I nostri piccoli pensierini (Dice il monaco, CXXV)

Dice Grimlaico, monaco sedicente «recluso» in diocesi di Metz, intorno al 900, utilizzando per così dire metaforicamente una delle immagini più feroci dei Salmi:

Satana non sa da quale passione l’anima può essere sedotta. Questo è il motivo per cui vi semina le sue erbacce [zizania sua]. A volte semina il seme della fornicazione; altre volte quello della mormorazione o di altri vizi. Fa lo stesso con le passioni, e qualunque passione vede girare intorno a una persona [videt animum declinare], continua a mandarla. Ora, nulla vanifica gli sforzi del demone come lo smascherare i suoi stimoli, e niente lo rende così felice come quando i suoi pensieri sono tenuti nascosti. Dato che il nostro Signore Gesù Cristo ci ha dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni, vale a dire i cattivi pensieri [serpentes et scorpiones, hoc est malas cogitationes], dobbiamo purificare i nostri cuori per mezzo di un’umile confessione e sbattere questi piccolini, i nostri pensieri [parvulos cogitatus nostros], contro il Cristo, poiché quello che è scritto è detto di noi: «Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra» [Salmi, 137, 9], e anche: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

♦ Grimlaico, Senza che si oda la loro voce. Regola per eremiti, 64, a cura di p. M. Di Monte, traduzione di A.J. Casiraghi e M. Di Monte, Monasterium 2020, p. 219.

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La salute delle loro persone (Voci, 37)

 Anno a Domini millesimo quadringentesimo trigesimo nono, statuta sunt haec apud Cistercium in Cisterciensis Ordinis Capitulo generali, cioè questi sono gli Statuti del Capitolo Generale dei Cistercensi riunitosi a Cîteaux nel 1439 (definizione generale 26).

* * *

Poiché quasi tutti gli abati dell’Ordine sopportano malvolentieri e si lamentano di dover partire per il Capitolo Generale in un momento in cui sono presi dalle messi, dalla vendemmia, dalla semina delle terre e dalla raccolta degli altri beni di cui si vive durante tutto l’anno, e dato che il tempo stesso in cui viene celebrato il Capitolo Generale sembra il meno opportuno perché, di solito, in quella stagione quasi dappertutto infieriscono pestilenze e guerre, e in alcun modo è sicuro per nessuno, in particolare per religiosi ecclesiastici, attraversare i campi e viaggiare in regioni lontane, il presente Capitolo Generale vuole provvedere con lungimiranza alla prosperità e alla pace dei monasteri dell’Ordine e alla tranquillità degli abati e alla salute delle loro persone. Considerate le ragioni e le cause sopra esposte, seriamente proposte dai suddetti abati, e avendo infine considerato che se, per l’avvenire, il Capitolo Generale venisse celebrato durante i tre giorni delle Rogazioni [fine aprile], ai suddetti abati non rimarrebbe alcun pretesto per esentarsi, perché con certezza i giorni delle Rogazioni cadono sempre nel tempo in cui i giorni sono propizi a cavalcare o a camminare, dal momento che né il calore eccessivo né il freddo prevalgono; e considerato anche che tutti gli abati di qualsiasi nazione, partendo dai propri monasteri dopo la festività della Pasqua, possono raggiungere Cîteaux prima dei giorni delle Rogazioni e, poi, ritornare ed essere presenti nei loro monasteri per la raccolta dei frutti; e poiché in questa stagione non cominciano ancora a infierire le pestilenze, le sementi della terra non sono ancora mature e non è giunto il tempo in cui i re e gli armati sogliono uscire in guerra, il Capitolo Generale stabilisce, ordina, definisce che d’ora in poi il tempo e il termine per celebrare l’annuale Capitolo Generale venga mutato e anticipato ai suddetti giorni delle Rogazioni, e d’ora in poi modifica e trasferisce allo stesso termine e tempo che, secondo la Carta di Carità e gli altri statuti dell’Ordine, sia apostolici che regolari, si celebri annualmente e indefettibilmente presso Cîteaux, come è stato celebrato finora, il Capitolo Generale, al quale, secondo il tenore dei suddetti statuti, saranno tenuti a partecipare tutti gli abati dell’Ordine. Il primo giorno del Capitolo, che soleva essere il giorno 12 del mese di settembre, sarà il primo giorno delle Rogazioni, in qualsiasi mese possano ricorrere i suddetti giorni, e in quel primo giorno si celebreranno due messe in ogni monastero dell’Ordine, la prima delle quali sarà per il digiuno e la seconda per l’ingresso nel Capitolo dello Spirito Santo, e successivamente si celebreranno trenta giorni dopo la fine del Capitolo, come tutte le altre cose che sono state osservate finora saranno osservate dopo la fine del Capitolo stesso. Il presente Capitolo Generale comanda severamente a tutti e a ciascuno degli abati dell’Ordine, pena la disobbedienza e le altre pene stabilite nei suddetti statuti pubblicamente noti, di partecipare al Capitolo; inoltre cancella, annulla e revoca qualunque esenzione o grazia sia stata concessa a qualcuno di essi, ordinando che si presentino personalmente per il giorno delle Rogazioni al Capitolo che si celebrerà a Cîteaux, oppure, essendone impediti da una delle circostanze stabilite dagli statuti, vi mandino qualcuno che, legittimamente, possa lavorare alla necessaria riforma dell’Ordine stesso e accettarne le decisioni sul modo di difendere i privilegi, le libertà e i diritti dell’Ordine, che – ahinoi! – vengono minacciati ovunque e sono soggetti a una lamentevole desolazione.

