«Il monachesimo femminile» di Vincenza Musardo Talò

 Il corposo saggio di Vincenza Musardo Talò1 muove da un assunto subito esplicitamente dichiarato: «Ripercorrendo la storia del monachesimo femminile, dal paleocristiano a tutto il medioevo, la nota più interessante che ne emerge è quella di un fenomeno sostanzialmente autonomo dal monachesimo maschile». Quel «ripercorrendo» ha prodotto un volume stipato di informazioni – verrebbe da dire talvolta persino «ingolfato» di informazioni, profili, date, riferimenti – che accompagna passo passo il lettore nelle due stagioni fondamentali del fenomeno, separate piuttosto nettamente dall’avvento degli ordini mendicanti, quando il monastero femminile cessa di essere un luogo elitario di reclutamento quasi esclusivamente nobiliare se non addirittura regale.

La galleria di figure che scorre è lunga e multiforme: le vergini consacrate e le vedove che non si rimaritano (con tendenza al cenobitismo già alla fine del III secolo); le monache aristocratiche germaniche (che si portano in monastero i privilegi, e i beni, di nascita) e le sorelle dei monaci legislatori (Cesaria e Cesario di Arles, Scolastica e Benedetto, Fiorentina e Isidoro di Siviglia); le badesse principesse, le regine-sante e le «sante di famiglia»; le monache missionarie, le magistrae e le canonichesse, ecc.

Le abbazie femminili altomedievali sono luoghi strettamente legati al mondo circostante e spesso offrono «alla donna religiosa esperienze di potere impensabili al di fuori del monastero», esperienze che si estendono anche al di là delle mura claustrali e che tuttavia vanno scemando col passare del tempo, fino al movimento di rinnovamento benedettino tra XI e XII secolo in cui la partecipazione femminile è modesta, per non dire inesistente. I monaci delle nuove famiglie tendono a non farsi carico della cura d’anime delle monache; il prestigio economico-patrimoniale dei monasteri femminili è in calo; il reclutamento si apre a nuovi settori della società: tutto questo si salda con la persistente opinione che, «fatte salve tre sole categorie di donne, le vergini, le vedove e le madri [siamo ancora lì], tutto il resto dell’universo femminile era da identificare con il peccato e il diabolico». Certo, ci sono Eloisa, Ildegarda, ma né loro, né la letteratura cavalleresca, né la partecipazione delle donne a manifestazioni di religiosità laica, o alle crociate, né il recupero di certi diritti economici, né la riforma del matrimonio come sacramento, né le vicende di certe regine riescono a intaccare quell’opinione.

Ai margini dei tentativi di rinnovamento troviamo quindi le camaldolesi, le vallombrosane e le certosine, che pure condividono con i rami maschili la medesima ricerca di una nuova spiritualità; poi le cistercensi, tra le quali pure si annoverano personalità come Matilde di Magdeburgo, Matilde di Hackeborn e Gertrude di Helfta («La natura stessa della donna pareva non essere idonea alle nuove tensioni esistenziali e agli ideali di Cîteaux, un monachesimo virile…»); e poi ancora Fontevrault, Premontré, le gilbertine e gli ordini ospedalieri.

È con Chiara d’Assisi che «si chiude definitivamente il medioevo del monachesimo femminile»: «In quel tempo, quasi un fiume in piena, si mosse un esercito di donne nuove […] le recluse, le beghine e ancor più le claustrali degli ordini mendicanti, le cui case sorgono ovunque, su tutto il territorio della cristianità, trasformando il monachesimo femminile da un fenomeno di condizione elitaria a un movimento aperto, di tipo “borghese”, intendendo il termine nell’accezione propria di quel tempo». Si apre una nuova galleria: clarisse, domenicane, agostiniane, carmelitane, Serve di Maria, e ancora le recluse, le beghine propriamente dette, le umiliate, le pinzochere («Non di rado il termine pinzochera richiama un insieme di status diversi, cioè di condizioni mutevoli geograficamente e per formae vitae»: commissae, rendute, converse, offerte, donate, vestite. redente, devote, penitenti, contenenti, dimesse, mantellate, cordellate, terziarie…) – una galassia in espansione (con grande apprensione da parte dei maschi) che suscita tutt’oggi un certo stupore.

Da queste note troppo confuse si può forse cogliere anche il problema che talvolta può affliggere queste ricostruzioni molto estese temporalmente, che, come dicevo, ammassano grandi quantità di nozioni e che d’altra parte si rivelano appassionanti e utili per ripassare i grossi movimenti della storia, ammesso che esistano, e per individuarne le porzioni che si vorranno successivamente approfondire.

______

  1. Vincenza Musardo Talò, Il monachesimo femminile. La vita delle donne religiose nell’Occidente medievale, San Paolo 2006.

