Dopo aver letto la lettera di Gerolamo sui monaci egiziani sono andato avanti e ho scoperto altre lettere, non strettamente monastiche, ma ugualmente interessanti e curiose. Per esempio quella A Pammachio sul miglior modo di tradurre, la LVII, scritta intorno al 396. Be’, fa impressione leggere un traduttore di milleseicento anni fa che si difende dalle critiche che gli hanno rivolto per una cattiva traduzione: «Essi vanno dicendo tra gli ignoranti che io sono un falsario, che non ho tradotto parola per parola, che ho detto “carissimo” invece di “onorevole” e che, traducendo in malafede – abominio a dirsi –, non ho voluto riportare αιδεσιμώτατος [= reverendissimo]. Questa e altre bagatelle del genere sono le mie colpe!»
Le cose erano andate così. Eusebio di Cremona, suo confratello, aveva chiesto con insistenza a Gerolamo di tradurgli in latino una corrispondenza in greco tra due vescovi della quale molto si discuteva. Gerolamo l’aveva fatto, «in fretta e furia» ammette, e aveva pregato Eusebio di tenere per sé la versione, e «così fu per un anno e sei mesi, fino a che la suddetta traduzione dalle sue casse, per uno straordinario gioco di prestigio [novo praestrigio], si trasferì a Gerusalemme». Era scoppiato un pieno: tutti addosso a Gerolamo che non sa tradurre, che omette, è un ignorante, mistifica, falsifica, ecc.
Gerolamo, ovviamente, non ci sta; è un asceta, sì, ma il carattere non è il corpo… Anzitutto se la prende con la privacy: l’avevo detto che quel testo non doveva circolare, diamine! «Cosa sarà sicuro presso gli uomini, se non possiamo nascondere i nostri segreti neppure tra le pareti e nelle casse?» È alterato: essere accusato da ladri non gli va. Poi rivendica un diritto, che vale la pena di essere riportato: «Voglio essere padrone, nelle mie carte, di scrivere qualsiasi stupidaggine, di far note sulle Scritture, di mordere a mia volta chi mi insulta, di digerire la mia bile, di esercitarmi nei luoghi comuni e di metter da parte, per così dire, delle frecce appuntite per combattere: finché non divulgo i miei pensieri, anche le ingiurie non costituiscono misfatto, anzi non sono neppure ingiurie, dato che le orecchie del pubblico non le conoscono».
A questo punto è proprio fuori di sé. La volete capire che io non sono come quei traduttori zotici e incapaci che mettono giù un termine dopo l’altro (la putida rusticorum interpretatio), io «non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso»! E, dopo aver coinvolto anche il suo amato Cicerone, parte con una tirata di dieci e più pagine di esempi tratti dalla Bibbia, con i quali mette a confronto il testo ebraico, la versione dei Settanta e la sua nuova traduzione, le interpretazioni eretiche o quelle di altri «colleghi»: un tour de force che lascia senza fiato per intensità, passione e dettaglio («Se si vuol cavillare sulle parole non sono certo la stessa cosa “avrà” e “riceverà”…»).
Il senso, il senso! continua a ribadire Gerolamo. È sul senso, chiaro e correttamente trasferito da un idioma all’altro, che si fonda la stabilità di un testo, soprattutto se parliamo di sacra scrittura. Io mi sono spaccato la testa sugli originali! E poi, persino i Settanta ogni tanto hanno aggiunto una parola: criticheranno anche loro? Anche a loro faranno le pulci? Be’, «mi lascino dire che anch’io non ho messo a repentaglio la stabilità della Chiesa, se, dettando di fretta, ho dimenticato qualche parola».
Vabbè, caro Pammachio, scusa se mi sono dilungato, conclude Gerolamo. Cerca di capirmi, mi hanno «fatto a brandelli», mi hanno «sbranato», «calunniato per delle sillabe». Guarda tu stesso le due versioni e fai le tue valutazioni, «per il resto, mi contento di aver informato un amico carissimo e di aspettare, nascosto nella mia celletta, soltanto il giorno del giudizio».
San Gerolamo, Lettera a Pammachio sul miglior modo di tradurre (LVII), in Lettere, a cura di R. Palla, introduzione di C. Moreschini, BUR 1989.
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