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In qualunque parte del mondo si trovino (la «Periculoso»)

Leggendo di cose monastiche medioevali (ma non solo) è impossibile non imbattersi in lei, la Periculoso, la famigerata costituzione del 1298 con la quale Bonifacio VIII stabilisce l’obbligo della clausura perpetua per tutte le monache (quella che nel tempo prenderà il nome di «clausura papale»). L’avrò trovata citata decine e decine di volte, ma non l’avevo mai letta. Finalmente l’ho fatto (con la solita cautela circa la piena comprensione del latinorum).

È un testo piuttosto breve – un paio di cartelle, non di più –, suddiviso in un’introduzione (che sancisce la clausura vera e propria) e quattro paragrafi (che aggiungono dettagli – uno in particolare non secondario –, eccezioni e sanzioni) chiaro e circoscritto, anche se non privo di certe tortuosità che direi tipiche da decretale. Anzitutto «pericoloso» (e «detestabile») è il comportamento di alcune monache cui la Santa Sede ha deciso di porre rimedio. Tali monache, dimentiche della modestia che si addice al loro stato e alla verecondia che dovrebbe adornare il loro sesso, «si aggirano talvolta fuori dai loro monasteri nelle abitazioni di persone secolari, e frequentemente ammettono persone sospette all’interno degli stessi monasteri». Pertanto, affinché «completamente separate dagli sguardi del mondo, possano servire Dio più liberamente e, rimossa l’occasione di lascivia, custodire più diligentemente i loro cuori e i loro corpi in piena santità», il papa stabilisce che non possano più uscire dai loro monasteri, se non in caso di malattia grave o di altra causa ragionevole e manifesta e con speciale licenza. E questo vale e varrà per sempre, per qualunque monaca presente o futura, di qualsiasi ordine, in qualunque parte del mondo si trovi («universas et singulas moniales, praesentes atque futuras, cuiuscunque religionis sint vel ordinis, in quibuslibet mundi partibus exsistentes»). In sostanza la clausura è introdotta per il bene delle monache, per allontanarle da tentazioni e occasioni di peccato.

Il primo, breve e appunto non secondario paragrafo stabilisce che nelle comunità non vengano accolte nuove sorelle, a meno che il monastero non disponga di mezzi di sostentamento adeguati. Sono esclusi da questa prescrizione i conventi degli ordini mendicanti. Il secondo paragrafo, altrettanto breve, dispone un’eccezione per le badesse che, in virtù del feudo che il monastero detiene in dipendenza da qualche principe o signore temporale, debbano uscire per rendere omaggio e prestare fedeltà. Che si tratti di uscita breve, però, e in compagnia onesta e decorosa.

Il terzo paragrafo si dilunga invece sulla richiesta a principi e signori («chiediamo, preghiamo e imploriamo i principi e gli altri signori temporali, per le viscere della misericordia di Gesù Cristo») di permettere a badesse, priore e varie altre monache che gestiscono gli affari del monastero («abbatissas ipsas et priorissas ac moniales quascunque, monasteriorum suorum curam, administrationem negotiave gerentes») di affrontare nelle corti le questioni che lo riguardano per tramite di procuratori, in modo da non essere costrette a uscire. E se non vorranno permetterlo, che incorrano nella «censura ecclesiastica» per mano degli ordinari del luogo. «Ingiungiamo inoltre ai vescovi e agli altri prelati superiori e inferiori di trattare e risolvere i casi o le questioni che le suddette monache dovessero affrontare davanti a loro o nei loro tribunali, siano essi omaggi, giuramenti di fedeltà, cause legali o quant’altro, per tramite dei loro procuratori.»

Il quarto paragrafo, infine, «poiché sarebbe inutile stabilire leggi se non ci fossero coloro che le facessero osservare debitamente», impone a primati, arcivescovi e vescovi (e un po’ a tutto il clero coinvolto), di adoperarsi concretamente affinché nei monasteri femminili a loro soggetti sia messa in atto la suddetta clausura, a spese dei monasteri medesimi e grazie alle elemosine dei fedeli. Lo facciano appena possibile («quam primum commode») se vogliono evitare la durezza del giudizio divino e del papa («si divinae ac nostrae indignationis voluerint acrimoniam evitare»). Nel caso che si manifestino opposizioni («contradictores atque rebelles»), potranno minacciare la censura ecclesiastica e invocare, se necessario («si opus fuerit»), l’intervento del braccio secolare.

E di contradictores atque rebelles ce ne saranno eccome, almeno per due secoli e mezzo, fin dopo il Concilio di Trento…

(Il testo si può leggere nel Corpus Iuris Canonici, a cura di E.L. Richter e E.A. Friedberg, seconda parte, Akademische Druck- U. Verlaganstalt 1959, coll. 1053-1054.)

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Chi non vuole mai chiedere scusa (La Regola per le vergini di Cesario di Arles)

L’apprendistato monastico di Cesario di Arles, uno dei più famosi e tipici vescovi-monaci (e fratelli maggiori) del V-VI secolo, si compie a Lérins, «l’isola felice, che pur sembrando piccola e piatta, è conosciuta per aver levato verso il cielo monti innumerevoli». Nato nell’odierna Chalon-sur-Saône intorno al 470, Cesario entra a Lérins come novizio più o meno ventenne per uscirne più o meno trentenne, dopo aver studiato, ricoperto incarichi, appreso per esperienza le dinamiche di un monastero non piccolo e svolto anche alcune missioni. Proprio in seguito a una di queste ultime il vescovo di Arles lo «aggrega al proprio clero» e nel 503 lo indica come suo successore sulla cattedra vescovile, che Cesario occuperà, fino alla morte, nel 542: attivissimo, coscienziosissimo e ammiratissimo, ma non immemore della sua prima vocazione.