Lascia un commento

Archiviato in Libri

Andare errando e correre qua e là

In una data imprecisata tra il 1100 e il 1109 Anselmo d’Aosta, che è arcivescovo di Canterbury già da almeno sette anni, scrive a Mabilia, monaca si presume presso il priorato di Marcigny. Fondata da Ugo di Cluny intorno al 1055, Marcigny è la prima filiazione cluniacense femminile e ha nella clausura un carattere distintivo. Può ospitare novantanove monache, perché il centesimo posto è per Maria Vergine, cui è consacrato il monastero e cui è riservato nel coro «lo stallo centrale, lasciato sempre vuoto»1. La fondazione fiorisce, «richiamò numerose vocazioni e non furono rari i casi in cui molte donne coniugate entrarono a Marcigny, mentre i loro coniugi andavano a Cluny».

Per garantire l’osservanza della clausura, l’abate di Cluny dispone nelle vicinanze un insediamento monastico maschile, con una dozzina di confratelli e due priori, uno che agisce da procuratore della comunità femminile e uno che bada alla cura spirituale delle monache. Un monastero doppio, in pratica, ma nel quale la separazione è più che netta.

Ciò detto, Mabilia manifesta il desiderio di uscire, forse per andare a far visita ai parenti, Anselmo – non si sa bene come – ne viene a conoscenza e le scrive una lettera succinta ma accoratissima2, motivata dal grande amore che prova per lei: «Ti voglio bene, e, non meno di quanto mi stia a cuore la mia anima, mi sta altresì a cuore la tua». Un amore che ispira all’arcivescovo toni un tantino passivo-aggressivi, si direbbe oggi, e che lo porta «ad intervenire, a rimproverare e spesso, almeno secondo la nostra sensibilità e il nostro modo di vedere, ad insistere anche eccessivamente nel voler far rientrare a tutti i costi in monastero queste nobildonne la cui storia vocazionale era altamente complessa e forse anche dubbia, se non addirittura inesistente, ma dettata da motivi sociali, politici o da interessi economici»3.

Non puoi aver cari allo stesso modo i beni mondani e i beni eterni, Mabilia, «carissima figlia»: se aspiri a essere monaca, il mondo per te è stato crocifisso e, come dice Paolo, considera i suoi beni «alla stregua di spazzatura» (propr. tamquam stercora). A che ti serve andare a trovare i parenti? «Non hanno affatto bisogno del tuo consiglio e aiuto, né tu alcun consiglio o aiuto riceverai, di cui già non potresti fruire nel chiostro». Se proprio hanno bisogno di parlarti, verranno loro da te; infatti «a loro è permesso andare errando e correre qua e là [illis licet vagari et discurrere per diversa – bellissimo], tu invece non puoi uscire dal chiostro «a meno che Dio non ne dimostri l’imprescindibile necessità» (sic, Dio stesso!). Lascia stare il mondo, figlia mia: chi ama il mondo è nemico di Dio, chi cerca «l’amicizia di quanti con il mondo sono solidali […] tanto meno sarà in amicizia con Dio e con gli angeli a lui amici».

In mezzo a tutta questa amicizia si può leggere un piccolo esempio luminoso di quella frattura della Chiesa con la realtà (so che bisognerebbe essere più precisi), la risalita dalla voragine della quale si può dire sia ancora in corso: «La teologia universitaria ha creato una categoria teologica che non era mai stata usata dai Padri della Chiesa fino al XIII secolo e la cui accettazione distrugge alla radice il senso della vita monastica e la sua prospettiva teologica. E mi riferisco a qualcosa che si trova anche nei documenti dell’attuale Magistero della Chiesa: la divisione tra naturale e soprannaturale, per non dire la “rottura” tra i due»4.

______

  1. Ho ricavato queste notizie e le successive da Vincenza Musardo Talò, Il monachesimo femminile. La vita delle donne religiose nell’Occidente medievale, San Paolo 2006.
  2. Anselmo d’Aosta, Lettera 405. Alla monaca Mabilia, in Lettere, 2: Arcivescovo di Canterbury, t. 2, introduzioni di I. Biffi e A. Granata, traduzione di A. Granata, commento di C. Marabelli, Jaca Book 1993, pp. 374-77.
  3. M.L. Tartaglia, osb, Le lettere di Anselmo d’Aosta alle monache: un itinerario di vita spirituale, in «Studia Monastica» 60 (2018), 2, pp. 295-328.
  4. Fernando Rivas, osb, Formazione monastica e teologia, in «Vita Nostra» 2025, 1, pp. 36-51.

