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Sfrontatello e delicato (Pier Damiani e la flagellazione)

LettereMonaciMontecassino A conclusione dell’ottimo volume delle Lettere ai monaci di Montecassino di Pier Damiani – ottimo soprattutto per la qualità della traduzione e dei lunghi cappelli introduttivi ai singoli testi – si legge la Lettera in lode della flagellazione e, come si suol dire, della disciplina1, breve testo violento e corrusco, sospinto, per usare un’espressione del curatore, «dal soffio della sua [di Pier Damiani] straripante ansia di mortificazione e di penitenza, anche corporale». Curatore, Aldo Granata, che spende non poche e assai rifinite pagine per «contestualizzare» (dal punto di vista storico, religioso e con un accenno anche alla psicoanalisi) una pratica, la flagellazione, e l’autoflagellazione nello specifico, «in altro modo difficilmente accessibile alla luce dell’odierne categorie mentali e del nostro concetto di religiosità».

L’occasione per lo scritto, datato 1069, è data a Pier Damiani dalla visita di un tal cardinale a Montecassino, durante la quale il porporato avrebbe spinto i monaci ad abbandonare la suddetta pratica penitenziale e remissiva, in particolare previo denudamento davanti alla comunità dei fratelli («Senza dubbio non si deve radicalmente disapprovare la macerazione del corpo mediante il digiuno, ma il denudare le membra sotto gli occhi di tanti fratelli che guardano è una cosa troppo vergognosa e ripugnante»).

Non sia mai! Tuona l’Avellanita. Ma come!? Volete seguire Cristo, come lui soffrire e crocifiggere le lusinghe della carne, e poi vi vergognate di spogliarvi e di battervi di fronte a tutti? Perché è importante notare come il discorso di Pier Damiani non separi mai i due momenti, anzi, a tratti sembri quasi concentrarsi di più sulla vergogna della nudità che sulle frustate (che, va ricordato, si contavano a decine, a centinaia e più: a Fonte Avellana, alla morte di un confratello, alcuni monaci offrivano per la salvezza della sua anima sette «discipline» di mille colpi ciascuna). I toni progressivamente si accendono, Piero passa al «tu» e arrivano i vermi: «Cristo non si è vergognato dell’infamia della croce; e tu arrossirai della nudità della tua carne, che odora di putredine e sarà divorata dai vermi?» E ancora «tu, insolente, ben lisciato qual sei, tu così sfrontatello e delicato [et tu lascivus, tu unctus, tu petulculus ac tenellus]» non vuoi svelare il segreto della tua carne? «Ebbene, fratello: che è mai codesta carne?» Lo sai, vero, che fine farà? Conviene soppesare ben bene la sanies, il virus, il fetor e l’obscenae corruptionis illuvies che ti aspettano. Cosa credi, che ti diranno grazie i vermi «dai quali saranno divorate le carni che hai allevato [allevato, come un tacchino…] nelle delizie e nei piaceri?» (Quas ergo gratias tibi referent vermes, qui voraturi sunt carnes quas molliter ac suaviter enutristi?) Oppure hai paura farti vedere nudo ché «non ti succeda di essere ammaliato dagli occhi di guarda (times nudus aspici, ne te contingat oculis videntium fascinari!)».

Pertanto, vi prego, conclude Piero, non curatevi della nudità né dell’«asprezza dei colpi che volano rapidissimi (plagarum sub momento volantem asperitatem) e fate in modo che quando il supremo giudice guarderà dalla vostra parte, vi troverà intenti a un triplice ruolo: quello di giudice nella coscienza, di reo nel corpo e di carnefice nelle mani: «In corde se constituit judicem, reum in corpore, manibus se gaudet exhibere tortorem», dove quel «se gaudet exhibere» è carico di sfumature che possiamo perlomeno definire complesse, e che Aldo Granata definisce «quello che non a torto può essere considerato uno dei vertici dell’ascetismo monastico medievale».

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  1. Pier Damiani, Lettera in lode della flagellazione e, come si suol dire, della disciplina (Opusc. XLIII), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 397-419.