Dicevo «fratello maggiore» perché, come in non pochi altri casi, c’è una sorella, Cesaria, per la quale – o con la quale secondo altri modi di porre la cosa – fonda il monastero di San Giovanni di Arles, il primo ad accogliere la clausura per le donne consacrate; e per il quale monastero Cesario redige la Regola per le vergini, «la prima regola monastica composta esclusivamente per sacre vergini» e che «sembrò a quel tempo una grande novità, come mostra anche l’ammirazione di papa Ormisda» (che nella lettera Exsulto in Domino loda Cesario per aver fondato un monastero di vergini; proibisce ai suoi successori di osare rivendicare alcun potere sullo stesso monastero…e gli conferma i beni attribuiti).

La Regola è il frutto di una lunga elaborazione, cominciata nel 512 e conclusasi nel 534, anzi, come riportano alcuni manoscritti, rivista e firmata in forma definitiva il 10 luglio 534, «al tempo del console Paolino», e se da un lato le sue fonti sono, oltre alla Bibbia, la Regola di sant’Agostino, gli scritti di Giovanni Cassiano e gli usi di Lérins, molte delle sue caratteristiche confluiranno nelle legislazioni successive, non ultima la Regola di san Benedetto, di cui anticipa, tanto per dirne una, la prescrizione della stabilità: «Ecco quanto conviene per prima cosa alle vostre anime: se una, lasciata la sua famiglia, ha voluto rinunciare al mondo ed entrare nel santo ovile, per poter sfuggire con l’aiuto di Dio alle fauci dei lupi spirituali [non soltanto spirituali, osservano alcuni commentatori, se si pensa che “nella società del tempo, in mezzo alla quale l’elemento barbarico era preponderante, si intuiscono i pericoli che potevano correre le vergini consacrate”], non esca fino alla morte dal monastero».

Oppure la necessità di sottoporre l’aspirante monaca a molte prove [multis experimentis] prima dell’ammissione alla comunità e a un anno di probandato prima della vestizione. O ancora l’insistenza sulla rinuncia a qualsiasi proprietà personale, anche minima: «Nessuna abbia in proprio beni fuori monastero, né cosa alcuna dentro e non si riservi l’amministrazione di alcunché», perché Cesario sa bene che molte sono le monache che provengono da famiglie nobiliari che vogliono ridurre il cosiddetto fronte matrimoniale spedendo alcune figlie nel chiostro, e quindi «non si ricevano se non abbiano prima fatto nei riguardi dell’intero loro patrimonio anche modesto delle carte intestate a chi vogliono, atti di donazione o di vendita, in modo da non serbare in loro potere nulla».

È molto interessante l’insistenza su lettura e scrittura. Se da una parte non si devono accogliere giovani, nobili o no, da educare o istruire, dall’altra le consorelle «tutte imparino a leggere e a scrivere» e «in ogni stagione si dedichino alla lettura per due ore, cioè dal sorgere del sole fino all’ora seconda» [Omnes litteras discant; omni tempore duabus horis, hoc est a mane usque ad horam secundam, lectioni vacent]. A parte poi gli aspetti più prevedibili circa la preghiera, il lavoro, i rapporti con l’esterno (sui quali l’insistenza è assai ribadita), molte sono le indicazioni che tradiscono anche in questo caso la «provenienza sociale» delle monache: essenzialità nell’arredo («A nessuna sia permesso di scegliersi un quartierino a parte né di avere una camera o un armadietto [nec habebit cubiculum, vel armoriolum] o altro del genere che si possa chiudere a uso personale») e nell’abbigliamento («Abbiano tutte le vesti soltanto di colore semplice e serio, mai nere, mai bianche candide, ma soltanto grezze o colore del latte [Omnia vero indumenta simplici tantum et honesto colore habeant, nunquam nigra, non lucida, sed tantum laia vel lactine]») e nel corredo («È veramente sconveniente che sul letto di una religiosa risplendano coperte variopinte da secolari e coltri ricamate [Indecorum est, si in lecto religioso stragula saecularia, aut tapetia picta resplendeant]».

E poi lavorino (la lana), si servano l’un l’altra, si alternino negli incarichi, non si preoccupino del cibo, abbiano cura delle malate, obbediscano alla badessa, preghino; e soprattutto vivano in armonia e fraternità, senza mai rivolgersi «parole aspre e ingiurie», e se ciò accade chiedano e concedano il perdono senza indugio, perché «chi non vuole mai chiedere scusa o la chiede, ma non di cuore, e chi ne è richiesta, se non perdona, sembra non avere ragione di stare in monastero».

Sine causa in monasterio esse videtur, non c’è motivo che stia in un monastero.

♦ La Regola per le vergini si può leggere in Regole monastiche antiche, a cura di G. Turbessi, traduzione di M. Bozzi, Studium 1974, pp. 335-66; altre notizie su Cesario da Cesario di Arles, Sermoni al popolo, introduzione, versione italiana e note di P. Giustiniani e L. Longobardo, Città Nuova 2024.