Lascia un commento

Archiviato in Dalle lettere

O grande fiume (Dice il monaco, CXXXI)

Dice Ugo di San Vittore, monaco agostiniano, intorno al 1130:

Sarebbe lungo dimostrare a una a una le vanità di questo mondo. Sappi tuttavia che di tutte queste cose che vedi, nulla è permanente, ma tutte passano e ritornano là dove sono nate. Come hanno un inizio, tutte le cose hanno anche una fine, ma vi si affrettano diversamente e non ugualmente vi arrivano. Alcune sono sorte di recente, altre sono già perite da tempo, altre transitano nel mezzo, altre ancora seguono quelle già nate, eppure tutte scorrono insieme e tendono a un unico luogo. O grande fiume, dove sei trascinato? La tua sorgente è piccola, sgorghi da una fonte esigua, scaturisci da una modesta vena. Corri e ingrossi, discendi e sei assorbito. Corri, ma verso il basso; ingrossi, ma verso la rovina: vieni e passi, e tuttavia defluisci, e sei assorbito. O vena che non ti esaurisci, o corso che non trovi riposo, o abisso che non ti colmi! Quanto la vanità sottomette! Quanto la mortalità trascina, tanto la morte insanabile inghiotte!

Quantum vanitas subjicit! Quantum mortalitas trahit, tantum insanabilis mors deglutit!

♦ Ugo di San Vittore, De vanitate mundi, PL 176, 711 A-B.

Lascia un commento

Archiviato in Dice il monaco

L’apprezzato disprezzo del mondo

Sto leggendo un altro saggio che già dal titolo fa sentire più eruditi: Il contemptus mundi nella scuola di S. Vittore, di Francesco Lazzari, storico delle religioni che già avevo incontrato in simili circostanze titolistiche. Il «disprezzo del mondo» è argomento classico della letteratura monastica, e prima di analizzarne la particolare declinazione che ne fanno i vittorini, Ugo e Riccardo soprattutto, lo studioso ne rintraccia i precedenti, fornendo un elenco a un tempo dottissimo e irresistibile. Sicché non resisto e lo riporto qui.

  • Ambrogio, De fuga saeculi
  • Eucherio di Lione, Epistola parenetica de contemptu mundi et saecularis philosophiae
  • Pietro Crisologo, Sermo de terrenorum cura despicienda
  • Fulgenzio di Ruspe, Epistola de conversione a saeculo
  • Leandro di Siviglia, Regula sive Liber de institutione virginum et contemptu mundi
  • Gregorio Magno, Moralia in Job
  • Colombano, Instructio III De sectando mundi contemptu et coelestium bonorum amore
  • Isidoro di Siviglia, De brevitate vitae
  • Eugenio di Toledo, Commonitio mortalitatis humanae

E siamo all’XI secolo.

  • Ermanno di Reichenau, Carmen de contemptu mundi
  • Pier Damiani, De contemptu saeculi; De fluxa mundi gloria et saeculi despectione
  • Guglielmo di S. Arnulfo, Epistola ad saeculi contemptum
  • Roger di Caen, Carmen de contemptu mundi

Senza contare gli anonimi… Ed eccoci alla «fioritura del XII secolo».

  • Marbodio di Rennes, Contemptus praesentis vitae
  • Ildeberto di Lavardin, De lapsu mundi
  • Goffredo di Vendôme, Epistole
  • Elmero di Canterbury, Meditatio de humanae conditionis dignitate et miseria
  • Ugo di S. Vittore, In Ecclesiastem; De vanitate mundi et rerum transeuntium usu
  • Riccardo di S. Vittore, De exterminatione mali et promotione boni
  • Adamo di S. Vittore, Haeres peccati, natura filius irae
  • Roberto Pullen, De contemptu mundi
  • Bernardo di Varey, Epistola de fuga saeculi
  • Giovanni di Montmédy, Epistola de fuga saeculi
  • Bernardo di Clairvaux, Sermo de fallacia et brevitate vitae praesentis
  • Bernardo di Cluny, De contemptu mundi
  • Enrico di Huntingdon, Epistola de mundi contemptu
  • Tommaso di Beverley, De contemptu mundi
  • Nicola di Chiaravalle, Epistola ad ordinem et mundi contemptum
  • Goffredo di Auxerre, Declamatio de reliquendis omnibus
  • Pietro Cantore, De brevitate temporis vitae humanae semper habenda in corde
  • Goffredo di S. Barbara, Epistola ad mundi contemptum
  • Alano di Lilla, Summa de arte praedicatoria, II, De contemptu mundi
  • Adamo di Perseigne, Epistola ad mundi contemptum

«Il secolo si chiude con un trattato che sarà celebre ed eserciterà una vastissima e profonda influenza: il De miseria humanae conditionis di Innocenzo III. Dopo il IV concilio del Laterano (1215), il tema vede diminuire la sua fortuna.» Be’, non si può dire che non siamo ben forniti…