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Piccole finestre e paginette

Lasciando da parte la dimensione del miracoloso, così difficile, se non ormai impossibile, per noi moderni da apprezzare nello stesso modo in cui la apprezzavano i monaci dell’XI secolo (e non solo loro), è sempre interessante soffermarsi sui particolari per così dire realistici dei racconti di fatti mirabili «quae miracula appellantur»; quei dettagli che «aprono squarci bellissimi sul modo di sentire comune, e sono altrettante spie, o piccole finestre, che occhieggiano su una società da cui, per certo, ci separano anni luce» (Aldo Granata). E poterlo verificare, anche da dilettanti, sulle pagine di un grande scrittore come Pier Damiani è ancora più interessante1.

Considerando, per cominciare, che Pier Damiani scrive, da Fonte Avellana, all’abate Desiderio, a Montecassino, ecco che l’inciso «ci separa, interponendosi tra di noi, un cammino di quindici giorni all’incirca» ci dà una misura della durata del viaggio di un po’ meno di 400 chilometri lungo la Flaminia e poi la Casilina. Proseguiamo col vescovo Arnaldo, protagonista di un’esemplare punizione proprio mentre si metteva a sedere con familiari e servi e, «libero da preoccupazioni, di umore ilare e lieto [securus, hilaris ac jucundus], scambiava con loro detti garbati e spiritosi»; Arnaldo che peraltro «era dotato di una facondia così singolare che, quando sciorinava rapidissimamente le parole [dum expeditissime in verbis decurreret], non a torto lo si sarebbe potuto definire di lingua davvero tagliente». Poi c’è Ugo di Fano che tutta la città aborre e definisce folle («tutti gli sputano addosso, lo scacciano e lo insultano»), anche i famigliari lo schifano «e il suo alito – come si lamenta Giobbe – fa nausea alla moglie [halitum quippe ejus, juxta querelam B. Job uxor exhorret]». Chiede allora di incontrare Pier Damiani, il quale si informa un po’ in giro e visto che tutti non sanno dirgli altro che «è folle», lui ribatte: «Come lo sapete? O su quali prove si fonda la vostra congettura che egli sia fuori di sé?»

C’è ancora la confessione del vescovo Severino circa la mancata osservanza delle ore canoniche, per motivi, diciamo così, di time management: «Non fui in grado di adempiere all’obbligo dell’ufficio comune nel rispetto del giusto intervallo delle ore canoniche; giacché, cumulando insieme ogni cosa al mattino, per tutto il giorno avevo la più ampia libertà di dedicarmi agli affari incombenti». C’è «uno sconosciuto dalla lunga chioma [incontrato per strada], che, come se stesse ritornando da Gerusalemme, recava in mano una palma»; c’è il confratello malato di Fonte Avellana che, «approfittando di questa sua debolezza e fragilità di costituzione, recitava spesso, dal principio alla fine, compieta, restando a giacere a letto»; c’è il figlio del re Roberto (II il Pio), «il cui collo era del tutto simile, come il capo, a quello di un’oca»; c’è l’«edificio riservato agli infermi [infirmorum domus]» visto durante una visita a Cluny; c’è l’espressione di «un chierico molto insolente e gonfio d’orgoglio» che, richiamato al dovere evangelico dell’umiltà, rispose che no, «se io mi fossi umiliato, cedendo ai miei avversari, oggi non avrei sì gran copia di possedimenti e di clientele» – si può immaginare come scontò il sacrilegio… E così via.

E di tutto quello che racconta Pier Damiani chiama a testimone la sua coscienza «che, non per la voglia di dir bugie, ma per il desiderio di edificare, ricordando con la maggior precisione possibile ciò che mi fu raccontato, mi preoccupo di prenderne nota in certe mie paginette [satago schedulis adnotare]».