♦ Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis ab anno 1116 ad annum 1786, t. IV, a cura di J.-M. Canivez, Louvain 1936, pp. 468-470. Citato parzialmente in Federico Farina e Igino Vona, L’organizzazione dei Cistercensi nell’epoca feudale, Edizioni Casamari 1988, pp. 157-58. (Chiedo comprensione per le parti, poche, che ho tradotto io.)

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L’ebbrezza di Dio (La «Scala del divino amore»)

 Già il fatto che questa «gemma della letteratura mistica occitana» ci sia pervenuta grazie a un unico manoscritto (ora alla British Library) esercita su di me, lettore moderno, un’intensa seduzione e provoca una vaga forma di nostalgia – nostalgia per tutto quanto è andato invece perduto e che non potrò, quand’anche ne avessi il tempo, mai leggere. Se poi si considera l’implicita e profonda «rivalutazione» del mondo fisico (la «redenzione della natura», com’è definita nell’introduzione) che percorre queste pagine, un atteggiamento di esatta derivazione francescana, si può capire il trasporto prodotto dalla lettura di un’opera soltanto apparentemente minore. La Scala del divino amore1, infatti, breve trattato databile intorno al 1300 scritto da un terziario francescano di tendenza «spirituale» (dalle parti di Pietro di Giovanni Olivi), celebra la presenza sublime di Dio come la si può percepire nelle sue creature; per la precisione la dolcezza, la soavità, il profumo, l’armonia e la bellezza al massimo grado come possono essere colte mediante i cinque sensi – cinque sensi che, prima di essere spirituali, sono appunto quelli fisici: rispettivamente gusto, tatto, odorato, udito e vista, il più nobile: «Affermo infatti che in ciascuna delle creature che si trovano sotto il cielo vi è dolcezza da assaporare, soavità e profumo da sentire, canto da udire, bellezza e candore da vedere».

La «scala» è composta da cinque gradini, i cinque sensi, salendo correttamente i quali si può fare esperienza della bellezza presente in tutte le cose (declinate nei quattro elementi fondamentali: «Affermo che tutte le creature di questo mondo sono composte di terra, d’acqua, d’aria e di fuoco, e che in ciascuno di questi quattro elementi vi è dolcezza, soavità, profumo, melodia di canto, bellezza e candore»), ascendendo al Palazzo d’amore e avvicinandosi progressivamente a Dio, origine eterna e inesauribile di quella bellezza. Nella Scala convergono una quantità di spunti e suggestioni derivanti dalla letteratura patristica (la scala di Giacobbe, tanto per dirne una), come dalla spiritualità del beghinaggio, come ancora dalla poesia trobadorica (l’«officio d’amore») o dai bestiari medioevali o dalla trattatistica dei teologi cistercensi, e così via.

Al di là di tale stupefacente intreccio di temi, di cui peraltro dà conto l’eccellente introduzione di Francesco Zambon, quello che colpisce subito, appena dopo il prologo, è l’evidenza, la concretezza della «bontà» del mondo restituita dalle immagini che scorrono in queste poche pagine: «Affermo che nella terra vi è immensa dolcezza da assaporare, perché dalla terra spuntano le piante e dalle piante nascono i fiori e dai fiori si trae il miele. Inoltre dalla terra spuntano gli alberi e dagli alberi nascono i frutti che sono così dolci»… E poi, in un flusso ininterrotto: gli altri cibi squisiti di cui vive l’uomo, la dolcezza della rugiada, quella del fuoco che cuoce i cibi (che sono sgradevoli quando sono crudi), l’acqua molle e soave al tatto (per questo ci si bagna così volentieri in essa), le erbe con cui si preparano condimenti e pomate (perché certamente il profumo delle spezie e degli unguenti e quello dei fiori e dei frutti non sarebbe profumo se dentro non vi fosse il profumo di Dio), il calore che esalta gli aromi (le mele profumano molto più intensamente quando si tengono in mano di quanto non facciano dentro a una cassa), i metalli con cui si costruiscono le campane e il legno con cui si costruiscono le viole e i liuti, gli uccelli canterini ; e poi la luce, la luce! I colori, il sole, lo splendore delle stelle, la luce del giorno che ci consola della notte…

