(la prima parte è qui, la seconda qui)
Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.
Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».
Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».
Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?
Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».
Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?
(3-fine)
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- Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.
(la prima parte è
Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.
Donne esistite, con nome e luogo, e da un certo punto in poi anche cognome: Lutgarda di Tongres, Eliena di Laurino, Chelidonia di Subiaco e Verdiana di Castelfiorentino, «murata nella sua cella-sepolcro in un silenzio abissale e definitivo»; Monegonda di Chartres, Berta di Blangy, Liutbirga sassone, Viborada di Turgovia, martire della cella (in una miniatura sangallense si vedono i suoi uccisori penetrare dal tetto della cella, svellendo le tegole, per aggirare la porta sbarrata); Umiltà da Faenza, Cristina da Markyate e Cristina l’Ammirabile, Herluca di Bernried, Alpaide di Cudot, Marie Robine di Avignone, «reclusa stipendiata dal papa» Clemente VII; Benvenuta Boiani, Vanna da Orvieto e Gherardesca da Pisa, Filippa Mareri, Oringa Menabuoi e Diana Giuntini; e Giuliana di Norwich, «la donna inglese di cui si conosce soltanto il nome e che depone nel suo libro una dottrina di eccezionale densità speculativa»; e Ugolina da Vercelli, registrata come «eremita selvaggia»…