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Al posto giusto (Dice il monaco, CXXVIII)

Dice sant’Agostino nel 397, prescrivendo quanto si deve «osservare nel monastero»:

Chiunque abbia recato danno a un suo fratello, con ingiurie, maldicenze, o accuse gravi, non si dimentichi di rimediare al male procurato porgendo le sue scuse senza indugio. Quanto a colui che è stato offeso, perdoni senza discutere. Se si sono recati un danno reciproco, devono perdonarsi vicendevolmente le loro offese… Se uno si lascia spesso trasportare dalla collera, ma si affretta a implorare il perdono di chi riconosce di aver offeso, è da preferire a chi forse è meno disposto all’ira ma difficilmente si decide a chiedere perdono. E colui che pretende di non farlo mai o non lo fa dal profondo del cuore, non è al posto giusto in un monastero, anche se non viene espulso. Siate dunque avari di parole dure. E se ce n’è stata qualcuna sulla vostra bocca non abbiate vergogna a rimediarvi con la stessa bocca dalla quale è venuta la ferita.

♦ Sant’Agostino, Regola, VI, 2, in Luc Verheijen, La Regola di S. Agostino. Studi e ricerche, traduzione di B. Caravaggi, revisione di G. Scanavino, Edizioni Augustinus 1986, p. 32.

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Vicendevole aiuto (Andrea Boni, «Regole religiose di ieri e di oggi»)

 Per quanto il fascino che le Regole esercitano su di me sia essenzialmente di carattere morale o, per abbassare il tono dell’affermazione, sia legato all’aspetto che si può riassumere nella risposta al «che fare?», non mi sfugge di certo la loro preminente dimensione religiosa, e altrettanto non dovrebbe quella giuridica. Cosa significa sottomettersi a una Regola? Cosa ha comportato e comporta, da un punto di vista giuridico-istituzionale, emettere una professione religiosa, o emettere dei voti? Su questi aspetti mi ha ampiamente illuminato il volume di Andrea Boni, Regole religiose di ieri e di oggi1.

Devo ammettere che ho voluto sapere qualcosa dell’autore delle «tante faticate pagine» che ho letto, e così riporto in nota un breve sunto biografico del p. Andrea Boni, ofm2. Gli lascio la parola per una prima presentazione dell’opera, che dice già molto: «Per quanto ne sappiamo, il nostro lavoro è il primo di questo genere, e si pone come chiave di lettura della storia della vita religiosa attraverso i secoli. Si tratta di un lavoro, ovviamente, di taglio giuridico, che intende perseguire la verità giuridica dei fatti e delle cose, in contrapposizione a concezioni di altra natura, che, a nostro parere, hanno nuociuto, più di quanto abbiano cooperato, alla comprensione dell’evolversi della vita religiosa». I cinque capitoli dell’opera, resi piuttosto impegnativi, va detto, da una scrittura meticolosa e attenta a dissipare anche la minima ambiguità, affrontano in successione il fondamento evangelico delle «quattro grandi regole» (eremitica, monastica, canonicale e apostolica), la loro origine istituzionale, la loro struttura istituzionale, il loro valore strutturale e la loro posizione nell’ordinamento giuridico della Chiesa.

Non sono in grado di riassumere un testo sì denso, frutto palese dello studio di una vita, ma mi sono segnato alcuni punti che mi hanno permesso di capire meglio alcuni aspetti centrali della «faccenda» che tanto mi interessa.

  • Il fondamento della vita cristiana e della vita religiosa è evangelico e non ecclesiastico.
  • La vita religiosa in particolare, che risponde, successivamente al battesimo, a un’esigenza di pienezza di vita cristiana, «si qualifica come un patto di alleanza sponsale (contratto personalmente con Cristo) di conformazione di vita con la vita casta, povera e obbediente di Cristo», sulla base di Matteo 19, 21: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».
  • I voti emessi dal religioso sono un impegno davanti a Cristo, «non possono essere imposti coattivamente da parte di chicchessia», e rappresentano un atto di adorazione.
  • Cristo non si imita, bensì «si vive», e in sostanza gli si risponde (l’iniziativa è sempre di Dio: «Il discorso vocazionale è un discorso fortemente personale: “gli altri” non ci capiscono niente»).
  • «La vita religiosa non si sostituisce cronologicamente nella Chiesa alla testimonianza dei martiri, ma prorompe immediatamente dal Vangelo.»
  • L’appropriazione della vita eterna è messa in relazione con l’espropriazione della vita terrena (ai beni della vita terrena non si rinuncia semplicemente, ma li si elargisce).
  • Per quanto vi siano somiglianze, soprattutto nella dimensione ascetica, la vita religiosa è tutt’altra cosa rispetto ai «movimenti perfezionistici extra-cristiani»: «Si è religiosi solo per amore di Cristo!»
  • La vita religiosa è stata istituita da Cristo «a livello individuale» e l’organizzazione comunitaria della vita religiosa ne è una conseguenza. «La vita religiosa è nata a livello individuale. Prima si sono avuti i religiosi e poi la loro organizzazione comunitaria.»
  • «L’organizzazione comunitaria della vita religiosa è stata determinata dall’esigenza di un vicendevole aiuto tra i “religiosi” nella realizzazione del loro comune ideale di seguire Cristo» – il monastero non è un fine, è uno strumento, «la vita comunitaria non è fine a sé stessa».
  • Le conseguenze morali che derivano dall’associazione comunitaria (le Regole) sono conseguenze morali di ordine associativo e rispondono a tutt’altri criteri. «Non è ammissibile che si possa peccare mortalmente trasgredendo i precetti di una regola religiosa, data da un uomo e fatta propria da un Ordine, quando questi precetti comandano cose moralmente indifferenti, che con il conseguimento della salvezza non hanno proprio niente a che fare.»
  • La vita religiosa, storicamente, ha avuto queste «incarnazioni»: vergini consacrate, asceti e continenti, eremiti, monaci, canonici regolari, apostolici (apostolici, non mendicanti) e chierici regolari.
  • La transizione dalla struttura decentralizzata, ogni monastero è a sé (sui iuris), a quella centralizzata, ha dato origine agli Ordini veri e propri, come entità giuridica a sé stante.
  • Il «guaio», con gli Ordini, è che spesso si è scambiata la professione associativa con la professione religiosa vera e propria. Nel tempo, in relazione alla ratifica da parte della Chiesa della professione, tale professione «si è qualificata come tacita, ed espressa, semplice e solenne, temporanea e perpetua».