È nel capitolo dedicato all’udito (il quarto gradino) che l’autore si avventura in una serie di immagini arditissime, quando ad esempio parla della «ballata» che Dio ha incominciato creando il mondo, e che risuona nel cuore degli uomini, fatto appositamente «cavo e rotondo» e dal quale «escono vene che si diramano per tutto il corpo, più delicate e sottili che corde di viola». O quando, parlando del meraviglioso rumore delle onde del mare (la gran voce delle acque), afferma che «come le onde si rovesciano una sull’altra e fanno agitare il mare e sommergere le rive, così le onde dell’amore di Dio si scontrano e si rovesciano una sull’altra, facendolo agitare come un folle o un ubriaco [!] e riversarsi sulle rive, tanto da non rispettare più ragione né ordine né misura».

Tanto da non rispettare più ragione né ordine né misura.

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  1. Scala del divino amore, introduzione e traduzione di F. Zambon, commento e note complementari di C. Di Fonzo, Paoline 2019.

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Sollievo e carta velina

Circostanza forse voluta, forse no, sulle pagine 4 e 5 dell’«Osservatore romano» di ieri, 1° febbraio 2025, per la XXIX Giornata mondiale della vita consacrata, sono apparsi due articoli che, se così si può dire, volgono lo sguardo rispettivamente al monachesimo di domani e a quello di ieri.

Il primo è firmato dalla neo-Prefetta del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica s. Michela Brambilla1 e si concentra in particolare sul significato e sulla vitalità del carisma di «Ordini e Congregazioni, Società di vita apostolica, Istituti secolari, come pure Associazioni, Movimenti e Nuove Comunità». Non si può peraltro non sottolineare come «da qualunque prospettiva lo si voglia vedere, il momento storico c’è: per la prima volta in duemila anni una donna assume un ruolo di tale importanza all’interno della Curia vaticana, posizione in passato esclusivamente riservata a uomini»2. Infermiera e poi dottoressa in Psicologia, missionaria della Consolata (particolari nient’affatto secondari), s. Michela Brambilla è chiamata a dirigere un ente che supervede una galassia «di più di 800.000 religiosi e religiose, con le comunità femminili che rappresentano oltre due terzi».

La Prefetta sceglie di illustrare il concetto di «corpo carismatico», e le parole d’ordine odierne di sinodalità e di chiesa in movimento, con l’immagine usata dal papa, non nuovissima ma sempre efficace, dell’orchestra sinfonica. Il carisma non è un’istanza immobile, bensì qualcosa che deve fluire in ogni parte del «corpo»: «Nel “corpo carismatico” circola ciò che i membri immettono. Ogni nostro atto e parola, ogni nostro pensiero e sentimento è energia che percorre la fitta rete dei nostri rapporti, e arriva a interessare tutti, perché tutti siamo uniti in un solo corpo, irrorati dallo stesso sangue del carisma vivo. Nessuna parola, nessun gesto, nessun pensiero e sentimento sono neutri: ogni espressione vitale ha conseguenze, nel bene e nel male». Dunque un’orchestra in cui ogni strumento contribuisce col suo timbro, in cui ci sono parti soliste e parti d’insieme, in cui ogni musicista deve ascoltare gli altri e in cui un direttore ascolta più di tutti ed è al servizio dell’«esecuzione» generale. La metafora è, si diceva, efficace; se tuttavia la direttrice guiderà l’orchestra sulle partiture note dei «grandi classici», se spingerà talvolta verso i maestri del ’900, o se addirittura azzarderà qualche «prima esecuzione assoluta» la Prefetta, giustamente, per il momento, non dice.