Lascia un commento

Archiviato in Spigolature

Guglielmo di Saint-Thierry, monaco-sempre-più-monaco

 L’accuratissima monografia di Ambrogio Piazzoni (un bel volume austero, a cominciare dalla veste tipografica, e che ho dovuto leggere munito di tagliacarte, essendo ancora intonso, cosa che, quando capita, meno raramente di quanto non si pensi, produce in me anche un certo deprecabile autocompiacimento, tra l’altro per il fatto di avere, tutt’oggi, un tagliacarte) mi ha permesso di avere un’idea un po’ più precisa della figura di Guglielmo di Saint-Thierry, nato a Liegi, cresciuto alla fede da studente presso la scuola cattedrale di Reims (nel primo decennio del XII secolo), vissuto monaco (e abate) benedettino (più o meno dal 1109 al 1135), morto monaco cisterciense (dal 1135 al 1148), forse col desiderio di «spostarsi» ancora, dai certosini («monaco-sempre-più-monaco», lo definisce Piazzoni). Precisa, insomma… Diciamo che l’ho incontrato molte volte nelle poche letture fatte, soprattutto in relazione a san Bernardo, e grazie a questo saggio1 ho aggiunto come si dice qualche tessera al mosaico. (Che poi qui cos’è se non un mosaico, talvolta davvero troppo informe?)

Il percorso biografico dice molto della personalità e dello sviluppo del pensiero di Guglielmo, e inoltre, come evidenzia subito l’autore: «La sua vita sembra riassumere, rappresentare e a volte precorrere la fase evolutiva vissuta dall’intero monachesimo nell’arco del secolo XII, certo uno dei più travagliati e decisivi della sua storia». Dove per «fase evolutiva» s’intende vera e propria crisi, crisi dell’ideale monastico, nel momento in cui Cluny raggiunge il suo apice e al tempo stesso un nuovo eremitismo e un movimento di ritorno alla Regola cercano di porre rimedio ai suoi «eccessi»: «Entrambi i tentativi, però, si mostrarono insufficienti. […] Le nuove istanze di tipo religioso infatti avranno una loro più puntuale risposta fuori dall’esperienza monastica, nei movimenti ereticali, in Domenico e soprattutto in Francesco; in questo senso si è potuto parlare di “fine del monachesimo” nel secolo XII». Di tutto ciò Guglielmo è un po’ l’emblema.

Un emblema «gentile», per quanto possa avere senso una formula del genere, che piace immaginare sempre preoccupato di quello che accade nel passaggio dalla teoria alla pratica. Dopo gli studi non superficiali, di cui comunque farà tesoro nella sua attività di scrittore, invece di dedicarsi a una prevedibile carriera di professore «scolastico», decide di farsi monaco benedettino; non è un gran viaggiatore, non lo sarà mai, e sceglie una fondazione non collegata a Cluny (Saint-Nicaise), prova a passare ai cisterciensi (dissuaso da Bernardo), ma finisce abate di Saint-Thierry, monastero che seguiva le consuetudini di Cluny; amante dello studio e della contemplazione, svolge un ruolo concreto di organizzatore del movimento riformatore sorto intorno ad alcuni capitoli degli abati benedettini della provincia di Reims, tenutisi tra il 1131 e il 1135 («Noi dichiariamo che abbiamo giurato non sulle consuetudini cluniacensi, ma sulla legge e sulla Regola di san Benedetto!» scrive nel 1132 in uno dei documenti emersi da quegli incontri); cauto e superprudente nell’esprimere le proprie non rimasticate opinioni, e finisce con lo scatenare Bernardo contro Abelardo, probabilmente al di là delle sue stesse intenzioni («Io gli ho voluto bene, e vorrei volergli bene»), rendendosi in qualche misura corresponsabile del «fattaccio di Sens»: la condanna e la scomunica di Abelardo del 1140.

Lo studio di Ambrogio Piazzoni ricostruisce questo percorso, seguendo parallelamente la stesura delle opere, dal De contemplando Deo e il De natura et dignitate amoris, all’Epistola ad fratres de Monte Dei (la cosiddetta Lettera d’oro ai certosini, il suo capolavoro), alla Vita Bernardis Claraevallensis abbatis, che, pur incentrata ovviamente su Bernardo, e pur incompiuta per la morte di Guglielmo, finisce «col divenire quasi un bilancio che l’autore traccia della propria vita». Un bilancio da cui traspare il senso, certo non di una sconfitta, tuttavia della consapevolezza dei limiti dell’ideale monastico, incarnato da Bernardo, amato e riaffermato da Guglielmo, radicalizzato dai certosini, ma forse non più l’unico a disposizione del cristiano che voglia seguire Gesù.

______

  1. Ambrogio M. Piazzoni, Guglielmo di Saint-Thierry. Il declino dell’ideale monastico nel secolo XII, Istituto storico italiano per il Medio Evo 1988.