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  1. Pier Damiani, Lettera sulla utilità dei vari suffragi e vari miracoli in particolar modo della beata Vergine (Opusc. XXXII) e Lettera su vari racconti di fatti miracolosi (Opusc. XXXIV/1), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 207-269. E dice ancora il curatore, Aldo Granata: «Anche la circostanza che un gran numero di fatti a noi riferiti come miracolosi abbia per oggetto gli alimenti indispensabili alla vita all’uomo, è tale da farci riflettere sul vero significato di una fede, ingenua sì, finché si vuole ma, per così dire esasperata, resa più accesa e implorante dalla durezza e dalla precarietà delle condizioni materiali del vivere quotidiano».

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Il bestiario di Pier Damiani

Nell’autunno del 1061 Pier Damiani è a Roma, impegnato a fianco del papa Alessandro II, ma trova il tempo per scrivere una lunga lettera (l’Opusculum LII delle sue Opere) agli amati monaci di Montecassino, guidati allora dall’abate Desiderio («arcangelo dei monaci»), che è «un vero e proprio bestiario moralizzato ad usum monachorum»1. A leggere queste pagine con occhiali moderni bisogna resistere alla tentazione del divertimento e anche a quella, tipicamente medioevale, del «meraviglioso» (cui pure l’«Avellanita» dedicherà altri scritti). Qui, infatti, il grande monaco eremita – e il grande scrittore – è mortalmente serio, perché ne va sempre e comunque della salvezza dell’anima e perché Dio ha disposto le cose «affinché, perfino per mezzo delle bestie, l’uomo sia in grado di apprendere ciò che deve imitare, ciò che tocca, a lui, di fuggire, ciò che può utilmente, da loro, prendere a prestito». È da notare anzitutto che Pier Damiani non si vanta di essere un esperto del mondo animale, ma che riporterà «solamente ciò che, da quanti con sudore hanno osservato le realtà della natura, è stato messo a nostra disposizione nel modo più certo e inconfutabile». L’inciso sottolineato è assai significativo, e Piero ribadirà più volte il concetto, ad esempio nel capitolo 15, parlando del pellicano («Come tramandano coloro che si diedero da fare per conoscere a fondo la varia natura degli animali»), suggerendo chiaramente, direi, come la conoscenza richieda attività sul campo e costi fatica. Che poi il fatto che il pellicano uccida i suoi piccoli (come Dio castiga la prole ingrata) non sia né certo né inconfutabile è un altro discorso.

Eh sì, di certo e inconfutabile, oggi, non c’è pressoché niente in queste pagine, in cui la stessa osservazione non è mai neutra, ma si basa su presupposti morali, in particolar modo di origine biblica. È difficile non rimanere affascinati (e forse non soltanto affascinati) dalla rete di citazioni, riferimenti, citazioni, analogie dispiegata dal testo: una rete che ricopre il mondo (in questo caso quello naturale) senza smagliature. Gli animali dunque si dividono senza esitazioni in esempi buoni, esempi cattivi, simboli di tragica inconsapevolezza o di realtà superiori cui ispirarsi per non perire in questo «covile del diavolo» che è il mondo.

Così, il leone è buono, perché dorme con gli occhi aperti, come dovrebbero fare i monaci; il riccio è figura del diavolo, perché entra nelle vigne all’epoca della vendemmia e, scuotendo i tralci, fa cadere i chicchi maturi («che hanno il turgore delle virtù spirituali»), li infilza sugli aculei e se li porta via; la volpe non ne parliamo nemmeno, e neanche il polipo, che si finge roccia per catturare gli ignari pesci che si avvicinano: «Che altro è il polipo, se non l’uomo malvagio e fraudolento, e perciò eretico?»; molto meglio la fenice, che risorge «come il nostro Salvatore»; bene l’upupa, l’aquila e la folaga, ancora meglio le api, che «sono immuni dal coito, così nel partorire non sono costrette a subire nessun guasto»; «livido e immondo» l’ibis, per non parlare della iena, bene invece la dorcade, «che latinamente chiamiamo “capriolo”, [e che] offre al nostro stile di vita il non inutile esempio della propria indole naturale»: sguardo acuto e capacità di discernimento; lo sguardo acuto è anche della lince, «non solo in grado di penetrare qualsiasi corpo solido, ma anche le pareti in pietra»: mettete un pezzo di carne dietro un muro e vedrete…; ottimo il serpente, che cerca una fenditura nella pietra (la penitenza) e si toglie di dosso la vecchia pelle (dei peccati), ottima la formica, che sa discernere i chicchi delle messi, supremo infine il castoro, che ha capito che gli si dà la caccia per le virtù terapeutiche dei suoi genitali, sicché, «quando si accorge che il cacciatore lo insegue… se li recide a morsi e li getta davanti al cacciatore», se poi capita un altro cacciatore, il castoro gli si alza di fronte mostrandogli «che gli manca ciò che per cui è così ambito», dunque «pure tu, se vuoi sfuggire al cacciatore che ti insidia nella più profonda intimità, studiati con ogni mezzo di troncare di netto da te i dilettosi eccitamenti del piacere». Ecc. ecc.