Nel secondo articolo Flaminia Chizzola racconta di una conversazione con s. Francesca Battiloro, visitandina campana che ha appena festeggiato i 75 anni di professione religiosa3. È una voce che proviene da un altro tempo, si direbbe da un’altra dimensione, e che tuttavia non lascia indifferente nemmeno l’inveterato miscredente. Al di là della storia individuale assai singolare («Sono stata cresimata a 2 anni. A 6 ho fatto la prima comunione. A 8 sono entrata in monastero e a 16 anni ho fatto i voti solenni»), a colpire sono le parole dell’anziana monaca, praticamente immobilizzata e cieca e che ha trovato rifugio in una casa di riposo delle suore della Carità, dopo che il monastero di cui era superiora è stato chiuso («ma di questo la suora dalle mani di carta velina non vuole parlare»). Incalzata dalle domande della giornalista che vuole sapere della clausura e delle sue limitazioni, dell’obbedienza cieca, della passività, dell’anacronismo di certe prescrizioni, dell’accettazione a oltranza, s. Francesca risponde con «indistruttibile calma»: «“La clausura è clausura sempre. Bisogna chiedere il permesso a chi sta sopra”. E se quelli più in alto sbagliano? “Dio si serve di tutto, anche degli errori degli uomini per fare la Sua volontà”. Ma perché accettare tutto, anche gli errori? Perché dipendere sempre da qualcuno? “Tutti noi dipendiamo da Dio”. Da Dio, non dagli uomini. “La Chiesa è la sposa di Dio”. E se la sposa sbaglia? “La sposa fa sempre ciò che desidera lo sposo”. E se non lo fa? “Allora sarà lo Sposo ad agire, non noi”». Testimone sopravvissuta di una fede senza incertezze né delusioni e immutata nel tempo (anzi, fuori di esso), l’anziana monaca attende la fine con serenità («“Io accetto tutto dalle Sue mani”. Tutta questa sofferenza, questa solitudine, passar intere giornate senza parlare con nessuno? “Tutto è permesso da Lui e io mi fido del mio Sposo. Se non hai la fede non puoi andare avanti”») e il miscredente non può fare a meno di pensare, con una strana forma di umana partecipazione, che se avrà avuto «ragione» lei, sarà infine supremamente felice, se invece avrà avuto «torto», non ne avrà consapevolezza.

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  1. Michela Brambilla, mc, Laboratorio del «noi», «Osservatore romano» 1° febbraio 2025 pp. 4-5.
  2. Oltre i primati storici: il senso delle nomine al femminile di Francesco», in «Donne Chiesa Mondo», 141 (febbraio 2025), p. 4. «Alla nomina di Brambilla, Véronique Margron, religiosa delle domenicane della Carità della Presentazione e presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia, in una intervista a “La Croix” ha detto che ha provato “sollievo”: “Era anormale che nessuna donna avesse questo livello di responsabilità in Vaticano”».
  3. Flaminia Chizzola, 75 anni di matrimonio con Gesù, «Osservatore romano» 1° febbraio 2025 p. 5.

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Puliti a specchio (Dice il monaco, CXXIV)

Dice un Anonimo del XIII secolo, di ambiente francescano spirituale:

Inoltre, in ciascuna creatura di questo mondo vi è luce e bellezza in virtù di quella luce [divina], come dicono i santi e i sapienti di questo mondo e come tu puoi comprendere facilmente. Perché al mondo non vi è cosa tanto scura che, se la si pulisce bene, non ridiventi chiara e lucente: perfino le pentole e i paioli, qualora vengano puliti accuratamente, ridiventerebbero splendenti tanto da potervisi specchiare.

♦ Scala del divino amore, Quinto gradino, introduzione e traduzione di F. Zambon, commento e note complementari di C. Di Fonzo, Paoline 2019, p. 121.

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Le classifiche!

Per stemperare un po’ i toni dell’ultimo post, che era l’800° e che ha concluso una non programmata «striscia damianea», apro una breve parentesi «distensiva» di… classifiche di «cose monastiche» di cui ho almeno una vaga nozione. Tenendo conto che sono compilate a memoria, e che le mie conoscenze sono limitate, si giustificheranno le assenze anche clamorose.

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Top 10 – I monaci «preferiti» (forzando leggermente la definizione)

  1. Bernardo di Chiaravalle – Lo si potrebbe definire il «primo amore», quello da cui il mio interesse è partito.
  2. Benedetto da Norcia
  3. Pietro il Venerabile
  4. Romualdo
  5. Basilio di Cesarea
  6. Pacomio
  7. Gregorio di Nazianzo
  8. Gregorio di Nissa
  9. Pier Damiani
  10. Guglielmo di Saint-Thierry
  11. Aelredo di Rievaulx

Top 10 – Le monache «preferite»

  1. Teresa d’Avila – Forse la più grande di tutte (e di tutti), capaci di coprire tutto l’«arco costituzionale», dalla pura astrazione alla massima praticità.
  2. Chiara d’Assisi
  3. Catherine Mectilde de Bar
  4. Scolastica
  5. Caterina da Siena
  6. Caterina de’ Vigri, da Bologna
  7. Chiara da Montefalco
  8. Maria Maddalena de’ Pazzi
  9. Cristina l’Ammirabile
  10. Virginia Galilei