Direi che può bastare (per me senz’altro), anche per avere un’idea del livello del discorso del p. Boni (che, con piena evidenza, ha letto tutto quanto è stato scritto sulla materia), ma non potrò mai consigliare abbastanza, per chi volesse approfondire, il suo volume, purtroppo di non facilissima reperibilità.

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  1. Andrea Boni, Regole religiose di ieri e di oggi, in appendice le Regole di san Benedetto e di san Francesco, Edizioni Studium 1999.
  2. Nato nel 1927 a Vinca di Fivizzano, un «ridente paesello montano della Lunigiana», Andrea Boni veste il saio francescano nella Provincia Ligure nell’agosto 1944, emette la professione solenne nell’ottobre 1949 e viene ordinato sacerdote nel giugno 1952. Compie i suoi studi a Roma, presso il Pontificio Ateneo Antonianum nel 1956, e già dalla dissertazione di laurea gli vengono riconosciuti: «capacità di analisi e di sintesi, peculiare attenzione all’evoluzione storico-giuridica delle questioni, aderenza alle fonti, obiettività ed equilibrio nel giudicare, rigore nell’argomentare, chiarezza». Di nuovo a Roma dal 1964 entra nel corpo docente dell’Antonianum, come professore incaricato di diritto canonico, e vi resta per oltre 35 anni come professore ordinario, poi emerito, e ricoprendo vari uffici accademici. Oltre i molti incarichi svolti nell’ambito del suo Ordine, come membro di numerose commissioni, specialmente giuridiche, e del collegio dei consultori per le controversie deferite al Ministro Generale, è stato Consultore presso la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e presso il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. Ha pubblicato numerose opere giuridiche, «apportando significativi contributi specialmente in ordine alla dimensione giuridico-teologico-ecclesiale della vita consacrata a Dio, i cui importanti contenuti, spesso antesignani o addirittura “contro corrente”, oggi sono divenuti “patrimonio comune” della dottrina e, in un certo senso, anche autorevolmente avallati e corroborati dai più recenti Documenti del supremo Magistero sulla consacrazione di vita nei quali, a nostro sommesso parere, in più di un caso non solo ne è stato accolto lo spirito ma persino onorata la lettera». Rientrato infine nella sua Provincia, si ferma presso il convento della SS. Annunziata a Levanto, «dove si dedica a qualche attività di apostolato, ma soprattutto al lavoro manuale nella pineta». «Conclude il suo pellegrinaggio terreno» nel dicembre 2014 ed è sepolto nel cimitero di Vinca di Fivizzano.

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«Passerò quindi a raccontare la mia storia» (La Regola di Grimlaico)

 Scritta con ogni probabilità a cavallo dell’anno 900 da un monaco di un’abbazia in diocesi di Metz, la Regola (Regula solitariorum) di Grimlaico1 si potrebbe definire un adattamento della Regola di san Benedetto per i «solitari», cioè per i monaci che vivevano da reclusi nell’ambito di un monastero, vicini quindi a una comunità e non del tutto esclusi dalla vita dei confratelli. Oltre ai numerosi prestiti dal canone benedettino, e oltre naturalmente alle citazioni dalla Bibbia, la Regola di Grimlaico attinge ampiamente, com’è normale che fosse all’epoca, alle Vite dei Padri del deserto, alle lettere di Girolamo e alle opere di Giovanni Cassiano, Basilio, Gregorio Magno e Isidoro di Siviglia, nonché da altre raccolte di citazioni. Ciò non toglie, tuttavia, che il testo sia di grande interesse sia per la sua antichità e il suo significato storico, sia per l’immagine che restituisce del suo autore, non appiattita su quella di un diligente quanto anonimo compilatore.

La struttura dell’opera è lineare, tutti gli aspetti principali della «vita solitaria» vi sono affrontati nel dettaglio, da quelli pratici (chi può essere ammesso a questa «scelta», la struttura della cella, l’abbigliamento, l’alimentazione, gli orari – della preghiera, del lavoro, della salmodia –, i rapporti con l’esterno, i rapporti con eventuali discepoli o altri eventuali solitari presenti nel monastero, e così via), a quelli ideali e teologici (il senso della vita contemplativa – «Coloro che fuggono il mondo e ricercano la vita solitaria, cominciano in qualche modo, già in questa vita, a gustare qualcosa del riposo e della pace che sperano di ottenere nella vita futura», là dove mi colpisce sempre la menzione del «riposo» come caratteristica della vita eterna e il fatto che questa anticipazione sia accessibile da soli –, le virtù che vanno coltivate, le tentazioni che vanno temute, la grazia di cui si può essere fatti oggetto).

