Nel bel mezzo delle periodiche riflessioni sulle forzature del mio «interesse» per il monachesimo mi è arrivato l’ultimo numero della «Rivista cistercense» (XXIX, 1, gennaio-aprile 2012), dal quale ho ricevuto, per così dire, una sonora «sberla».
Il numero è dedicato alla figura di Giorgio Bertolini, monaco dell’abbazia di Chiaravalle milanese, recentemente scomparso, propiziatore tra l’altro della «Cattedra di teologia monastica e spiritualità cistercense», istituita a Chiaravalle nel 1995. In sostanza, poi, il fascicolo raccoglie una serie di lezioni della «Cattedra», quasi tutte dovute a Inos Biffi, professore ordinario emerito di teologia sistematica e di storia della teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e la Facoltà di Teologia di Lugano. Ed è proprio da mons. Biffi che ho preso la «sberla» di cui dicevo, nello specifico dal suo contributo Attualità e «inattualità» del carisma monastico (in alcuni passaggi sembra di leggere gli appunti per una lezione, più che una vera lezione, nondimeno ho apprezzato la totale assenza di «giri di parole»).
Già le precisazioni da cui prende le mosse sono interessanti: il carisma monastico è al tempo stesso attuale e inattuale perché da un lato ha un valore permanente («sottratto alle varie volubilità dei gusti e dei giudizi»), dall’altro perché tale valore è antitetico a ciò che domina nell’epoca presente; per carisma monastico, inoltre, va intesa la «forma di esperienza cristiana qual è vissuta in monastero». La precisazione di mons. Biffi mi è chiara da tempo: «Sarebbe molto riduttivo far coincidere il carisma monastico con gli scritti monastici. La maggior parte dei monaci non ha scritto. Né, per questo, dovremmo concludere che si tratti di monaci meno riusciti».
La scelta monastica – che rientra nella categoria del «mistero» e non risulta da una «motivazione» – è «un risalto di singolare intensità nella pratica dell’assolutezza della sequela del Vangelo». Lungo la sua via, il monaco «esaspera» i consigli evangelici e predica la precarietà di ciò che non è in relazione con Dio, e, nel far questo, si pone sul fronte opposto alla secolarizzazione, che «è l’autosufficienza dell’uomo e di quanto gli conviene». Occorre stare attenti a non rileggere il monachesimo da premesse antropologiche, poiché ciò sarebbe in linea proprio con la secolarizzazione, e il suo carisma non va «confuso come una ricerca di compensazione non tanto religiosa quanto psicologica». «Il tempo del risveglio monastico», ammonisce mons. Biffi, «può accompagnarsi con quello dell’equivoco monastico, e allora non sarebbe più un carisma, ma una pretesa e una appropriazione».
La lezione prosegue, illustrando attualità e inattualità della teologia monastica in rapporto a quattro momenti cruciali – Cristo, Scrittura, liturgia e Chiesa –, con tanto di veemente presa di posizione contro «l’insipiente e insidiosa invadenza di un [certo] ecumenismo», ma mi fermo qui e mi riprometto ancora maggior prudenza, ricordando che qualche tempo fa avevo parlato proprio di «appropriazione indebita» a proposito dei miei pensierini. È vero che ho ascoltato, anche di recente, voci diverse, tuttavia non posso negare che la tesi di mons. Biffi sia chiara e credo che possa essere discussa soltanto dall’interno, da un monaco, e non da un secolarizzato quale sono.
Semmai, il secolarizzato opinerà che l’«inconsistenza e vanità di una simile concezione [l’autosufficienza dell’uomo] non ha bisogno di essere provata»: e perché no? E opinerà anche che «l’esperienza della secolarizzazione stessa non manca di avvertire dentro di sé un’insoddisfazione e depressione, una specie di estenuazione, di smarrimento, che sembrano essere un indizio della natura e del bisogno telogico dell’uomo»: ma chi lo dice? In base a quali elementi? L’attenzione nei confronti delle «appropriazioni indebite» dovrebbe essere biunivoca.