Top 5 – Gli Ordini

  1. Cistercensi
  2. Certosini
  3. Benedettini
  4. Camaldolesi
  5. Vallombrosani

Top 10 – I Padri e le Madri del deserto «preferiti»

  1. Abba Poemen
  2. Abba Pambo
  3. Abba Matoes
  4. Abba Sisoes
  5. Amma Teodora
  6. Abba Pafnuzio
  7. Amma Sincletica
  8. Abba Macario
  9. Abba Anub
  10. Abba Arsenio

Top 15 – I nomi più… «nomi»

  1. Odoranno di Sens
  2. Nalgodo di Cluny
  3. Poppone di Stavelot
  4. Otlone di Sant’Emmerano
  5. Facondino di Gualdo Tadino
  6. Braulione di Saragozza
  7. Smaragdo di Saint-Mihiel
  8. Incmaro di Reims
  9. Amalario di Metz
  10. Godescalco di Orbais
  11. Capreolo di Cartagine
  12. Gundlando di Saint-Riquier
  13. Marcardo di Prüm
  14. Leidrado di Lione
  15. Engelmodo di Soissons

Top 10 – Le abbazie che mi hanno colpito di più

  1. Abbaye de Lérins, Île Saint-Honorat (Cannes)
  2. Iona Abbey, Isle of Mull
  3. Abbaye du Mont-Saint-Michel (Normandia; come potrebbe non esserci…)
  4. Abbaye Notre-Dame de Sénanque, Abbaye de Silvacane e Abbaye du Thoronet (la grande triade delle «tre sorelle provenzali» che facciamo valere per una)
  5. Abbazia di Chiaravalle di Milano (anche per ragioni «sentimentali»)
  6. Colegiata de Santa Juliana, Santillana del Mar (Cantabria)
  7. Abbaye Saint-Pierre de Moissac (Occitania)
  8. Abbaye Saint-Wandrille de Fontenelle (Normandia)
  9. Monasterio de Santo Domingo de Silos (Burgos)
  10. Abbazia dei SS. Pietro e Andrea a Novalesa

Top 10 – I testi preferiti (del momento)

  1. La Regola di san Benedetto (per forza)
  2. Le Conversazioni con i Padri di Giovanni Cassiano
  3. I Detti e fatti dei Padri del deserto
  4. Le Regole lunghe e le Regole brevi di Basilio
  5. Le Lettere di Bernardo di Chiaravalle
  6. La Storia lausiaca di Palladio
  7. Gli Esempi e parole dei santi Padri teofori di Paolo Everghetinos
  8. Contro i pensieri malvagi di Evagrio Pontico
  9. Le Consuetudini della Chartreuse di Guigo I
  10. La Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx

Top 5 – I post più letti

  1. Francesco vs Benedetto
  2. «Sì, sono io che ti parlo» (Il «Colloquio interiore» di suor Maria della Trinità; pt. 3/3
  3. Tutti i Santi Monaci
  4. «Non occorre abitare in un monastero per vivere come un monaco»
  5. «Con le sue manj», il taglio dei capelli di Chiara d’Assisi

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Sfrontatello e delicato (Pier Damiani e la flagellazione)

LettereMonaciMontecassino A conclusione dell’ottimo volume delle Lettere ai monaci di Montecassino di Pier Damiani – ottimo soprattutto per la qualità della traduzione e dei lunghi cappelli introduttivi ai singoli testi – si legge la Lettera in lode della flagellazione e, come si suol dire, della disciplina1, breve testo violento e corrusco, sospinto, per usare un’espressione del curatore, «dal soffio della sua [di Pier Damiani] straripante ansia di mortificazione e di penitenza, anche corporale». Curatore, Aldo Granata, che spende non poche e assai rifinite pagine per «contestualizzare» (dal punto di vista storico, religioso e con un accenno anche alla psicoanalisi) una pratica, la flagellazione, e l’autoflagellazione nello specifico, «in altro modo difficilmente accessibile alla luce dell’odierne categorie mentali e del nostro concetto di religiosità».

L’occasione per lo scritto, datato 1069, è data a Pier Damiani dalla visita di un tal cardinale a Montecassino, durante la quale il porporato avrebbe spinto i monaci ad abbandonare la suddetta pratica penitenziale e remissiva, in particolare previo denudamento davanti alla comunità dei fratelli («Senza dubbio non si deve radicalmente disapprovare la macerazione del corpo mediante il digiuno, ma il denudare le membra sotto gli occhi di tanti fratelli che guardano è una cosa troppo vergognosa e ripugnante»).