4 commenti

Archiviato in Libri

In qualunque parte del mondo si trovino (la «Periculoso»)

Leggendo di cose monastiche medioevali (ma non solo) è impossibile non imbattersi in lei, la Periculoso, la famigerata costituzione del 1298 con la quale Bonifacio VIII stabilisce l’obbligo della clausura perpetua per tutte le monache (quella che nel tempo prenderà il nome di «clausura papale»). L’avrò trovata citata decine e decine di volte, ma non l’avevo mai letta. Finalmente l’ho fatto (con la solita cautela circa la piena comprensione del latinorum).

È un testo piuttosto breve – un paio di cartelle, non di più –, suddiviso in un’introduzione (che sancisce la clausura vera e propria) e quattro paragrafi (che aggiungono dettagli – uno in particolare non secondario –, eccezioni e sanzioni) chiaro e circoscritto, anche se non privo di certe tortuosità che direi tipiche da decretale. Anzitutto «pericoloso» (e «detestabile») è il comportamento di alcune monache cui la Santa Sede ha deciso di porre rimedio. Tali monache, dimentiche della modestia che si addice al loro stato e alla verecondia che dovrebbe adornare il loro sesso, «si aggirano talvolta fuori dai loro monasteri nelle abitazioni di persone secolari, e frequentemente ammettono persone sospette all’interno degli stessi monasteri». Pertanto, affinché «completamente separate dagli sguardi del mondo, possano servire Dio più liberamente e, rimossa l’occasione di lascivia, custodire più diligentemente i loro cuori e i loro corpi in piena santità», il papa stabilisce che non possano più uscire dai loro monasteri, se non in caso di malattia grave o di altra causa ragionevole e manifesta e con speciale licenza. E questo vale e varrà per sempre, per qualunque monaca presente o futura, di qualsiasi ordine, in qualunque parte del mondo si trovi («universas et singulas moniales, praesentes atque futuras, cuiuscunque religionis sint vel ordinis, in quibuslibet mundi partibus exsistentes»). In sostanza la clausura è introdotta per il bene delle monache, per allontanarle da tentazioni e occasioni di peccato.

Il primo, breve e appunto non secondario paragrafo stabilisce che nelle comunità non vengano accolte nuove sorelle, a meno che il monastero non disponga di mezzi di sostentamento adeguati. Sono esclusi da questa prescrizione i conventi degli ordini mendicanti. Il secondo paragrafo, altrettanto breve, dispone un’eccezione per le badesse che, in virtù del feudo che il monastero detiene in dipendenza da qualche principe o signore temporale, debbano uscire per rendere omaggio e prestare fedeltà. Che si tratti di uscita breve, però, e in compagnia onesta e decorosa.

Il terzo paragrafo si dilunga invece sulla richiesta a principi e signori («chiediamo, preghiamo e imploriamo i principi e gli altri signori temporali, per le viscere della misericordia di Gesù Cristo») di permettere a badesse, priore e varie altre monache che gestiscono gli affari del monastero («abbatissas ipsas et priorissas ac moniales quascunque, monasteriorum suorum curam, administrationem negotiave gerentes») di affrontare nelle corti le questioni che lo riguardano per tramite di procuratori, in modo da non essere costrette a uscire. E se non vorranno permetterlo, che incorrano nella «censura ecclesiastica» per mano degli ordinari del luogo. «Ingiungiamo inoltre ai vescovi e agli altri prelati superiori e inferiori di trattare e risolvere i casi o le questioni che le suddette monache dovessero affrontare davanti a loro o nei loro tribunali, siano essi omaggi, giuramenti di fedeltà, cause legali o quant’altro, per tramite dei loro procuratori.»

Il quarto paragrafo, infine, «poiché sarebbe inutile stabilire leggi se non ci fossero coloro che le facessero osservare debitamente», impone a primati, arcivescovi e vescovi (e un po’ a tutto il clero coinvolto), di adoperarsi concretamente affinché nei monasteri femminili a loro soggetti sia messa in atto la suddetta clausura, a spese dei monasteri medesimi e grazie alle elemosine dei fedeli. Lo facciano appena possibile («quam primum commode») se vogliono evitare la durezza del giudizio divino e del papa («si divinae ac nostrae indignationis voluerint acrimoniam evitare»). Nel caso che si manifestino opposizioni («contradictores atque rebelles»), potranno minacciare la censura ecclesiastica e invocare, se necessario («si opus fuerit»), l’intervento del braccio secolare.

E di contradictores atque rebelles ce ne saranno eccome, almeno per due secoli e mezzo, fin dopo il Concilio di Trento…

(Il testo si può leggere nel Corpus Iuris Canonici, a cura di E.L. Richter e E.A. Friedberg, seconda parte, Akademische Druck- U. Verlaganstalt 1959, coll. 1053-1054.)

