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Lattughe e relativi condimenti (il primo libro dei «Dialoghi» di Gregorio Magno)

 Già che ho messo il piede nel mirabile Prologo del primo libro, mi son detto, perché non leggerli, una buona volta, i Dialoghi di Gregorio Magno? Una di quelle opere così sovraccariche di commenti, studi critici, apparati filologici e così disseminate in citazioni di ogni tipo che rischio spesso di dare per scontate, se non acquisite: ah, certo, i Dialoghi, la Vita di san Benedetto1

Senza la minima pretesa di cogliere dettagli passati inosservati – di questo genere di opere tutto è stato già colto da generazioni di lettori attrezzatissimi2 –, è molto bello leggere in libertà e soffermarsi sui particolari che attirano la propria attenzione, come se si fosse lì con il diacono Pietro ad ascoltare i racconti di un papa (590-604) un po’ stanco e senza tiara.

Alcune annotazioni sembrano perfette per confermare persistenti modi dire, come «certe cose non cambiano mai»: «Si diceva allora in giro [rumor exierat] che nel monastero di quel servo di Dio ci fosse molto denaro»; o «l’abito non fa il monaco»: l’abate Equizio «indossava vesti molto modeste ed era di aspetto così dimesso che, se avesse salutato uno che non lo conosceva, costui avrebbe disdegnato di rispondere al saluto».

Ci si imbatte spesso in opinioni espresse chiaramente in prima persona: «Io considero [ego enim… credo] la virtù della pazienza più importante di segni e miracoli»; «Io invece ritengo, Pietro…» [Ego, Petre… existimo]; «Io ho sempre gradito parlare con persone anziane» [Mihi senum conlocutio esse semper amabilis solet]; allo stesso modo è evidente come talvolta Gregorio non stia parlando di altri che di sé: «Il fatto è che il cumulo delle incombenze rovina l’anima di ogni vescovo; e quando essa si divide in più occupazioni, si svilisce in ciascuna di queste».

C’è un vasto insieme di spunti che testimoniano «la modestia sociale del clero e le difficoltà economiche della chiesa» (una «chiesa minore, non opulenta né autoritaria», la cui povertà peraltro aiuta a custodirne l’umiltà) e l’attenzione verso gli aspetti più basilari, come l’alimentazione: seminare, raccogliere, galline, finito l’olio, anche il vino, per non parlare del grano, un po’ di erbe aromatiche, ecc. Al capitolo 3 troviamo il monaco ortolano che scaccia il ladro che gli devasta l’orto con l’aiuto di un serpente; poi scopriamo che l’occasione di tentazione per una monaca, che scatena l’azione del diavolo, è un’innocente insalata: «Adocchiata una lattuga [lactucam], le venne il desiderio di mangiarla»; quando un emissario del papa va a cercare Equizio, lo trova impegnato a falciare il fieno e si sente rispondere: «Finisco il lavoro e ti seguo»; il presbitero Severo rimanda un intervento perché «in quel momento era casualmente occupato a potare la sua vigna»; i confratelli di Martirio che «cuocevano il pane sotto la cenere e si dimenticarono  di imprimere con un pezzo di legno il segno di croce sul pane crudo in modo che sembrasse diviso in quattro parti» (come si usa da quelle parti, aggiunge Gregorio); ancora cogliamo il priore Nonnoso mentre osserva le balze scoscese (del Soratte) su cui sorge il suo monastero, e «si mise a pensare che quel piccolo spazio avrebbe potuto essere adatto almeno a farvi crescere gli aromi con cui condire la verdura» – il miracolo sta, è ovvio, nel potere della preghiera (che libera il «piccolo spazio» dai sassi): «È veramente meraviglioso che Dio si degni di esaudire le preghiere di chi spera in lui, anche in cose di poco conto», nondimeno le verdure saranno diventate più saporite…

La dimensione di questi racconti e dei relativi miracoli è prevalentemente rustica, paesana, centro Italia, si deve sgobbare, ci si ammala la mattina e si muore la sera, sera in cui non si può che stare intorno al fuoco, i Goti imperversano (e bevono «da Goti»), i cavalli costano… ma anche dal più piccolo segno si può trarre una lezione morale, tutt’altro che piccola, e nelle più piccole circostanze si può trovare la prova di una grande santità. Ci pensi? chiede a un certo punto Gregorio a Pietro. Eccome, risponde Pietro, «e resto stupefatto».