Non sia mai! Tuona l’Avellanita. Ma come!? Volete seguire Cristo, come lui soffrire e crocifiggere le lusinghe della carne, e poi vi vergognate di spogliarvi e di battervi di fronte a tutti? Perché è importante notare come il discorso di Pier Damiani non separi mai i due momenti, anzi, a tratti sembri quasi concentrarsi di più sulla vergogna della nudità che sulle frustate (che, va ricordato, si contavano a decine, a centinaia e più: a Fonte Avellana, alla morte di un confratello, alcuni monaci offrivano per la salvezza della sua anima sette «discipline» di mille colpi ciascuna). I toni progressivamente si accendono, Piero passa al «tu» e arrivano i vermi: «Cristo non si è vergognato dell’infamia della croce; e tu arrossirai della nudità della tua carne, che odora di putredine e sarà divorata dai vermi?» E ancora «tu, insolente, ben lisciato qual sei, tu così sfrontatello e delicato [et tu lascivus, tu unctus, tu petulculus ac tenellus]» non vuoi svelare il segreto della tua carne? «Ebbene, fratello: che è mai codesta carne?» Lo sai, vero, che fine farà? Conviene soppesare ben bene la sanies, il virus, il fetor e l’obscenae corruptionis illuvies che ti aspettano. Cosa credi, che ti diranno grazie i vermi «dai quali saranno divorate le carni che hai allevato [allevato, come un tacchino…] nelle delizie e nei piaceri?» (Quas ergo gratias tibi referent vermes, qui voraturi sunt carnes quas molliter ac suaviter enutristi?) Oppure hai paura farti vedere nudo ché «non ti succeda di essere ammaliato dagli occhi di guarda (times nudus aspici, ne te contingat oculis videntium fascinari!)».

Pertanto, vi prego, conclude Piero, non curatevi della nudità né dell’«asprezza dei colpi che volano rapidissimi (plagarum sub momento volantem asperitatem) e fate in modo che quando il supremo giudice guarderà dalla vostra parte, vi troverà intenti a un triplice ruolo: quello di giudice nella coscienza, di reo nel corpo e di carnefice nelle mani: «In corde se constituit judicem, reum in corpore, manibus se gaudet exhibere tortorem», dove quel «se gaudet exhibere» è carico di sfumature che possiamo perlomeno definire complesse, e che Aldo Granata definisce «quello che non a torto può essere considerato uno dei vertici dell’ascetismo monastico medievale».

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  1. Pier Damiani, Lettera in lode della flagellazione e, come si suol dire, della disciplina (Opusc. XLIII), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 397-419.

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Piccole finestre e paginette

Lasciando da parte la dimensione del miracoloso, così difficile, se non ormai impossibile, per noi moderni da apprezzare nello stesso modo in cui la apprezzavano i monaci dell’XI secolo (e non solo loro), è sempre interessante soffermarsi sui particolari per così dire realistici dei racconti di fatti mirabili «quae miracula appellantur»; quei dettagli che «aprono squarci bellissimi sul modo di sentire comune, e sono altrettante spie, o piccole finestre, che occhieggiano su una società da cui, per certo, ci separano anni luce» (Aldo Granata). E poterlo verificare, anche da dilettanti, sulle pagine di un grande scrittore come Pier Damiani è ancora più interessante1.

Considerando, per cominciare, che Pier Damiani scrive, da Fonte Avellana, all’abate Desiderio, a Montecassino, ecco che l’inciso «ci separa, interponendosi tra di noi, un cammino di quindici giorni all’incirca» ci dà una misura della durata del viaggio di un po’ meno di 400 chilometri lungo la Flaminia e poi la Casilina. Proseguiamo col vescovo Arnaldo, protagonista di un’esemplare punizione proprio mentre si metteva a sedere con familiari e servi e, «libero da preoccupazioni, di umore ilare e lieto [securus, hilaris ac jucundus], scambiava con loro detti garbati e spiritosi»; Arnaldo che peraltro «era dotato di una facondia così singolare che, quando sciorinava rapidissimamente le parole [dum expeditissime in verbis decurreret], non a torto lo si sarebbe potuto definire di lingua davvero tagliente». Poi c’è Ugo di Fano che tutta la città aborre e definisce folle («tutti gli sputano addosso, lo scacciano e lo insultano»), anche i famigliari lo schifano «e il suo alito – come si lamenta Giobbe – fa nausea alla moglie [halitum quippe ejus, juxta querelam B. Job uxor exhorret]». Chiede allora di incontrare Pier Damiani, il quale si informa un po’ in giro e visto che tutti non sanno dirgli altro che «è folle», lui ribatte: «Come lo sapete? O su quali prove si fonda la vostra congettura che egli sia fuori di sé?»