A un certo punto Pier Damiani si ricorda «che non a un libro, ma a una lettera abbiamo dato inizio» e che bisognerebbe concludere. Non ce la fa, ha ancora due o tre storie che muore dalla voglia di raccontare: il granchio e l’ostrica, la scimmia, la balena, e visto che di monaci parliamo, sapete come fa il granchio a catturare l’ostrica di cui è ghiotto? Come fa a papparsi il «cibo carneo» ben difeso dalle due valve «assai robuste» che scattano alla minima minaccia? Fa così: si apposta e quando l’ostrica si apre butta lì un sassolino, cosicché non possa più richiudersi, e allora «introduce le chele senza correre alcun rischio, e dall’ostrica estrae la parte più interna e riposta». La morale è ineccepibile: «A cosa sembra più convenientemente alludere l’ostrica, se non al monaco? Sicuramente questi vive finché lo circonda l’obbligo rigoroso del silenzio, al contrario perisce quando si apre per parlare senza moderazione». E che cos’è il sassolino se non la «pietruzza, per dir così, della cattiva abitudine»? Già, perché «di che altro è figura il granchio, la cui natura è di procedere a ritroso, se non dello spirito ribelle», cioè del diavolo?

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  1. Pier Damiani, Lettera sul valore della vita religiosa e sulla interpretazione simbolica di numerosi animali (Opusc. LII), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 103-142.

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Il vivaio delle anime (Dice il monaco, CXXIII)

Scrive Pier Damiani ai monaci di Montecassino, nel 1061:

Dunque, quando Dio onnipotente vi ha tratto in salvo dal mondo e vi ha immesso al suo servizio sotto la disciplina del monastero, a guardar bene, che altro ha fatto se non, come un tempo, durante il diluvio, di molti che perivano, scegliere voi, pochi, e, perché continuaste a vivere, farvi trovare riparo sull’arca spalmata di bitume? Poiché il recinto del monastero è il vivaio delle anime. Poiché vi vivono i pesci, che, come proclama la legge, sono provvisti di pinne, e, onde trasformarsi nel corpo di Cristo, si offrono come cibo prelibato per le mense degli israeliti. Poiché i pesci che sono provvisti di pinne sulle squame hanno pure l’abitudine di saltare sopra il pelo dell’acqua. Dunque, di che altro sono figura i pesci provvisti di pinne, se non delle anime elette, che sole – è sicuro! – si trasformano nel corpo della chiesa celeste? Giacché, non appena si reggono sulle penne della virtù, per il desiderio del cielo bramano ardentemente saltare, onde assurgere alla contemplazione delle cose di lassù, pur se di nuovo, per la carne soggetta alla morte, sdrucciolano giù su se stesse.

♦ Pier Damiani, Lettera sul valore della vita religiosa e sulla interpretazione simbolica di numerosi animali (Op. LII), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 105-106.