All’interno di questa ordinata trattazione, in larga misura svolta al «noi» («noi che aspiriamo a condurre una vita solitaria») o rivolta a un «tu» («non temere o desiderare le cose temporali») o più raramente a un «voi», mi hanno colpito i passi, non pochi, in cui Grimlaico, in modi diversi, dice «io», svelando la natura di persona che osserva e riflette su ciò che osserva. Anche se si tratta di fare la canonica professione di umiltà, come quando nel Prologo, assimilandosi ai medici che approntano i farmaci raccogliendo e combinando le erbe già presenti in natura, afferma che «questo è ciò che sono anch’io! Non sono l’autore di questo lavoro, ma solo l’assistente che ha raccolto [Ita et ego, non auctor hujus operis, sed minister in colligendo exstiti]». Oppure nel caso dei molti verbi al singolare: «Mi vergogno [erubesco] di trattare il tema del falso giuramento», «Vi è un esempio nelle conferenze dei Padri. Anche se è lungo, penso [ut mihi videtur] sia utile», «Mi sento molto imbarazzato e umiliato nel proseguire [Erubesco enim et confundor ultra procedere]», «Inoltre, come dirò più precisamente [Imo, ut proprius dicam]». Molte sono poi, appunto, le osservazioni che derivano chiaramente dall’esperienza personale: «All’interno delle mura di reclusione, se è possibile, dovrebbe esserci un piccolo giardino, nel quale può piantare e raccogliere alcune verdure e prendere una boccata d’aria fresca, cosa che gli farà molto bene [quia multum ei proderit tactus aeris]», «Una persona irascibile è uno che è sempre arrabbiato e si inquieta al minimo alito di una risposta, come le foglie agitate dal vento [Iracundus enim est, qui semper irascitur, et ad levem responsionis auram, quasi a vento folium commovetur]».

Ci sono poi due capitoli, il 27 e il 28, in cui l’esposizione di indicazioni e precetti si interrompe e Grimlaico si produce in un «lamento» sui tempi presenti nei quali nessuno è più disposto a fare fatica per seguire i comandamenti del Signore, tutti cedono alle proprie debolezze e si abbandonano ai vizi. Uno dei quali è quello di giudicare gli altri, già, perché «non troverete quasi nessuno esente da questo peccato, né una persona del mondo, né un monaco e nemmeno un solitario [a quo vitio neque saeculi hominem, neque monachum, neque etiam solitarium ullum facile reperies liberum]». Ma ditemi, sbotta Grimlaico, è così difficile, eh? «Quanta fatica ci vuole per evitare di giudicare qualcun altro? [Nam dic mihi, quid laboris habet ut non judices alium?]» E ancora, persino chi desidera vivere da recluso, prendendo su di sé la croce di Cristo, in realtà si preoccupa anzitutto del proprio benessere: «Mentre raccolgono informazioni sui monasteri o sui luoghi di reclusione in cui potrebbero vivere, s’informano soprattutto sulla tranquillità e le comodità». E affinché non si pensi che sia capace solo di criticare, Grimlaico si fa avanti in prima persona anche qui: «Forse qualcuno potrebbe pensare che nel dire queste cose io stia solo cercando dei difetti. Passerò quindi a raccontare la mia storia [Verum ne me existimet aliquis haec dicendo alios incusare, jam nunc de meipso narrabo]». E lo fa: quando ha cominciato a pensare di rinunciare al mondo, ha riflettuto a lungo «su dove e come avrei voluto vivere; nella solitudine sì, ma a patto che non mi mancasse nulla per il bisogno del corpo». Cioè?

Cioè «gli indumenti e le lampade, la legna, la verdura e cose del genere».

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  1. Grimlaico, Senza che si oda la loro voce. Regola per eremiti, a cura di p. M. Di Monte, traduzione di A.J. Casiraghi e M. Di Monte, Monasterium 2020 (prima traduzione italiana).

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Basilio risponde (le «Regole brevi»)

BasilioRegole È così facile, e bello, immaginare il grande Basilio attorniato dai giovani monaci delle comunità cui offriva il suo sostegno mentre, nella semioscurità, risponde alle loro domande sulla vita cristiana. È lui stesso a ricordare, in una lettera del 375 a Eustazio di Sebaste, la circostanza: «Visitavo le fraternità e vi passavo le notti in preghiera, e parlavo e ascoltavo, intrattenendomi in discorsi su Dio». Era lui stesso, come si è visto, a sollecitare quelle domande, per «passare quel che resta della notte nella ricerca sollecita di ciò che è necessario». E per rispondere attingeva alla Scrittura (soprattutto al Nuovo Testamento e in particolare ai Vangeli, agli Atti e alle Lettere paoline), unico vero codice della vita cristiana, in cui sono contenute tutte le risposte. Sì, nella Scrittura si possono trovare tutte le risposte, ma non tutte le domande.

Quelle che oggi, per nostra fortuna, possiamo leggere sotto il titolo generalmente accettato di Regole brevi1, anche se vere e proprie regole non sono, non è «soltanto una testimonianza di valore storico incalcolabile, ma una ricchissima summa di sapienza evangelica» (Umberto Neri): trecentodiciotto domande e risposte che spaziano da semplici e assai meno semplici questioni di esegesi biblica a questioni molto concrete sui problemi minuti del vivere quotidiano in comunità. Leggendole, tra l’altro, si può cogliere il meccanismo grazie al quale si è passati da sequenze potenzialmente infinite appunto di singole questioni, ai testi che conosciamo come «regole», nei quali le domande si coagulano in categorie e trovano una sintesi, dal particolare al generale: come si prega, come ci si veste, come si mangia, come si accolgono i nuovi arrivati, e gli ospiti, e così via. E forse, soprattutto, leggendole, si prova la netta e impagabile sensazione di trovarsi di fronte alla trascrizione di scambi di battute che si sono realmente verificati.