C’è ancora la confessione del vescovo Severino circa la mancata osservanza delle ore canoniche, per motivi, diciamo così, di time management: «Non fui in grado di adempiere all’obbligo dell’ufficio comune nel rispetto del giusto intervallo delle ore canoniche; giacché, cumulando insieme ogni cosa al mattino, per tutto il giorno avevo la più ampia libertà di dedicarmi agli affari incombenti». C’è «uno sconosciuto dalla lunga chioma [incontrato per strada], che, come se stesse ritornando da Gerusalemme, recava in mano una palma»; c’è il confratello malato di Fonte Avellana che, «approfittando di questa sua debolezza e fragilità di costituzione, recitava spesso, dal principio alla fine, compieta, restando a giacere a letto»; c’è il figlio del re Roberto (II il Pio), «il cui collo era del tutto simile, come il capo, a quello di un’oca»; c’è l’«edificio riservato agli infermi [infirmorum domus]» visto durante una visita a Cluny; c’è l’espressione di «un chierico molto insolente e gonfio d’orgoglio» che, richiamato al dovere evangelico dell’umiltà, rispose che no, «se io mi fossi umiliato, cedendo ai miei avversari, oggi non avrei sì gran copia di possedimenti e di clientele» – si può immaginare come scontò il sacrilegio… E così via.

E di tutto quello che racconta Pier Damiani chiama a testimone la sua coscienza «che, non per la voglia di dir bugie, ma per il desiderio di edificare, ricordando con la maggior precisione possibile ciò che mi fu raccontato, mi preoccupo di prenderne nota in certe mie paginette [satago schedulis adnotare]».

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  1. Pier Damiani, Lettera sulla utilità dei vari suffragi e vari miracoli in particolar modo della beata Vergine (Opusc. XXXII) e Lettera su vari racconti di fatti miracolosi (Opusc. XXXIV/1), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 207-269. E dice ancora il curatore, Aldo Granata: «Anche la circostanza che un gran numero di fatti a noi riferiti come miracolosi abbia per oggetto gli alimenti indispensabili alla vita all’uomo, è tale da farci riflettere sul vero significato di una fede, ingenua sì, finché si vuole ma, per così dire esasperata, resa più accesa e implorante dalla durezza e dalla precarietà delle condizioni materiali del vivere quotidiano».

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Il bestiario di Pier Damiani

Nell’autunno del 1061 Pier Damiani è a Roma, impegnato a fianco del papa Alessandro II, ma trova il tempo per scrivere una lunga lettera (l’Opusculum LII delle sue Opere) agli amati monaci di Montecassino, guidati allora dall’abate Desiderio («arcangelo dei monaci»), che è «un vero e proprio bestiario moralizzato ad usum monachorum»1. A leggere queste pagine con occhiali moderni bisogna resistere alla tentazione del divertimento e anche a quella, tipicamente medioevale, del «meraviglioso» (cui pure l’«Avellanita» dedicherà altri scritti). Qui, infatti, il grande monaco eremita – e il grande scrittore – è mortalmente serio, perché ne va sempre e comunque della salvezza dell’anima e perché Dio ha disposto le cose «affinché, perfino per mezzo delle bestie, l’uomo sia in grado di apprendere ciò che deve imitare, ciò che tocca, a lui, di fuggire, ciò che può utilmente, da loro, prendere a prestito». È da notare anzitutto che Pier Damiani non si vanta di essere un esperto del mondo animale, ma che riporterà «solamente ciò che, da quanti con sudore hanno osservato le realtà della natura, è stato messo a nostra disposizione nel modo più certo e inconfutabile». L’inciso sottolineato è assai significativo, e Piero ribadirà più volte il concetto, ad esempio nel capitolo 15, parlando del pellicano («Come tramandano coloro che si diedero da fare per conoscere a fondo la varia natura degli animali»), suggerendo chiaramente, direi, come la conoscenza richieda attività sul campo e costi fatica. Che poi il fatto che il pellicano uccida i suoi piccoli (come Dio castiga la prole ingrata) non sia né certo né inconfutabile è un altro discorso.

Eh sì, di certo e inconfutabile, oggi, non c’è pressoché niente in queste pagine, in cui la stessa osservazione non è mai neutra, ma si basa su presupposti morali, in particolar modo di origine biblica. È difficile non rimanere affascinati (e forse non soltanto affascinati) dalla rete di citazioni, riferimenti, citazioni, analogie dispiegata dal testo: una rete che ricopre il mondo (in questo caso quello naturale) senza smagliature. Gli animali dunque si dividono senza esitazioni in esempi buoni, esempi cattivi, simboli di tragica inconsapevolezza o di realtà superiori cui ispirarsi per non perire in questo «covile del diavolo» che è il mondo.