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), volume I (Libri I-II), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
  2. Erich Auerbach, tanto per dire, ha scelto tre racconti di Gregorio e li ha analizzati «come esempio di “realismo” medievale e di stile popolare».

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Il mare, davanti, di fianco e di dietro (Riccardo di San Vittore)

 Per prolungare la sosta presso la prestigiosa Scuola di San Vittore ho letto il De exterminatione mali et promotione boni di Riccardo1, che è un bel trattato di avviamento alla contemplazione dei cælestia, composto intorno al 1160, non molto prima che dell’abbazia parigina che ospitava la suddetta scuola Riccardo diventasse priore2.

È un testo pieno di immagini e metafore acquatiche (mari, fiumi, torrenti, onde, correnti, abissi), soprattutto nel Libro primo, che per svolgere l’argomento del disprezzo del mondo e di sé prende le mosse dal versetto 5 del Salmo 114 (113), quello che comincia con «In exitu Israël de Ægypto» e prosegue celebrando l’elezione di Israele e l’ossequio degli elementi «al passaggio della maestà divina attraverso il popolo». Dice appunto il versetto: «Che hai tu, mare, per fuggire, / e tu, Giordano, per volgerti indietro?»3, ricordando i famosi episodi di Mosè «che stese la mano sul mare» e della traversata prodigiosa del Giordano di Giosuè e degli israeliti. Curiosamente, per la sensibilità moderna, il mare di Riccardo è prevalentemente un’immagine negativa, «infatti il peccato è il mare, dal momento che non è in grado di fornire acqua dolce».

Il disprezzo del mondo e di sé sono due passaggi obbligati, come lo furono quelli appena ricordati. Quando gli israeliti uscirono dall’Egitto, dapprima il mare era davanti al loro come un ostacolo; poi, quando si aprì, fu difesa sui due lati; infine, alle spalle, fu sicurezza. Allo stesso modo «il mare di fronte a noi è la paura dei pericoli futuri. Il mare di fianco a noi è la fatica delle lotte che incombono. Il mare dietro a noi è il dolore delle malvagità compiute». E ancora, il mare, questa «onda di amarezza», per taluni è qui, nella vita/via presente, per altri è al di fuori di questa vita/via; il dolore per i beni eterni che temiamo di perdere «è il mare a destra», quello per i mali eterni che temiamo di meritare «è il mare a sinistra»: «Con ragione, se siamo ragionevoli per entrambi dobbiamo avere timore, soffrire e piangere […]. Abbiamo così un doppio mare che ci fa inesorabilmente da muro, da entrambe le parti».

E ancora, attraversare sì, ma rendendosi conto del miracolo: considerate, infatti, «se sia stato forse sufficiente per noi e per voi l’aver mutato luogo, ma non l’animo; coloro che corrono al di là del mare cambiano la condizione ma non l’animo» (qui un corsivo, mio ci sta). Bisogna quindi uscire dall’Egitto con il corpo, ma anche con il cuore, ma questo secondo «passaggio» non è cosa di un momento. Il disprezzo del mondo è «affare di un giorno», il disprezzo di sé è il lavoro di una vita: «È duro, difficile, grandioso, abbandonare sé stessi, esaminarsi in profondità e disprezzarsi fino in fondo, mettersi del tutto alla prova e respingersi completamente». Poco alla volta bisogna educarsi, imparare, cambiare… cioè far sì che la dolcezza ingannatrice dell’acqua del «torrente della cupidigia carnale» si annulli nell’amarezza del mare, che il peccato si sciolga nella penitenza, che poco alla volta il flusso («l’impeto violento della carne») languisca e infine si arresti… Inverti la corrente, come accadde al Giordano, non lasciare che le acque fluiscano in basso, «non sai che tutte le acque che scorrono verso il basso scendono al mare? Tutti i fiumi si gettano nel mare e ogni infimo desiderio si risolve in dolore».

