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Andrea Carobene, «Diario di un monaco del XXI secolo» (pt. 2)

(la prima parte è qui)

Il capitolo del libro di Andrea Carobene forse più riuscito è il quarto, «IV settimana di Avvento», che prende le mosse da questa affermazione: «Credo che la fisica, quella che va sotto il nome di “teoria delle stringhe”, sia oggi lo strumento più potente per percepire le vibrazioni di Dio nell’universo. Credo che questa teoria, ancora da dimostrare e da verificare, ci possa davvero illuminare su cosa aveva in mente Dio nel creare l’universo. È la fisica di oggi la preghiera più potente che sta svelando il pensiero di Dio sul cosmo». Dopodiché l’immaginario «fisico e certosino» torna sull’«esperimento delle due fenditure», sulle relative considerazioni di Feynman e sulla conclusione: è impossibile la certezza, è certa la probabilità. «Oggi la scienza dice che, data una certa particella, non si può dire se questa passerà dalla fenditura A o dalla B. Si può però dire, su 10.000 particelle, quante passeranno dalla fenditura A e quante dalla B». Questa impossibilità non è legata a un difetto di conoscenza, è bensì intrinseca alla «natura delle cose», e «il determinismo della fisica classica si è spostato dal comportamento della singola particella al comportamento di un insieme di particelle le cui probabilità variano seguendo le leggi della fisica».

Il passaggio dalla certezza della probabilità all’impossibilità della singola previsione, mi pare di aver capito, coincide con l’osservazione del fenomeno, e si porta dietro la questione  delle «storie possibili» e degli universi alternativi aperti dalla meccanica quantistica. «A ogni lancio di un fotone, l’universo si biforca… Due universi per ogni scelta, per ogni decadimento: due porte che conducono a due mondi radicalmente differenti», Carobene richiama qui per analogia le due porte del Deuteronomio (30:15-16): a ogni momento ci troviamo di fronte a biforcazioni  possibili delle nostre esistenze, piccole e meno piccole, e le scelte fatte si stratificano, influenzano quelle ancora da compiere, «il passato non si dimentica ma si attualizza nel presente, allo stesso modo con il quale la scelta di una particella di entrare o passare per una delle due fenditure diventa quasi vincolante per quelle che seguono». Nulla passa senza lasciare traccia, e il monaco scienziato addita come simbolo supremo di ciò le piaghe di Gesù Cristo, simbolo di tutte le ferite della storia, quella minuscola e quella maiuscola, e che si chiuderanno soltanto alla fine.

Carobene prosegue il suo discorso passando in rassegna il «principio di minima azione», i «diagrammi di Feynman» e la funzione d’onda, esplorando le relazioni tra previsione di un fenomeno, sua probabilità e suo effettivo accadere, per approdare infine alla cruciale antitesi tra ordine e caso. Già, la domanda di sempre, principio ordinatore o pura combinazione? Durante la lettura ho annotato parecchie volte a margine il mio dissenso, che tuttavia mi pare irrilevante e spesso contraddittorio. Semplicemente non frequento queste analogie avventurose, che mi sembrano rientrare più nel campo dei «giochi verbali». Tali giochi sono tutt’altro che vani e sono parte di quello che forse è il nostro essere, ma mi piace esplorare, come in un esperimento mentale, la possibilità di un tranquillo rifiuto della cosiddetta «sete di infinito», che l’autore, e non soltanto lui, connette alla ricerca scientifica. Nel mio tempo a scadenza altri universi non sono dati (a stento è dato questo), l’idea di spazi a 26 dimensioni è una frase su un foglio e Achille sorpassa la tartaruga in una frazione di secondo. Non è un rifuto ideologico, è soltanto un’ammissione di incapacità, un tentativo.

Forse non c’entra molto, ma mi viene comoda per concludere una citazione di Fernando Pessoa (fresca perché è stata una rilettura contemporanea): «Risolviamo bruscamente, con il sentimento, i problemi dell’intelligenza, e lo facciamo per la fatica di pensare, oppure per la timidezza di trarre  conclusioni, o per l’assurda necessità di trovare un appoggio, o per l’impulso gregario di far ritorno agli altri, alla vita. Perché non possiamo mai conoscere tutti gli elementi di una questione, non la potremo mai risolvere. Per raggiungere la verità ci mancano dati sufficienti, e processi intellettuali che esauriscano l’interpretazione di quei dati».