5 commenti

Archiviato in Regole

Qualche speciale notizia (Dice il monaco, CXXX)

Dice Ugo di San Vittore, monaco agostiniano, intorno al 1125:

Non sottovalutare nessuna forma di sapere, perché ogni scienza ha valore. Se hai tempo, non esimerti dal leggere i libri che ti si presentano: anche se non ne trarrai particolare utilità, tuttavia non ne avrai nemmeno danno, perché, a mio avviso [secundum meam exsistimationem], non esiste uno scritto che non proponga qualcosa di interessante, qualora sia esaminato a tempo e luogo debito: potrebbe contenere qualche speciale notizia [aliquid speciale], che il lettore avveduto [diligens scructator] potrà apprezzare con tanto più gradimento, quanto più preziosa e singolare sarà l’informazione.

Non è un bene tuttavia ciò che impedisce il meglio: se non ti è possibile leggere tutti i libri, leggi quelli che ti sono più utili. Anche se potessi leggere tutto, non dovresti mai mettere in tutte le letture lo stesso impegno: vi sono alcuni libri che bisogna leggere, affinché non ci siano del tutto ignoti, di altri invece dobbiamo formarci almeno un giudizio, poiché talvolta si rischia di sopravvalutare proprio ciò che si ignora, e si giudica meglio quando si ha qualche conoscenza degli argomenti.

♦ Ugo di San Vittore, Didascalicon, III, 13, introduzione, traduzione e note di V. Liccaro, Rusconi 1987, p. 138.

2 commenti

Archiviato in Dice il monaco

Mete di pellegrinaggi e rifugi per sciagurati

 Sì, non posso negare che ci sia una punta di autocompiacimento quando prelevo dallo scaffale un volume comprato ancora letteralmente intonso1 qualche anno fa e mi dico: Oh, adesso mi leggo questo Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo2. L’autocompiacimento deriva, ahimè, dalla considerazione che non devono essere moltissimi i lettori odierni di questo libro, ma anche dalla conferma della sensazione avuta al momento dell’acquisto di: qui-dentro-ci-deve-essere-qualcosa-di-interessante. E difatti c’è.

L’autore, d. Angelo Gambasin (1926-1990), già ordinario di Storia moderna nella facoltà di Scienze politiche all’Università di Padova e di Storia della Chiesa nel Seminario vescovile di Padova, ha lasciato un ampio numero di ricerche di storia religiosa (con particolare riguardo al Veneto e al XIX secolo) basate su quella dedizione allo scavo archivistico inesausto che desta sempre gratitudine. In questo caso ha fatto un «salto» in Sicilia e si è letto gli atti (e tutta la documentazione «circostante») della congregazione dei vescovi siciliani, che si tenne dal 2 al 24 giugno 1850, «un avvenimento del tutto nuovo, essendo la prima volta dopo secoli, che si riunivano in una conferenza generale, con il placet del re, i pastori della chiesa siciliana».

All’interno di questo gigantesco «rapporto» sulla situazione del clero isolano, sulle relazioni interne e nei confronti della società civile; sui problemi, sulle continuità e sulle avvisaglie del cambiamento; sulle differenze tra città e campagna, ecc., non poteva mancare una sezione dedicata al clero regolare, e ad essa Gambasin riserva il paragrafo, Frati e monache, che apre il quinto capitolo (Devozioni e opere di carità) e che già dall’incipit promette bene: «In Sicilia le comunità e le case religiose costituivano “una parte considerevole” della società. Romitaggi, conventi e monasteri avevano scuole, gestivano opere di assistenza; erano forzieri dei patrimoni culturali e dei testi sacri, mete di pellegrinaggi e rifugi per sciagurati. […] Sui monasteri gravitavano, per motivi di interessi vari, impiegati contabili, maestri, artigiani, servi della gleba e personali, affittuari e massari, turme di mendicanti e di ricoverati».

Si comincia con qualche numero. A Palermo nel 1832 «i regolari stavano in rapporto di 1 per 227 abitanti» (in seconda posizione dietro Messina, 1 per 219), e nel 1845 le case erano 71; superate dalle 83 di Siracusa (1832) e dalle 99 di Agrigento (1828): «Ogni convento o monastero svolgeva un importante ruolo anche sociale: i francescani facevano elemosine ai poveri, custodivano i cimiteri e curavano l’istruzione elementare dei figli del popolo; i crociferi e camilliani si dedicavano all’assistenza degli ammalati; gli scolopi, i teatini e i gesuiti dirigevano collegi ed istituti di educazione per ceti nobili e borghesi; i passionisti, i gesuiti ed i cappuccini predicavano le missioni». Non mancavano anche gli eremiti: «In genere erano laici che vivevano di elemosine in luoghi remoti e inaccessibili», oggetto di venerazione da parte del popolo, di un certo fastidio da parte dei vescovi e di attenzione da parte dell’autorità – così si esprimeva un ispettore in una relazione del 1850 al prefetto di polizia di Palermo: «Io la interesso di impedire le questue alle quali ordinariamente si addicono i così detti eremiti, ed altri che per non voler muovere le braccia al travaglio, loro torna conto vivere nell’ozio, ed empire il ventre senza pena».

