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«Finisco un attimo e arrivo»

Anche quest’anno al Salone del Libro di Torino ho fatto il mio giretto dagli editori che ospitano nel loro catalogo «cose monastiche». La borsa l’ho riempita, devo dire. In particolare mi sono trattenuto a lungo allo stand, piccolo ma dall’altissimo peso specifico, del Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto (CISAM). Quivi ho «sbavato» con dignità sugli strepitosi volumi di «De re monastica», serie della collana «Incontri di studio» che raccoglie atti di convegni internazionali dedicati, come si può intuire, a tale argomento. Alla fine ho comprato (courtesy of sconto fiera offerto dall’editore) Nascita di una signoria monastica cistercense. Santa Maria di Chiaravalle di Fiastra tra XII e XIII secolo, di Francesco Renzi, e Teoria e pratica del lavoro nel monachesimo altomedievale, a cura di L. Ermini Pani, quarto volume di «De re monastica», appunto, con gli atti dell’omonimo convegno tenutosi a Roma e a Subiaco nel giugno del 2013 – uno spettacolo testé pubblicato.

A casa, poi, tutto contento, mi sono messo a leggere quest’ultimo e all’inizio del contributo d’apertura, di Alba Maria Orselli, intitolato Del lavoro monastico – o dei monaci e il lavoro?, mi sono imbattuto in questa frase: «Passata attraverso l’assidua frequentazione delle origini del monachesimo cristiano, […] e ad ogni modo attenta alla prescrizione impreteribile dell’autosostentamento grazie al lavoro delle proprie mani, […] come uno degli elementi costitutivi del profilo del monaco, ero rimasta a suo tempo colpita, e non del tutto favorevolmente, dalla lettura proposta da Carlo Ginzburg nella einaudiana Storia d’Italia del monaco Equizio, il celeberrimo protagonista di una celeberrima pagina dei Dialogi gregoriani».

Urca, celeberrimo e celeberrima, senso di colpa istantaneo. Sono andato subito a vedere. L’abate Equizio è protagonista del capitolo quarto del libro primo dei Dialoghi di Gregorio Magno (composti alla fine del VI secolo) e merita senza dubbio una nota tutta sua. Qui, in relazione al tema del convegno, cioè il lavoro, è bello riportare questa «fotografia».

Giuliano, nobile e dotto emissario del papa, si reca presso il monastero di Equizio, nella campagna romana, per condurre l’abate a Roma «affinché apprenda quale sia l’autorità della norma ecclesiastica». Non lo trova, così chiede ai confratelli («alcuni copisti che trovò intenti a scrivere») dove sia, «e quelli gli risposero che stava falciando il fieno nella valle sottostante al monastero». Da non credere. Così, Giuliano chiama il suo servo, «arrogante e insolente», e lo spedisce a cercare Equizio. Quello parte, bello determinato, ma a mano a mano che si avvicina all’abate contadino comincia a tremare, tanto che quando lo raggiunge gli si butta ai piedi, gli abbraccia le ginocchia e lo informa che il suo padrone è venuto da Roma e desidera parlargli.

Ed Equizio? Equizio, tranquillo, «calzato con scarpe chiodate e con al collo la falce per il fieno», lo saluta e gli dice: «Prendi il fieno verde e portalo da mangiare ai cavalli con i quali siete venuti. Ecco che io, dato che resta poco, finisco il lavoro e ti seguo».

(Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), a cura di S. Pricoco e M. Simonetti, vol. I, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 2005, p. 41.)

 

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Monaci de menare

Credo sia sufficientemente chiaro come abbia il massimo rispetto per i testi della tradizione monastica (per quelli di quasi tutte le tradizioni, in realtà). Qualche volta, tuttavia, la tentazione di una lettura «moderna» e un po’ disincantata è forte, soprattutto nel caso delle agiografie («L’agiografia è un continente vastissimo. Ognuno può scegliervi, secondo le sue preferenze, o la tesi che vuole provare, o i testi che gli sono utili», dice Jean Leclercq). Ecco dunque una storia di fronte alla quale ho ceduto. È uno dei «miracoli» di Benedetto da Norcia, ed è raccontato da Gregorio Magno nel secondo libro dei suoi Dialoghi, la Vita di san Benedetto appunto (capitolo 4).

In uno dei monasteri che Benedetto ha fondato dalle parti di Subiaco c’è un monaco che durante la preghiera comune si distrae sempre. Non riesce a rimanere inginocchiato nell’oratorio e se ne va a spasso per l’abbazia dedicandosi ad altre attività. L’abate Pompeiano è preoccupato, lo rimprovera, lo porta pure al cospetto di Benedetto, che lo ammonisce aspramente, ma quello niente: dopo due giorni di obbedienza, il terzo giorno, di nuovo, se ne va «in giro a fare altro». Benedetto allora, messo al corrente, prende l’iniziativa: «Verrò io personalmente a correggerlo».