Basilio, maestro di vita cristiana, risponde a tutto, con un’infinita pazienza che traspare dai testi, tracciando l’immagine di una comunità di persone serie, ispirate dalla carità, pronte all’obbedienza, soccorrevoli le une con le altre, attente a non far mai prevalere se stesse sui fratelli. Una comunità ideale di perfetti che tuttavia, proprio attraverso le domande, riconoscono le proprie imperfezioni, le mancanze, il bisogno di perdono reciproco. Sono le domande che traducono l’ideale in realtà.

E poi ci sono i casi particolari e particolarissimi, che inevitabilmente catturano l’attenzione, proprio perché dimostrano che di reali situazioni vissute si tratta (e testimoniano l’eternità dell’aspirazione al «che cosa devo fare, che cosa dobbiamo fare?»). Gli esempi sono numerosi: Da dove provengono le sconvenienti fantasie notturne? (Tra parentesi: «Dai moti disordinati dell’anima durante il giorno».) Com’è possibile non adirarsi? Se chi viene svegliato se ne risente o addirittura si adira, che cosa merita? Se uno, pur rifiutando gli indumenti più preziosi, tuttavia vuole che l’abito o le calzature, anche se di poco prezzo, siano di suo gradimento, commette peccato? Se uno in comunità si comporta in modo sconveniente durante il pasto mangiando e bevendo con ingordigia, bisogna rimproverarlo? È permesso avere una veste di pelo o di altro genere per la notte? Come dobbiamo considerare quelli che un tempo hanno vissuto con noi o i parenti che vengono a farci visita? Fino ai sempiterni problemi di carattere fiscale: Se uno viene in comunità lasciando delle tasse da pagare e i suoi parenti sono molestati a causa sua da chi reclama il pagamento, questo non genera forse indecisione e danno per lui o per quelli che l’hanno accolto? (Tra parentesi, risposta prevedibile: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare…» a meno che il «novizio» non abbia lasciato tutto ai parenti…)

Anche in questi casi Basilio risponde con pazienza, ricorrendo spesso a un insieme ristretto di citazioni che si adattano un po’ a tutto, quasi dei passe-partout sempre buoni all’occorrenza. Anche quando la domanda è al limite dello sconveniente. Domanda: «È possibile dedicarsi incessantemente alla preghiera dei salmi oppure alla lettura o a profonde conversazioni sulle parole di Dio senza che vi sia alcuna interruzione per quelli cui accade di dover provvedere ai più vili bisogni del corpo? (Un bel giro di parole per chiedere cosa fare quando scappa…) Risposta di Basilio: «L’Apostolo ci indica la regola da seguire dicendo: Tutto avvenga con decoro e ordine. Bisogna perciò aver cura del decoro e del buon ordine, e tener conto del luogo e del momento».

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  1. Basilio di Cesarea, Le regole. Regole lunghe, Regole brevi, nuova edizione rivedute e ampliata, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2022. Vedi anche Basilio di Cesarea, Opere ascetiche, a cura di U. Neri, traduzione di M.B. Artioli, Utet 1980.

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Basilio e il «chilometro zero»

Nella sezione incentrata sulla temperanza delle sue Regole lunghe1, destinate a definire una «vera vita cristiana», Basilio di Cesarea, il grande Basilio, risponde a quattro «domande» (18-21) sulla questione del cibo, a cominciare da una che ha una singolare risonanza attuale: «Bisogna assaggiare ogni cibo che ci viene messo innanzi?» La risposta è sì, poiché tutto ciò che Dio ha fatto è buono: «Occorre che, quando se ne presenta l’occasione, si prenda ogni cibo per mostrare a quelli che ci guardano che… ogni creatura di Dio è buona e nulla va rifiutato, se…» Se? Se si rende grazie e si sta attenti al piacere, «la grande esca del male». Cibi semplici e non più del necessario, evitando assolutamente la sazietà, «quanto a quelli che procurano piacere, dopo averne assaggiato un poco, ce ne ritrarremo subito» – un quadratino di cioccolato al massimo. (Non andrebbe passato sotto silenzio quell’«a quelli che ci guardano», quelli cioè che non vedono l’ora di prendere in castagna il cristiano continente per giustificare la propria incontinenza.)

D’altra parte non «è possibile stabilire un’identica regola per tutti riguardo all’orario dei pasti, al modo o alla misura con cui prendere cibo», poiché diverse sono le età, le costituzioni e le occupazioni; ci sono i malati, c’è chi fa un lavoro pesante, chi viaggia, ecc. Ogni giorno il corpo si svuota e si consuma, quindi «ha bisogno di essere riempito», è naturale, dunque «l’uso corretto dei cibi suggerisce di immettere ciò che è stato esaurito per provvedere al sostentamento dell’essere vivente sia per i cibi solidi sia per i liquidi» – non dimenticare una corretta idratazione.

Cibi semplici ed economici, si diceva, in nome della sobrietà ed evitando le ricercatezze, con una curiosa anticipazione del famigerato «chilometro zero»: «Bisogna invece scegliere ciò che in ciascuna regione è facilmente reperibile, costa poco ed è di uso comune». Prodotti esotici («da fuori») solo se assolutamente necessari per vivere («quali l’olio e simili») o utili ai malati.

