A un certo punto di un suo breve testo di presentazione del carisma certosino, il grande studioso del monachesimo, e monaco trappista, André Louf dedica un capitoletto al tema del «deserto»1. L’esperienza del quale, che ha nell’Esodo il suo paradigma, può suscitare, anche oggi, entusiasmo – la solitudine tanto ricercata e finalmente raggiunta –, ma solo per un tempo assai breve. Passato appunto l’entusiasmo iniziale, è «la tentazione che attende inesorabilmente» il monaco chiuso nella sua cella: «L’assenza di distrazioni esteriori ributta il solitario addosso a se stesso, riaccendendo i desideri fino a quel momento inconfessati che brulicano ancora nel suo cuore, e che ora si rivelano realmente inconfessabili». Nel silenzio esplode come un bomba la fragilità dell’individuo e «tutte le sue illusioni e i suoi miti» (le storie che ci raccontiamo) si sgretolano.
Per illustrare questo fenomeno, Louf cita estesamente la testimonianza di un giovane certosino anonimo: «Il deserto è un fuoco purificatore. Nella solitudine ciò che siamo veramente viene in superficie. Tutte le bassezze… tutto il male…», ecc. Diventa impossibile nascondere, dissimulare, sorvolare sulle sgradevolezze, e «risulta evidente come con troppa facilità ci giustifichiamo, considerando le nostre mancanze al pari di tratti del carattere». Niente più scappatoie, niente più distrazioni, niente più artifici: ci viene sbattuta in faccia «la nostra miseria senza rimedio». E alla fine di questo cammino buio e doloroso, secondo il giovane monaco, c’è Dio ad attenderci. A quel punto siamo così svuotati, domati, trasformati e malleabili, che Dio può compiere il miracolo: cavare dalla nostra miseria la meraviglia.
Per quanto consideri la vocazione alla solitudine, e per quanto possa concordare nel biasimare il «malcostume» di giustificare i propri difetti quali aspetti della propria personalità («Eh, cosa vuoi, sono fatto così»), devo confessare che, ogni volta che m’imbatto in questo tipo di accanimento, avverto un moto di irritazione. Non è forse possibile anche nel «mondo» riconoscere le proprie debolezze? Non ci pensa spesso (più che spesso) proprio il mondo a farle emergere, a sbattercele in faccia? Non è possibile riconoscere anche là fuori, in mezzo agli altri, le bugie che ci raccontiamo e smascherarle? Non sono proprio gli altri che spesso sono decisivi per smantellare illusioni e miti privati?
Anche per un miscredente, poi, si tratta di un «cammino di verità» (distrazioni comprese), anche se in fondo al quale non c’è nessuno ad attenderlo. O forse invece sì, qualcuno c’è, visibile.
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- André Louf, Saint Bruno et le charisme cartusien aujourd’hui, Editions Parole et Silence 2009, pp. 45-53.
All’interno del volume antologico La vita spirituale di André Louf1, monaco trappista, abate e luminoso scrittore di cose, appunto, spirituali, ci sono tre saggi dedicati specificatamente alla vita in comunione, saggi che, come dice Enzo Bianchi nella prefazione, oltre a trarre valore da una lunghissima esperienza di abbaziato (35 anni presso l’abbazia di Mont des Cats nella Francia del Nord), contengono «elementi di sapienza in cui anche chi si professa non credente potrà trovare spunti a cui attingere per una vita sensata, unificata, riconciliata».