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Ora e sempre, Romualdo

Mi fa sempre piacere «ripassare» Romualdo, figura quasi unica di eremita intermittente e itinerante che i suoi stessi confratelli camaldolesi di oggi, a mille anni di distanza, non esitano a definire dai tratti paradossali. Così, leggendo a distanza ravvicinata tre saggi a lui variamente dedicati1, oltre a imparare tante cose, ho rinfrescato la simpatia che provo per lui: per la sua pungente irrequietezza che gli impedisce di restare a lungo nello stesso luogo; per il suo essere maestro involontario e soprattutto senza opere scritte e perlopiù silenzioso: «Sebbene con la lingua tacesse, egli predicava con la vita», scrive Pier Damiani, suo eccelso agiografo2; e ancora per i suoi molti fallimenti, se così li vogliamo chiamare, in varie iniziative; per la tragicità dello sguardo rivolto a se stesso, unito alla bontà e anche all’ironia di quello rivolto agli altri: «Sebbene il santo  mantenesse con se stesso una tale austerità», scrive ancora Pier Damiani, «mostrava sempre un volto ilare, sempre una faccia serena».

Mi piace il Romualdo santo di pochi miracoli, ma di tanti gesti singolari, concreti e simbolici. Un giorno un confratello va da lui lamentando un terribile mal di testa, Romualdo non si scompone e, «quasi prendendolo in giro, gioioso nel volto come era sempre, attraverso la finestra della cella gli soffiò sulla fronte e fece cenno a tutti gli altri che erano presenti di fare altrettanto»: e il dolore non c’è più. Un’altra volta un presbitero gli passa vicino addirittura urlando per il mal di denti: Romualdo gli guarda in bocca, tocca il punto dolente e gli dice: «Metti una lesina in una canna, perché non danneggi il labbro, e falla toccare qui, e così il dolore scomparirà» – «Nulla di prodigioso, una normale opera di medicina monastica» (Cantarella).

Mi piace il Romualdo che si nasconde, e che nasconde e dissimula le sue doti e i suoi doni, come quello delle lacrime (tra i più insondabili, per me). Riferisce ad esempio un suo confratello, con il quale recitava i salmi in una cella dell’eremo di Biforco, che «almeno tre volte nella notte, ma anche di più, Romualdo fingeva di andare per i bisogni della natura, poiché non poteva trattenere l’abbondanza delle lacrime che gli fluivano e i singhiozzi» – incontinente sì, ma di pianto!

Mi colpisce che Pier Damiani alla morte, avvenuta nel giugno del 1027, gli attribuisca l’età tutto sommato plausibile, per i suoi lettori, di centoventi anni (ne aveva settantacinque). Romualdo fu testimone del passaggio di almeno diciotto tra papi e antipapi, di cinque imperatori e di innumerevoli altre figure storiche: «Romualdo fu un uomo che avanzando negli anni vide morire, spesso prematuramente, molti tra i suoi conoscenti e discepoli. Questo personale anche se non raro destino, questa schiera di personaggi che si affacciarono sulla sua vita e velocemente scomparvero, può aver falsato l’idea della sua reale età nei discepoli dell’ultima fase della sua vita» (Fornaciari).

Tra l’altro, è proprio l’età avanzata che, sempre secondo Pier Damiani, destituirebbe di fondamento le accuse di peccato carnale che gli eremiti di Sitria rivolsero a Romualdo: «La cosa che lascia veramente stupefatti è che soprattutto degli uomini spirituali abbiano potuto credere che un vecchio decrepito, più che centenario, avesse potuto compiere un tale nefando crimine. Anche se ne avesse avuto la volontà [!], infatti, la natura, il sangue frigido e l’aridità di un corpo che aveva perso il suo vigore glielo avrebbero assolutamente negato». «Per Pier Damiani nessuno», commenta Cantarella, «proprio nessuno, nemmeno un santo, può dirsi al riparo dalla calunnia e dunque dalla verisimiglianza della tentazione.»