Come mi piacerebbe sapere se nella sua non lunga vita, una cinquantina di anni passati per la maggior parte nell’abbazia di Parigi, dopo una, pare, brevissima infanzia scozzese, irlandese o inglese, Riccardo abbia mai passato una giornata di totale sereno su una spiaggia inondata dal sole più caldo e battuta dai cavalloni. Secondo me no (ma non gliene faremo una colpa).

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  1. Riccardo di San Vittore, Lo sterminio del male (De exterminatione mali et promotione boni), a cura di D. Racca, Il leone verde 1999.
  2. E non si dimentichi l’apprezzamento dantesco: «Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro / d’Isidoro, di Beda e di Riccardo, / che a considerar fu più che viro» (Paradiso, X, 130-132).
  3. «Quid est tibi, mare, quod fugisti? / et tu, Jordanis, quia conversus es retrorsum?»

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Sarebbe meglio (Il disprezzo del mondo di Ugo di San Vittore)

 Si fa presto a dire «disprezzo del mondo». E si fa presto a pensare che si tratti di un tema ricorrente della letteratura monastica, si direbbe connaturato a essa, che nel tempo si sia fossilizzato fino a diventare uno «standard» che, pur con variazioni di stile, sia stato eseguito sempre più o meno nella stessa maniera: «Si è pensato al contemptus mundi come a un fenomeno caratterizzato da una omogeneità tematica tanto forte da giustificare l’ipotesi di una certa povertà d’ispirazione, di una mancanza di «impegno» che rivelerebbe un compiaciuto indulgere a un luogo comune. Di qui il disinteresse per i vari trattati sul disprezzo del mondo, che si limiterebbero a ripetere monotonamente alcuni determinati clichés, una serie di motivi consunti dalla tradizione». Il libro di Francesco Lazzari1 aiuta a dissipare l’errore, e lo fa, dopo un’accurata ricognizione delle opere in questione: oltre milleduecento anni di disprezzo, dalla prima compiuta teorizzazione di sant’Ambrogio (De fuga saeculi) alle esauste propaggini seicentesche, concentrandosi sugli autori della Scuola (dell’abbazia parigina) di San Vittore, i mai troppo considerati «vittorini», in particolare Ugo (m. 1141) e il suo allievo Riccardo (m. 1173), tra i massimi protagonisti di quella che l’autore chiama «la grande fioritura del XII secolo» e che raggiunse il suo culmine con l’«esasperata violenza» del famoso De miseria humanae conditionis di Lotario di Segni, poi Innocenzo III2.

La miseria della condizione umana: secondo alcuni interpreti, come ricorda l’autore, questa dottrina che stabilisce l’antagonismo tra cielo e terra sarebbe «alle radici stesse del cristianesimo» e quindi «sarebbe responsabile, almeno in parte, del dramma dell’epoca moderna in Occidente». Il Lazzari non aderisce a tale visione e sostiene che il contemptus mundi «è aspirazione a Dio, desiderio di purezza, ma non per questo chiusura totale di fronte alla “società”. […] l’atteggiamento negativo di rifiuto non vi si dissocia mai da una volontà positiva di trasformazione del mondo». Non è altresì un atteggiamento astratto e disincarnato, bensì una posizione di rottura col mondo che «contrasta con l’ingenuo sentimento di fusione in cui vive l’uomo che è perso nella banalità del quotidiano». È l’esperienza di un individuo, per esprimere la quale ha sì a disposizione un ventaglio di cliché, ma che non esclude il proprio accento personale diverso da autore ad autore.

Nel De vanitate mundi di Ugo, ad esempio, il disprezzo è esortazione alla scoperta dell’autentico slancio della condizione umana che non può esaurirsi nell’orizzonte terreno. «Ugo dimostra chiaramente di amare la vita e di saperne apprezzare gli aspetti positivi», ma è oppresso dalla caducità, dalla transitorietà di tutto ciò che possiamo amare – persone e cose – e dall’angoscia che ne deriva: «Il contemptus nasce dal confronto tra il desiderio umano e l’incapacità delle cose ad appagarlo, tra l’aspirazione alla felicità e lo spietato rifiuto del mondo». Non resta, pertanto, che estirpare il desiderio (qui, tra l’altro, il Lazzari ricorda l’osservazione di Jaspers che stabiliva un parallelo «tra alcune posizioni del contemptus mundi medievale e il nucleo essenziale della Weltanschauung buddistica»).