Così, il leone è buono, perché dorme con gli occhi aperti, come dovrebbero fare i monaci; il riccio è figura del diavolo, perché entra nelle vigne all’epoca della vendemmia e, scuotendo i tralci, fa cadere i chicchi maturi («che hanno il turgore delle virtù spirituali»), li infilza sugli aculei e se li porta via; la volpe non ne parliamo nemmeno, e neanche il polipo, che si finge roccia per catturare gli ignari pesci che si avvicinano: «Che altro è il polipo, se non l’uomo malvagio e fraudolento, e perciò eretico?»; molto meglio la fenice, che risorge «come il nostro Salvatore»; bene l’upupa, l’aquila e la folaga, ancora meglio le api, che «sono immuni dal coito, così nel partorire non sono costrette a subire nessun guasto»; «livido e immondo» l’ibis, per non parlare della iena, bene invece la dorcade, «che latinamente chiamiamo “capriolo”, [e che] offre al nostro stile di vita il non inutile esempio della propria indole naturale»: sguardo acuto e capacità di discernimento; lo sguardo acuto è anche della lince, «non solo in grado di penetrare qualsiasi corpo solido, ma anche le pareti in pietra»: mettete un pezzo di carne dietro un muro e vedrete…; ottimo il serpente, che cerca una fenditura nella pietra (la penitenza) e si toglie di dosso la vecchia pelle (dei peccati), ottima la formica, che sa discernere i chicchi delle messi, supremo infine il castoro, che ha capito che gli si dà la caccia per le virtù terapeutiche dei suoi genitali, sicché, «quando si accorge che il cacciatore lo insegue… se li recide a morsi e li getta davanti al cacciatore», se poi capita un altro cacciatore, il castoro gli si alza di fronte mostrandogli «che gli manca ciò che per cui è così ambito», dunque «pure tu, se vuoi sfuggire al cacciatore che ti insidia nella più profonda intimità, studiati con ogni mezzo di troncare di netto da te i dilettosi eccitamenti del piacere». Ecc. ecc.

A un certo punto Pier Damiani si ricorda «che non a un libro, ma a una lettera abbiamo dato inizio» e che bisognerebbe concludere. Non ce la fa, ha ancora due o tre storie che muore dalla voglia di raccontare: il granchio e l’ostrica, la scimmia, la balena, e visto che di monaci parliamo, sapete come fa il granchio a catturare l’ostrica di cui è ghiotto? Come fa a papparsi il «cibo carneo» ben difeso dalle due valve «assai robuste» che scattano alla minima minaccia? Fa così: si apposta e quando l’ostrica si apre butta lì un sassolino, cosicché non possa più richiudersi, e allora «introduce le chele senza correre alcun rischio, e dall’ostrica estrae la parte più interna e riposta». La morale è ineccepibile: «A cosa sembra più convenientemente alludere l’ostrica, se non al monaco? Sicuramente questi vive finché lo circonda l’obbligo rigoroso del silenzio, al contrario perisce quando si apre per parlare senza moderazione». E che cos’è il sassolino se non la «pietruzza, per dir così, della cattiva abitudine»? Già, perché «di che altro è figura il granchio, la cui natura è di procedere a ritroso, se non dello spirito ribelle», cioè del diavolo?

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  1. Pier Damiani, Lettera sul valore della vita religiosa e sulla interpretazione simbolica di numerosi animali (Opusc. LII), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 103-142.

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Il vivaio delle anime (Dice il monaco, CXXIII)

Scrive Pier Damiani ai monaci di Montecassino, nel 1061:

Dunque, quando Dio onnipotente vi ha tratto in salvo dal mondo e vi ha immesso al suo servizio sotto la disciplina del monastero, a guardar bene, che altro ha fatto se non, come un tempo, durante il diluvio, di molti che perivano, scegliere voi, pochi, e, perché continuaste a vivere, farvi trovare riparo sull’arca spalmata di bitume? Poiché il recinto del monastero è il vivaio delle anime. Poiché vi vivono i pesci, che, come proclama la legge, sono provvisti di pinne, e, onde trasformarsi nel corpo di Cristo, si offrono come cibo prelibato per le mense degli israeliti. Poiché i pesci che sono provvisti di pinne sulle squame hanno pure l’abitudine di saltare sopra il pelo dell’acqua. Dunque, di che altro sono figura i pesci provvisti di pinne, se non delle anime elette, che sole – è sicuro! – si trasformano nel corpo della chiesa celeste? Giacché, non appena si reggono sulle penne della virtù, per il desiderio del cielo bramano ardentemente saltare, onde assurgere alla contemplazione delle cose di lassù, pur se di nuovo, per la carne soggetta alla morte, sdrucciolano giù su se stesse.

♦ Pier Damiani, Lettera sul valore della vita religiosa e sulla interpretazione simbolica di numerosi animali (Op. LII), in Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaca Book 1988, pp. 105-106.

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