(2-fine)

Andrea Carobene, Diario di un monaco del XXI secolo, Città Nuova 2013.

 

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Andrea Carobene, «Diario di un monaco del XXI secolo, fisico e certosino» (pt. 1)

Visto, preso, letto. Anche se la probabilità (o forse il desiderio) che la premessa del libro fosse vera era molto bassa sin da principio, il tenore della nota biografica dell’autore, una ricerca in rete e una esplicita richiesta alla casa editrice l’hanno azzerata. D’altra parte, come resistere a un titolo del genere? A un incipit che recita: «Sono diventato monaco per immergermi nell’infinito, ma mi sono perso… Sono un certosino, ed ero un fisico»? Va detto che un vero monaco probabilmente non avrebbe mai pubblicato così un tale volume, i certosini e le certosine sono noti per firmare opere, traduzioni e curatele con la formula «a cura di un certosino».

L’operazione di Andrea Carobene è tuttavia interessante: immaginare che un ricercatore di fisica delle particelle a un certo punto si faccia monaco e, su invito del padre superiore, provi a illustrare la continuità che può sussistere tra i due campi di esperienza. Esperienza di conoscenza, che è l’intento principale del volume; esperienza emotiva, che è l’impressione che ne ho ricavato io. Il ponte tra i due campi mi è parso, infatti, affidato al sentimento, di meraviglia e di mistero, più che allo sfumare delle conseguenze di alcune teorie scientifiche, dei loro paradossi e dilemmi, nelle elaborazioni del pensiero teologico e nei territori della fede. Ho sempre avvertito un salto logico tra un tipo di discorso e l’altro, il ponte per me è interrotto, ma questo, come si suol dire, è un problema mio, e delle mie limitazioni, in un campo e nell’altro.

Il volume, che ha la forma di un diario che segue i tempi liturgici di un anno, alterna l’esposizione divulgativa e ben fatta di varie questioni scientifiche a riflessioni, spesso di tono ispirato, sui principi e sui misteri della fede. Il ripasso prevede la matematica degli infiniti, e del transfinito, di Cantor, i paradossi di Zenone e le particolarità di √2; gli studi sulla luce e l’«esperimento delle due fenditure di Feynman»; Rutherford, Bohr e il modello atomico; la meccanica quantistica e le «storie» e i diagrammi di Feynman»; la funzione d’onda, l’equazione di Schrödinger (che «è considerata una delle più belle di tutta la fisica e costituisce un monumento all’intelligenza umana») e le relazioni di Heisenberg; e infine la teoria dei mondi possibili e la teoria, anzi le teorie delle stringhe, cui è dedicato ampio spazio (e che, ci ricorda l’autore, chiamiamo così in virtù di un clamoroso anglicismo, trattandosi più correttamente di strings, cioè corde).

Non mi avventuro al di là di questo elenco (con la divulgazione scientifica mi capita sempre così: grande entusiasmo e impressione di capire, seguiti da incapacità di ripetere), mi limito a dire che Carobene deriva in modo non banale da ogni esposizione scientifica considerazioni circa la posizione dell’essere umano nell’universo, i limiti del suo pensiero, l’interconnessione dei fenomeni, l’impossibilità di aderire a un puro determinismo (Laplace confutato dalla meccanica quantistica), il bisogno di spiegare e la sete di infinito. È la scienza più avanzata che ci spingerebbe alla fede, nell’atmosfera rarefatta delle equazioni e dei modelli più sofisticati si può compiere il passo decisivo verso Dio e verso l’unicità di ogni singola esistenza. Il comportamento probabilistico delle particelle – la loro «memoria», il loro «annusare» – è quanto di più simile a noi.

(1-continua)

Andrea Carobene, Diario di un monaco del XXI secolo, fisico e certosino, Città Nuova 2013.

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