«Sarebbe meglio», dice un po’ sottovoce Ugo, «che nessuno dei viventi morisse piuttosto che nascesse qualcuno destinato a sopravvivere a chi muore», un’affermazione che ha fatto dire a uno studioso tedesco che pare che «in queste parole sia racchiusa una tragica insoddisfazione per l’opera creatrice di Dio». E ancora: «Le forme delle cose visibili sono foglie [Si sta come d’autunno…]; che all’inizio sembrano belle e verdi, ma cadono all’improvviso quando arriva la tempesta». Bisogna però notare, avverte il Lazzari, che «dal tono sconsolato della considerazione sull’inevitabilità della morte, trapela quell’amore della vita che è l’elemento fondamentale del De vanitate mundi: «Sopportiamo qualunque rimedio del nostro dolore, ma non pensiamo che in esso risieda la gioia della felicità».

Perché il disprezzo per Ugo non è fine a se stesso, bensì strumento per raggiungerla, questa benedetta felicità; il contemptus mundi è infatti la premessa necessaria dell’amor Dei, in cui il tempo si annulla, e soprattutto si annullerà («L’instabilità degli istanti che compongono il tempo è la prova più eloquente della sua mancanza di valore»), e l’essere trova, e soprattutto troverà la sua stabilità e infine la sua pace3.

Se transeunte è ciò che l’uomo ha, non meno di ciò che egli è, Ugo, e il tempo è dolore, forse possiamo accontentarci anche del suo annullamento.

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  1. Francesco Lazzari, Il contemptus mundi nella Scuola di S. Vittore, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli, 1965.
  2. Che, detto tra parentesi, è uno dei testi che mi ha sospinto verso le «cose monastiche».
  3. «Il significato del contemptus mundi nella dottrina di Ugo non è dunque l’isolamento per l’egoistico scopo di una salvezza di sé che abbandoni tutto il mondo alla nullità e alla perdizione. È un riscatto di cui l’uomo solo può decidere, ma che tocca ogni essere, mira a salvare la bellezza di ogni vita, rendendola nel suo essere per Dio libera da ogni strumentalità rispetto al desiderio umano.»

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Come si vola in una giornata tranquilla (san Columba e Iona)

 Dopo oltre tredici anni ho riletto la Vita di san Columba di Adamnano di Iona, sia perché nel frattempo ne è uscita una traduzione italiana1, sia perché è uno dei rari testi che conosco che mantiene con il «suo» luogo un rapporto molto forte: a suo tempo ho visitato l’abbazia di Iona, e l’impressione di essere lì, dove e quando si svolgono i fatti narrati da Adamnano, forse non è stata del tutto illusoria. Quando ad esempio, subito al capitolo 4 del primo libro, Columba profetizza l’arrivo di alcuni ospiti all’abbazia e uno dei fratelli dice: «Chi può attraversare lo stretto in sicurezza, per quanto corto sia, in un giorno così pericoloso e tempestoso?», chi è stato a Iona non può non ricordare il piccolo braccio di mare che la separa dall’isola di Mull e il traghettino che si prende per raggiungerla…2

(foto Potts)

 Comunque, devo dire che me la ricordavo abbastanza bene, la Vita di san Columba. Questa volta mi hanno colpito soprattutto gli episodi nei quali sono presenti, protagonisti o meno, degli animali. Perché va da sé che il santo, oltre a essere in prefetta comunione con Dio, lo è con i pensieri degli uomini, con i movimenti della natura (sole pioggia, acqua terra, mare vento tempesta) e appunto con gli animali, quelli buoni, che vanno aiutati con generosità, quelli smisurati, che vanno temuti e magari evitati, quelli cattivi, che vanno affrontati con fermezza – un po’ come accade per le circostanze della vita.