Già, la massa di relazioni sullo «stato delle cose» è imponente, tutti scrivono e al di là di frasi che suonano un po’ di circostanza sulle virtù del clero regolare, «magistrati, giudici, vescovi e visitatori regi e apostolici concordano nel ritenere che chiostri e monasteri precipitavano in un grave declino spirituale». Il quadro generale è abbastanza impressionante e coinvolge anche le case femminili: nei cenobi entra ormai chiunque (tanto un modo per uscire si trova una volta che ci si è impossessati di una prebenda); sfruttamento dei fratelli conversi per i lavori più umili; lotte fratricide, è il caso di dirlo, tra opposte fazioni in occasione di elezioni di superiori e abati; debiti, ozi, vagabondaggi, intrighi e continue «migrazioni dei frati da un convento all’altro», frati che, «per far quattrini, s’immischiano in affari secolari»; la «piaga» di offrire ai monasteri neonati o infanti e quella dei «conventini», cioè le comunità con meno di sei membri, quasi del tutto fuori controllo; il comportamento delle monache: «festaiolo e frivolo: parate carnavalesche per la vestizione, danze e feste con musica classica, acclamazioni comiziesche per l’elezione della superiora, libero e incontrollato accesso ai medici, domestici e sacerdoti», parlatori che restano aperti «fino a notte alta per danze, canti e balli»; reclutamento spregiudicato di bambine di età inferiore a sette anni, per carpire lasciti e donazioni o coprire il bisogno di cameriere e serve; «sordido mercimonio» tramite aste delle celle del monastero; «profuse spese di apparati, gelati, dolci, assai sconvenevoli in una religiosa funzione», sprechi per «candele, tappeti, abbellimenti di altari, e per la musica»; rilassamento generale, dispregio delle regole, nessun rispetto della clausura, eccessi gastronomici di ogni tipo, eccetera, eccetera.

È il 1850. I vescovi siciliani a fronte di tale sfacelo, non privo va detto di contraddizioni, auspicano e provano a impostare una riforma, andando incontro a forti opposizioni, non soltanto da parte dei diretti interessati, ma anche della corte napoletana e di quella… romana. La strada per arginare gli abusi, ripristinare la disciplina e l’osservanza delle regole si prefigura lunga e tortuosa… E poi, sedici anni dopo, arrivano le leggi del neonato Regno d’Italia: odiose, odiate e… provvidenziali?

______

  1. Cosa ormai tanto singolare che la libraia ha inserito nel volume un foglio dove spiega il significato di «intonso» e che le «pagine appiccicate, chiuse» non sono un difetto.
  2. Angelo Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, introduzione di G. De Rosa, Edizioni di Storia e Letteratura 1979.

Lascia un commento

Archiviato in Libri

Senza rimedio

 A un certo punto di un suo breve testo di presentazione del carisma certosino, il grande studioso del monachesimo, e monaco trappista, André Louf dedica un capitoletto al tema del «deserto»1. L’esperienza del quale, che ha nell’Esodo il suo paradigma, può suscitare, anche oggi, entusiasmo – la solitudine tanto ricercata e finalmente raggiunta –, ma solo per un tempo assai breve. Passato appunto l’entusiasmo iniziale, è «la tentazione che attende inesorabilmente» il monaco chiuso nella sua cella: «L’assenza di distrazioni esteriori ributta il solitario addosso a se stesso, riaccendendo i desideri fino a quel momento inconfessati che brulicano ancora nel suo cuore, e che ora si rivelano realmente inconfessabili». Nel silenzio esplode come un bomba la fragilità dell’individuo e «tutte le sue illusioni e i suoi miti» (le storie che ci raccontiamo) si sgretolano.

Per illustrare questo fenomeno, Louf cita estesamente la testimonianza di un giovane certosino anonimo: «Il deserto è un fuoco purificatore. Nella solitudine ciò che siamo veramente viene in superficie. Tutte le bassezze… tutto il male…», ecc. Diventa impossibile nascondere, dissimulare, sorvolare sulle sgradevolezze, e «risulta evidente come con troppa facilità ci giustifichiamo, considerando le nostre mancanze al pari di tratti del carattere». Niente più scappatoie, niente più distrazioni, niente più artifici: ci viene sbattuta in faccia «la nostra miseria senza rimedio». E alla fine di questo cammino buio e doloroso, secondo il giovane monaco, c’è Dio ad attenderci. A quel punto siamo così svuotati, domati, trasformati e malleabili, che Dio può compiere il miracolo: cavare dalla nostra miseria la meraviglia.

