Il capitolo VII della Regola, il più ampio, «più che doppio rispetto al pur lungo capitolo IV sulle buone opere», è considerato la sintesi della parte spirituale e dottrinale dell’opera di san Benedetto (come scrive Salvatore Pricoco, «da esegeti antichi e moderni è sempre stato considerato, con il Prologo, il brano più importante dell’intero testo, l’espressione più piena e solenne della dottrina ascetica e della spiritualità monastica benedettina»). Tratta dell’umiltà e dei dodici gradini della sua «scala» («Questa scala che si rizza è la nostra vita nel secolo… [e] i lati di questa scala diciamo che sono il nostro corpo e l’anima»), ed è anche il brano in cui, in maniera velata, Benedetto prende congedo dalla sua fonte principale, la Regola del Maestro. Lo fa, tra l’altro, con una mossa che dimostra il suo prezioso pragmatismo. Ma di questo un’altra volta.
Proprio nelle parole conclusive di questo brano semplice e bello, c’è una nota che mi colpisce, sia per il suo gusto psicologico prima dell’avvento della psicologia, sia per la concretezza, sia infine per una certa assonanza con alcuni cascami contemporanei da «pensiero positivo». Infatti, quando il monaco, l’uomo, avrà salito tutti i gradini della scala dell’umiltà, arriverà finalmente all’amore divino, e «per esso egli comincerà a custodire senza sforzo alcuno, quasi naturalmente e per abitudine, tutto ciò che prima osservava non senza paura». L’adesione alla Regola, l’obbedienza, la vita santa non saranno più il risultato del timore del castigo, terreno e infernale, e il bene verrà perseguito «per la consuetudine stessa al bene e il gusto delle virtù».
In secondo piano rispetto alla dimensione spirituale, quindi, forse c’è anche questa semplice manovra, tratta si direbbe dall’esperienza: fai bene, insisti, perché dai e dai ti verrà naturale, e la virtù diventerà un’abitudine. Anche per un miscredente come me, corazzato tuttavia di abitudini, c’è speranza. O almeno quasi.
Hai voglia se ce n´é! 🙂