E se abbiamo ospiti? Sempre massima sobrietà, sia nei cibi offerti sia nel cosiddetto tovagliato. Non è proprio il caso di pensare a qualcosa di diverso dal nostro solito, o peggio di raffinato e lussuoso, perdendo tempo, denaro e soprattutto umiltà. Se l’ospite è un fratello (nella fede), «riconoscerà la mensa a lui familiare»; mentre se è «uno di quelli di fuori» (e qui la curatrice annota «cioè un non credente», cosa che mi spinge ad adottare per me d’ora in poi questa definizione di derivazione paolina: uno di fuori), nel caso si irritasse o ridesse di noi, meglio: «non ci darà noia una seconda volta». «Il modo di vivere del cristiano ha una sola forma», che si applica quindi anche alla tavola, che in nessun caso deve superare i confini del necessario, al di là dei quali c’è soltanto l’abuso, cioè «quel consumo che va oltre il bisogno».

Un’ulteriore nota per quanto riguarda i posti a tavola. Il comandamento sia quello dell’umiltà, cioè preferire sempre l’ultimo posto, evitando però quei ridicoli balletti del tipo prego-si-metta-a-capotavola, no-no-spetta-a-lei, dopo-di-lei, no-prego-dopo-di-lei, insisto… «Ed anche l’insistere l’un con l’altro e litigare per questa ragione ci renderà tali e quali a quelli che litigano per i primi posti.» L’ordine dei posti lo stabilisce chi ospita, «come ha suggerito il Signore dicendo che spetta al padrone di casa decidere queste cose». Definitivo.

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  1. Basilio di Cesarea, Regole lunghe, 18-21, in Le regole. Regole lunghe, Regole brevi, nuova edizione rivedute e ampliata, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2022, pp. 133-41.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 3/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui, la seconda qui)

Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.

Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».

Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».

Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?

Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».

Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?

(3-fine)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 2/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui)

Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx1, infatti molte «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono che si sufficiente rinchiudere tra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni», eccetera eccetera; e poi stanno sempre a parlare con qualche «vecchia garrula e pettegola», si fanno raccontare le cose del mondo e poi ci rimuginano, si figurano quanto hanno ascoltato, si preoccupano delle loro proprietà, dei soldi, scrivono lettere, fanno regalini o addirittura «mandano cinture e borse intessute e ricamate con colori variopinti a giovani monaci e chierici». Insomma, fanno entrare dalla finestra (quella maledetta finestra) quel mondo turpe che si sarebbero lasciato alle spalle, e con esso il Tentatore e il suo veleno. Anche le attività più apparentemente nobili sono pericolose, come occuparsi dell’insegnamento di ragazzi e ragazze, trasformando la cella in una scuola. La scena descritta da Aelredo merita di essere riportata per intero: «La reclusa siede alla finestra [appunto], mentre le ragazze si raggruppano nel portico [del chiostro, quindi]. Le guarda una a una, e secondo i loro comportamenti infantili, ora si adira, ora ride, ora minaccia, ora blandisce, ora picchia, ora bacia, ora tira vicina una che piange per essere stata castigata, le accarezza il volto, se la stringe al collo, la trascina a sé con abbracci, la chiama “figliola mia, tesoro”». Si guardi da tutto questo, la reclusa! Per le sue necessità si scelga «una donna anziana» e posata che faccia la guardia alla porta e che tenga al suo servizio «una ragazza più forte e capace di fare i lavori faticosi, che porti l’acqua e la legna, faccia cuocere le fave e gli ortaggi o, se una malattia lo richiede, prepari cibi più sostanziosi». Tu, mia amata sorella reclusa, sposa di Cristo, «tu sta seduta, sta zitta, aspetta».

Sistemati gli aspetti pratici (orari, lavoro manuale, letture, digiuni, abbigliamento), nella seconda parte Aelredo passa in rassegna la «disciplina interiore delle virtù». La verginità, anzitutto, il tesoro più prezioso, poi la castità (che non può prescindere dalle privazioni e dalle mortificazioni, che non devono spaventare, «come se la fiamma della libidine fosse più tollerabile dei bruciori di stomaco»), l’umiltà (occhio, che «c’è anche una sorta di vanità nel compiacersi di una cella curata con eleganza») e infine la carità. Ma come può la reclusa nella sua condizione esercitare l’amore per il prossimo? Con la volontà buona e con la preghiera: «Abbraccia dunque tutto il mondo nell’unico grembo dell’amore, e lì pensa a tutti quelli che sono buoni, e rendi grazie, e insieme guarda a quelli che sono cattivi, e piangi». L’unico modo santo in cui il mondo può rientrare nella cella è tramite l’orazione, che rappresenta la sola prospettiva dalla quale la monaca deve osservarlo e amarlo, senza distinzioni: i poveri, gli orfani, le vedove, i tristi, i pellegrini, le vergini, i naviganti, i monaci tentati, i prelati carichi di responsabilità, persino coloro che sono in guerra: tutti costoro sfilano in corteo nella preghiera della reclusa.