Per quanto consideri la vocazione alla solitudine, e per quanto possa concordare nel biasimare il «malcostume» di giustificare i propri difetti quali aspetti della propria personalità («Eh, cosa vuoi, sono fatto così»), devo confessare che, ogni volta che m’imbatto in questo tipo di accanimento, avverto un moto di irritazione. Non è forse possibile anche nel «mondo» riconoscere le proprie debolezze? Non ci pensa spesso (più che spesso) proprio il mondo a farle emergere, a sbattercele in faccia? Non è possibile riconoscere anche là fuori, in mezzo agli altri, le bugie che ci raccontiamo e smascherarle? Non sono proprio gli altri che spesso sono decisivi per smantellare illusioni e miti privati?

Anche per un miscredente, poi, si tratta di un «cammino di verità» (distrazioni comprese), anche se in fondo al quale non c’è nessuno ad attenderlo. O forse invece sì, qualcuno c’è, visibile.

______

  1. André Louf, Saint Bruno et le charisme cartusien aujourd’hui, Editions Parole et Silence 2009, pp. 45-53.

5 commenti

Archiviato in Certosini, Pensierini

Pietro il Venerabile e ’sto catarro che non passa (pt. 2)

(la prima parte è qui)

Come si diceva, abbiamo la risposta del medico e l’attacco dimostra la piena consapevolezza da parte del mittente del rango del destinatario: «Dopo aver esaminato la lettera di vostra sublimità, mi sono addolorato che un uomo tanto necessario alla Chiesa di Dio fosse violentemente afflitto da sofferenze fisiche… Quando giunsi a Cluny l’anno scorso, il vostro amore mi accolse con onore, senza che io meritassi nulla da voi, mi rese addirittura partecipe della vostra fraternità», ecc. ecc. Quindi, come vedete, non ho tardato a inviare alla vostra sublimità Bernardo, il latore della presente», mio amico e collaboratore, ampiamente preparato ad affrontare quello di cui mi dite. Se poi ci sarà bisogno, verrò anch’io.

«Per quanto riguarda la vostra cura, considerate questo: la flebotomia, a mio parere, dovrebbe essere rinviata finché la voce non cominci a tornare alla sua funzione precedente». Infatti il vostro problema risiede più nel catarro che nell’abbondanza di sangue, cosa che ho notato anche l’anno scorso. Ripetete pure il cauterio, senza temere che possa danneggiare la vostra vista. Circa il fatto che i vostri medici vi hanno convinto a usare rimedi umidi, ma che vi è sembrato più salutare usare rimedi secchi contro la materia umida della malattia, rispondo che non c’è contraddizione, per quanto possa sembrare. Infatti alcuni rimedi, potenzialmente secchi, sono effettivamente umidi, in quanto più chiaramente inumidiscono e leniscono. Anche i testi lo confermano. La mirra, ad esempio, come è affermato nel Libro dei Gradi, è secca, onde asciuga anche gli umori putridi, ma fa bene anche all’irritazione dei canali polmonari e delle palpebre. E ciò fa in virtù della sua viscosità e gommosità. «Riguardo a bagni e stufe, a suffumigi e fomenti al petto, a pillole da tenere sotto la lingua, a pillole per il catarro a base di balsamato paolino, a gargarismi e simili, ne ho discusso a sufficienza con il nostro Bernardo, che, se piace alla vostra reverenza e bontà, non tardate a rimandare a noi il più presto possibile.» Sono stato rassicurato dal suo resoconto sulla vostra condizione e se c’è qualcosa da modificare, me ne occuperò senz’altro.

La chiusa è finissima: «Valete, che possiate stare bene per la misericordia di Dio e per i rimedi che vi sono stati prescritti» – cioè lo sappiamo entrambi che la salute è un dono di Dio, però voi intanto fate quello che vi è stato detto…

(2-fine)

♦ Ho ricavato tutto questo da una memoria di Henri Quentin, osb, Une correspondance medicale de Pierre le Venerable avec Magister Bartholomeus, raccolta nella Miscellanea Francesco Ehrle: Scritti di storia e paleografia pubblicati sotto gli auspici di S. S. Pio XI in occasione dell’ottantesimo natalizio dell’e.mo cardinale Francesco Ehrle, vol. I, per la storia della teologia e della filosofia, Biblioteca Apostolica Vaticana 1924, pp. 80-86.

Lascia un commento

Archiviato in Dalle lettere, Spigolature