Quindi balene, che rendono pericolose le frequenti navigazioni tra un’isola e l’altra; mucche che si smarriscono; foche, anzi, come dice il santo, «le nostre giovani foche… allevate e nutrite» in un’isoletta vicina (cibo per gli ospiti, pelle, olio); salmoni «di dimensioni stupefacenti» che si offrono al santo; cinghiali bloccati dalle preghiere; mostri acquatici (proprio lui, il mostro di Loch Ness) respinti negli abissi; serpenti neutralizzati…

La storia più bella è raccontata nel capitolo 42 del primo libro, intitolato Prescienza e profezia del santo su una questione di minore importanza, ma così bella [appunto] che non credo possa essere taciuta. Un giorno, sempre a Iona, Columba chiama un fratello e gli dice: «La mattina del terzo giorno da questa data devi sederti e aspettare sulla costa dal lato occidentale di quest’isola, perché una gru, che è straniera in queste regioni settentrionali ed è stata spinta qui dai venti, verrà, stanca e affaticata, dopo l’ora nona, e si coricherà davanti a te sulla spiaggia, completamente esausta». Pertanto Columba incarica il monaco di trovare un ricovero adatto, dove l’animale (che il santo sa essere irlandese, conterraneo), nutrito, possa riprendersi e poi ripartire. Naturalmente, «come il santo aveva predetto, così avvenne». La gru arriva, stremata, viene raccolta («dolcemente»), curata, sfamata; infine si riprende e il terzo giorno (!) si alza in volo e «diresse la sua corsa attraverso il mare fino all’Irlanda, andando sempre dritto, come si vola in una giornata tranquilla».

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  1. Sentinelle sull’isola. Vita di san Columba d’Irlanda, Cuthberth di Farne e degli Abati di Jarrow, a cura di A.M. Osenga, Monasterium 2024.
  2. Lo stretto che separa Iona da Mull è assai presente nel testo di Adamnano, tanto che lui stesso comincia un capitolo con queste parole: «Una domenica si udì un forte grido oltre lo stretto, di cui parlo così spesso»…

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«Il monachesimo femminile» di Vincenza Musardo Talò

 Il corposo saggio di Vincenza Musardo Talò1 muove da un assunto subito esplicitamente dichiarato: «Ripercorrendo la storia del monachesimo femminile, dal paleocristiano a tutto il medioevo, la nota più interessante che ne emerge è quella di un fenomeno sostanzialmente autonomo dal monachesimo maschile». Quel «ripercorrendo» ha prodotto un volume stipato di informazioni – verrebbe da dire talvolta persino «ingolfato» di informazioni, profili, date, riferimenti – che accompagna passo passo il lettore nelle due stagioni fondamentali del fenomeno, separate piuttosto nettamente dall’avvento degli ordini mendicanti, quando il monastero femminile cessa di essere un luogo elitario di reclutamento quasi esclusivamente nobiliare se non addirittura regale.

La galleria di figure che scorre è lunga e multiforme: le vergini consacrate e le vedove che non si rimaritano (con tendenza al cenobitismo già alla fine del III secolo); le monache aristocratiche germaniche (che si portano in monastero i privilegi, e i beni, di nascita) e le sorelle dei monaci legislatori (Cesaria e Cesario di Arles, Scolastica e Benedetto, Fiorentina e Isidoro di Siviglia); le badesse principesse, le regine-sante e le «sante di famiglia»; le monache missionarie, le magistrae e le canonichesse, ecc.

Le abbazie femminili altomedievali sono luoghi strettamente legati al mondo circostante e spesso offrono «alla donna religiosa esperienze di potere impensabili al di fuori del monastero», esperienze che si estendono anche al di là delle mura claustrali e che tuttavia vanno scemando col passare del tempo, fino al movimento di rinnovamento benedettino tra XI e XII secolo in cui la partecipazione femminile è modesta, per non dire inesistente. I monaci delle nuove famiglie tendono a non farsi carico della cura d’anime delle monache; il prestigio economico-patrimoniale dei monasteri femminili è in calo; il reclutamento si apre a nuovi settori della società: tutto questo si salda con la persistente opinione che, «fatte salve tre sole categorie di donne, le vergini, le vedove e le madri [siamo ancora lì], tutto il resto dell’universo femminile era da identificare con il peccato e il diabolico». Certo, ci sono Eloisa, Ildegarda, ma né loro, né la letteratura cavalleresca, né la partecipazione delle donne a manifestazioni di religiosità laica, o alle crociate, né il recupero di certi diritti economici, né la riforma del matrimonio come sacramento, né le vicende di certe regine riescono a intaccare quell’opinione.