La terza e ultima parte della Regola accoglie tre meditazioni sui beni passati, presenti e futuri, o più esattamente attesi: tre testi molto belli che possono anche essere letti separatamente dal resto e che ebbero larga fortuna, tanto da essere attribuiti ad altri autori e da essere inseriti nella diffusissima raccolta di Meditazioni intestata a sant’Anselmo. Le meditazioni mirano a suscitare una serie di immagini capaci di accendere sentimenti di devozione e pietà, creando una «memoria affettiva» cui attingere durante la quotidiana lotta per la conquista delle virtù: un metodo che anch’esso avrà larga fortuna. Quella sul passato è una ricapitolazione dei principali episodi evangelici, durante la quale dobbiamo immaginarci testimoni diretti dei fatti, insieme con gli apostoli, col paralitico, con l’adultera o presenti all’ultima cena come quattordicesimi convitati. La seconda meditazione, rivolta al presente, è per così dire quella più autobiografica, in cui si passa in rassegna il bene che si è ricevuto e il male che si è fatto (e Aelredo confessa apertamente il suo), e la certezza che l’aiuto di Dio non mancherà mai a chi lo chieda. La terza meditazione si concentra infine sui cosiddetti «novissimi», cioè morte, giudizio, inferno e paradiso. Qui, se ripensiamo a quanto accennato sull’esperienza, possono sorgere dei problemi. Aelredo si affida, comprensibilmente, alla Scrittura, ma conclude la parte sull’«eterno riposo» che attende i beati con un commento molto significativo: «Per la verità, cosa sarà quel riposo, quella pace, quella felicità… la penna non lo può descrivere perché l’esperienza non l’ha ancora insegnato».

Similmente il paradiso si disegna al negativo, per tutto quello che in esso mancherà, che non è altro che ciò che affligge gli esseri umani, in sintesi: la vita, riassunta in un brutale elenco, non privo di un dettaglio inatteso: nessun lutto, o pianto, «o dolore, o timore, nessuna tristezza, nessuna discordia o invidia, nessuna tribolazione, nessuna tentazione, nessun cambiamento di tempo, né un cielo coperto di nuvole, nessun sospetto, né ambizione, né adulazione, né calunnia, nessuna malattia, né vecchiaia, né morte, non povertà, né tenebre, nessun bisogno di mangiare o bere o dormire, nessuna fatica, nessuna debolezza».

La formula con la quale Aelredo definisce il paradiso è memorabile: «Cosa sarà questo regno noi non riusciamo a immaginarlo, tanto meno a esprimerlo in parole o a metterlo per iscritto. Questo so, che niente mancherà di quello che tu desideri e che niente ci sarà che tu non voglia».

(2-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 1/3)

RegolaDelleRecluse Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.

Per molti secoli, tuttavia, la reclusione volontaria si appoggia, per così dire, ai monasteri, che ospitano al loro interno celle dalle quali, con il consenso della badessa o dell’abate, monache e monaci non escono mai, pur intrattenendo, per forza di cose, alcuni contatti con il resto delle comunità4. Per quanto «fuori dal mondo», le recluse devono pur mangiare (poco), devono pur fare qualcosa (oltre pregare), sono sepolte, sì, ma pur sempre vive. Si dà, quindi, la necessità di una «regola per le recluse», e Aelredo, secondo le ricostruzioni degli studiosi, arriva per terzo, dopo Grimlaico, egli stesso recluso, che redige una Regola dei solitari verso la fine del IX secolo, e Pietro il Venerabile, il sommo abate cluniacense, che qualche tempo dopo il 1134 scrive a Gisleberto (o Gilberto), recluso a Senlis, una lunga lettera, tradizionalmente tramandata come un trattato sulla vita eremitica.

La Regola di Aelredo, che viene datata intorno al 1160, è dedicata alla sorella maggiore (di cui purtroppo non si conosce il nome) e questo le conferisce un tono di particolare partecipazione emotiva che, insieme con le notazioni autobiografiche che Aelredo vi sparge, ha suscitato altrettanta partecipazione anche nei lettori più recenti. Anche senza considerare Aelredo come «il più poliedrico degli autori della prima generazione cistercense» (D. Pezzini), e che anch’egli ha vissuto un’esperienza di semi-reclusione (circostanza decisiva per un cistercense: si scrive e si parla di ciò di cui si ha esperienza) quando, da abate di Rievaulx, tormentato da una serie di malanni, si era fatto costruire una specie di eremo a lato del chiostro (il suo biografo lo chiama mausoleum, tugurium e secretarium) nel quale riceveva i confratelli, e mettendo infine da parte la sua fama di cantore dell’amicizia monastica, la lettura della Regola delle recluse, anche astraendo dal suo contesto storico, è interessantissima.

Anzitutto, forse, per la concretezza (anch’essa decisamente cistercense) con la quale Aelredo attacca il suo argomento. Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx…

(1-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003. L’estesa introduzione di Domenico Pezzini è quanto di più utile per un primo orientamento sul fenomeno della reclusione volontaria.
  2. Jean Leclercq sintetizza ottimamente come l’eremitismo rappresenti il paradosso di una vocazione «a praticare l’obbedienza senza superiore, la carità senza fratelli, e l’apostolato senza azione».
  3. Una dimensione che in varie forme si è perpetuata sino ai giorni nostri, ad esempio in realtà che vengono definite «monachesimo interiorizzato» o «eremitismo urbano».
  4. Scrive lo studioso inglese Giles Constable (citato da Pezzini) che la presenza di celle per reclusi nei monasteri «in certi casi funzionava come valvola di sfogo per attività religiose incompatibili con la vita di comunità, e anche, bisogna aggiungere, per membri della comunità che risultavano essi stessi incompatibili».

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