E infine mi piace il Romualdo massimalista che, forse amplificato dall’ancor più massimalista Pier Damiani, «mai contento dei risultati, mentre faceva alcune cose si affrettava a farne subito altre, tanto che si pensava che egli volesse convertire tutto il mondo in un eremo e associare tutta la moltitudine del popolo all’ordine monastico» – il cielo, e non soltanto quello, in una stanza!

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  1. Glauco Maria Cantarella, La «Vita Beati Romualdi», specchio del monachesimo nell’età di Guido d’Arezzo, in Guido d’Arezzo monaco pomposiano, Atti dei Convegni di Studio, Abbazia di Pomposa – Arezzo, 1997-1998, a cura di A. Rusconi, Olschki 2000, pp. 3-20; Lorenzo Saraceno, Pier Damiani, Romualdo e noi. Riflessioni di un camaldolese alle prese con i suoi auctores, in «Reti medievali» 11, 1 (2010), p. 283-308; Roberto Fornaciari, Elementi di contemplazione e mistica in Romualdo di Ravenna, in «Claretianum» 44 (2004), pp. 111-42.
  2. Vita del beato Romualdo, abate ed eremita, in Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, introduzione, traduzione e note a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.

 

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Osservare e ascoltare

Mi ha sempre colpito la circostanza che molti scrittori che hanno tessuto le lodi dell’eremo l’abbiano fatto da una posizione opposta o dopo averlo abbandonato. Ah, potessi starmene chiuso nella mia cella, dice talvolta il monaco, intanto che viaggia da un monastero all’altro, partecipa a missioni, si mescola alle umane vicende. Può trattarsi di nostalgia del paradiso perduto, di segreta aspirazione, certo, dello struggimento che divampa proprio quando si perde una condizione, ma è comunque singolare che provenga da chi, in qualche forma, non ha resistito al richiamo del mondo «di fuori». Come se si sentisse in colpa.

Forse, anche, c’è il desiderio che l’umanità si trasformi in una «collettività di eremiti»: tutti soli, ma anche tutti insieme, separati ma in contatto (al modo in cui la sociologia legge alcune dinamiche contemporanee). E per far questo bisogna uscire e agire, in nome di una di quelle ipotesi irreali che non deludono perché non possono essere verificate.

Ad esempio Pier Damiani, autore di uno dei vertici della letteratura dedicata al tema, la Lode della vita eremitica, contenuta nel suo opuscolo Il libro chiamato Dominus vobiscum (Liber appellatus Dominus vobiscum). Già la vicenda del suo autore è emblematica, con il suo continuo entrare e uscire dall’eremo (mi ordinavano di farlo, ci risponderebbe…) e con la sua morte on the road, nel 1072. Anche lo spunto del trattatello, poi, è significativo. Uno spunto linguistico che rimanda direttamente alla questione: i confratelli gli chiedono con insistenza se durante le orazioni devono dire «Il Signore sia con voi» e se devono rispondere a se stessi dato che sono soli nella cella. La risposta di Pier Damiani è una densa riflessione ecclesiologica, nella quale non mi addentro per ovvi motivi di incompetenza.

Mi limito ad ascoltare questa lingua così ricca, questo rigoglio di immagini (molte delle quali guerresche), queste accensioni poetiche: «Come le stelle, l’una dopo l’altra, alternando i loro cammini arrivano al giorno, così i salmi, che escono dalle sue labbra [del monaco] come da un qualche oriente, scorrono a poco a poco verso la loro fine, fatti quasi compagni di viaggio delle stelle». E di riflesso mi sembra di vedere il mondo, con i giardini, i mercati e le officine, i bagni e le piscine, i colpi di martello e la rugiada, quelli accesi dal desiderio («luxuriosis renibus») e quelli che dicono le parolacce («jocosi»).

Non voglio far dire a Pier Damiani quello che non dice. Però me lo immagino mentre viaggia e osserva il mondo, le cose e gli esseri umani, e anche se si prepara a dirne quattro a questi ultimi, continua a osservarli e ad ascoltarli. E prende appunti.

Pier Damiani, Il libro chiamato Dominus vobiscum indirizzato all’eremita Leone, Piemme 2001.

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