qualsiasi deriva mistica. L’Ordine aveva rifiutato pochi anni prima Gemma Galgani («le sue stigmate non ci convincevano… suggestione, nient’altro che suggestione») e in seguito a «quella seccatura» c’erano state pressioni perché venisse letta la Storia di un’anima di Teresa di Lisieux, «autobiografia di una giovane carmelitana morta tisica, languorosa, caramellosa, parolaia… “Per carità” interruppe la Madrina “di questa neppure il nome”».
Un gigante intrappolato, di propria volontà, in una gabbia. «Quando non fu più Superiora solo per la comunità fu suor Deposta, all’infuori restò “la Madrina”. Ma lei che nelle firme ufficiali doveva scrivere Margherita Maria Masi per tutto il resto inventò una sua firma apparentemente sbrigativa, “M³”, in realtà era il suo nome elevato al cubo, il suo nome moltiplicato tre volte per se stesso, emme alla terza potenza.»
Dolores Prato, Le ore, a cura di G. Zampa, Adelphi 1994.
«Quando non fu più Superiora solo per la comunità fu suor Deposta, all’infuori restò “la Madrina”. Ma lei che nelle firme ufficiali doveva scrivere Margherita Maria Masi per tutto il resto inventò una sua firma apparentemente sbrigativa, “M³”, in realtà era il suo nome elevato al cubo, il suo nome moltiplicato tre volte per se stesso, emme alla terza potenza.»
Ecco M alla terza! Giá la dice lunga: una lettera e un numero all´apice per autodescrivere l´antimonachesimo per eccellenza. Un applauso a Dolores Prato che trasforma tutta l´aciditá in un piacevole aceto stagionato e impreziosito da striature satiriche e da aromi umoristici (si, ultimamente ho la fissa della cucina…)