Arrivato al monastero, e giunta l’ora della preghiera, Benedetto scopre subito la a causa di tale comportamento: infatti «vide che un negretto [niger puerulus] trascinava fuori, prendendolo per il lembo della veste, quel monaco che non riusciva a fermarsi a pregare». Chiama Pompeiano e il suo confratello Mauro e dice loro: non vedete di chi è la colpa? È l’antico avversario, non lo vedete? Ma loro no, non vedono niente. Benedetto invoca allora il Signore e dopo un paio di giorni Pompeiano ancora niente ma Mauro sì, lo vede. Così, il terzo giorno, Benedetto si piazza fuori dell’oratorio e quando il monaco distratto fa per uscire, bam, gli assesta «un colpo di verga»: «E da quel giorno il negretto non ebbe più con le sue tentazioni alcuna influenza su di lui che rimaneva immobile a pregare». Come se a essere percosso fosse stato proprio lui, commenta Gregorio, il demonio non si azzardò più a infastidire il monaco. Certo, come se.

La storiella è significativa anche perché offre il più classico esempio di ambiguità della traduzione. Mi interessa molto, infatti, ciò che il monaco distratto va a fare invece di pregare insieme con i confratelli. Il testo latino dice: «Ipse egrediebatur foras et mente vaga terrena aliqua et transitoria agebat». La mente vaga e le cose terrena et transitoria sono il punto cruciale. La traduzione a cura dei padri benedettini di Subiaco (pubblicata da Città Nuova) risolve così: «Egli se ne usciva e, con la mente svagata, si occupava di cose materiali e futili», mentre la traduzione di Manlio Simonetti (edizione Fondazione Valla / Mondadori) recita: «Egli usciva fuori dell’oratorio con la mente occupata da pensieri vaganti, futili e mutevoli» (in cui, tra l’altro, si perde completamente l’agebat, cioè il fare). Molto diversa, invece, la resa di Giovanni Bellardi (pubblicata da Jaca Book): «Se ne usciva fuori e con la mente rivolta ora a una cosa ora a un’altra si occupava di faccende riguardanti la nostra terrestrità quotidiana». Forse si spinge un po’ troppo in là (quanto ci possiamo riconoscere, però, in quella terrestrità quotidiana…), il Bellardi, ma secondo me coglie un aspetto fondamentale.

C’è una bella differenza, infatti, tra un monaco, un uomo, che si gingilla con pensieri futili e mutevoli e va in giro annoiato, e un monaco, un uomo, che non riesce a star fermo (come certi scolari) e che preferisce andare, chessò, a spazzare il chiostro, a riparare il pozzo o a preparare le verdure per i confratelli… cose effimere, certo, ma tutt’altro che futili.

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Scolastica e Benedetto

Siamo nel 547 (o nel 543, o forse nel 553). Come ogni anno Scolastica, monaca sin dalla primissima età, va a trovare il fratello Benedetto, venerabile abate di Montecassino. L’incontro ha luogo in una piccola proprietà dell’abbazia, non lontana dalla porta. Benedetto scende dalla collina e raggiunge la sorella, accompagnato da alcuni discepoli. La giornata, una splendida giornata di sereno, passa in «colloqui spirituali». Si fa sera e viene l’ora di mangiare. È tardi ormai, ma, mentre sono ancora a tavola, Scolastica, gravata da un presentimento, s’interrompe e supplica il fratello: «Ti prego, non lasciarmi questa notte, rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste».

Benedetto s’irrigidisce: «Quid est quod loqueris, soror? Che dici mai, sorella? Non posso assolutamente trattenermi fuori del monastero». Di fronte al rifiuto, Scolastica «pone sulla tavola le mani con le dita intrecciate e abbassa il capo tra le mani per invocare il Signore onnipotente». Improvvisamente scoppia un temporale. La pioggia è violentissima e comincia a scrosciare nello stesso istante in cui la monaca rialza il capo con gli occhi gonfi di lacrime. Benedetto è molto seccato: la Regola, la Regola che ha scritto lui, gl’impone di rientrare, ma non può; ed è anche turbato, per il gesto della sorella: cos’hai combinato, sorellina? Che Dio ti perdoni… «Vedi», gli risponde Scolastica, «io ti ho pregato, e tu non hai voluto ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed Egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e torna al monastero.»

Ma è impossibile uscire, e Benedetto è costretto a restare. Fratello e sorella passano la notte insieme, vegliando e «scambiandosi discorsi di vita spirituale». Al mattino si salutano e fanno ritorno ai rispettivi monasteri. Tre giorni dopo Benedetto ha una visione: sua sorella è morta. Manda alcuni confratelli a prelevare il corpo, «per deporlo nel sepolcro che egli aveva preparato per sé».

Tradizionalmente, la morte di Scolastica è stabilita il 10 febbraio. Benedetto muore il 21 marzo successivo, e le viene seppellito accanto. Il 6 febbraio 547 la Regola fu sconfitta dall’amore, di una donna: «Dato che, come dice Giovanni, Dio è amore, per giusto giudizio poté di più colei che amò di più».

(La storia è raccontata da Gregorio Magno, nel secondo libro dei suoi Dialoghi, al capitolo 33. Ho mescolato alcune delle molte traduzioni disponibili.)

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