Ai margini dei tentativi di rinnovamento troviamo quindi le camaldolesi, le vallombrosane e le certosine, che pure condividono con i rami maschili la medesima ricerca di una nuova spiritualità; poi le cistercensi, tra le quali pure si annoverano personalità come Matilde di Magdeburgo, Matilde di Hackeborn e Gertrude di Helfta («La natura stessa della donna pareva non essere idonea alle nuove tensioni esistenziali e agli ideali di Cîteaux, un monachesimo virile…»); e poi ancora Fontevrault, Premontré, le gilbertine e gli ordini ospedalieri.

È con Chiara d’Assisi che «si chiude definitivamente il medioevo del monachesimo femminile»: «In quel tempo, quasi un fiume in piena, si mosse un esercito di donne nuove […] le recluse, le beghine e ancor più le claustrali degli ordini mendicanti, le cui case sorgono ovunque, su tutto il territorio della cristianità, trasformando il monachesimo femminile da un fenomeno di condizione elitaria a un movimento aperto, di tipo “borghese”, intendendo il termine nell’accezione propria di quel tempo». Si apre una nuova galleria: clarisse, domenicane, agostiniane, carmelitane, Serve di Maria, e ancora le recluse, le beghine propriamente dette, le umiliate, le pinzochere («Non di rado il termine pinzochera richiama un insieme di status diversi, cioè di condizioni mutevoli geograficamente e per formae vitae»: commissae, rendute, converse, offerte, donate, vestite. redente, devote, penitenti, contenenti, dimesse, mantellate, cordellate, terziarie…) – una galassia in espansione (con grande apprensione da parte dei maschi) che suscita tutt’oggi un certo stupore.

Da queste note troppo confuse si può forse cogliere anche il problema che talvolta può affliggere queste ricostruzioni molto estese temporalmente, che, come dicevo, ammassano grandi quantità di nozioni e che d’altra parte si rivelano appassionanti e utili per ripassare i grossi movimenti della storia, ammesso che esistano, e per individuarne le porzioni che si vorranno successivamente approfondire.

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  1. Vincenza Musardo Talò, Il monachesimo femminile. La vita delle donne religiose nell’Occidente medievale, San Paolo 2006.

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Guglielmo di Saint-Thierry, monaco-sempre-più-monaco

 L’accuratissima monografia di Ambrogio Piazzoni (un bel volume austero, a cominciare dalla veste tipografica, e che ho dovuto leggere munito di tagliacarte, essendo ancora intonso, cosa che, quando capita, meno raramente di quanto non si pensi, produce in me anche un certo deprecabile autocompiacimento, tra l’altro per il fatto di avere, tutt’oggi, un tagliacarte) mi ha permesso di avere un’idea un po’ più precisa della figura di Guglielmo di Saint-Thierry, nato a Liegi, cresciuto alla fede da studente presso la scuola cattedrale di Reims (nel primo decennio del XII secolo), vissuto monaco (e abate) benedettino (più o meno dal 1109 al 1135), morto monaco cisterciense (dal 1135 al 1148), forse col desiderio di «spostarsi» ancora, dai certosini («monaco-sempre-più-monaco», lo definisce Piazzoni). Precisa, insomma… Diciamo che l’ho incontrato molte volte nelle poche letture fatte, soprattutto in relazione a san Bernardo, e grazie a questo saggio1 ho aggiunto come si dice qualche tessera al mosaico. (Che poi qui cos’è se non un mosaico, talvolta davvero troppo informe?)

Il percorso biografico dice molto della personalità e dello sviluppo del pensiero di Guglielmo, e inoltre, come evidenzia subito l’autore: «La sua vita sembra riassumere, rappresentare e a volte precorrere la fase evolutiva vissuta dall’intero monachesimo nell’arco del secolo XII, certo uno dei più travagliati e decisivi della sua storia». Dove per «fase evolutiva» s’intende vera e propria crisi, crisi dell’ideale monastico, nel momento in cui Cluny raggiunge il suo apice e al tempo stesso un nuovo eremitismo e un movimento di ritorno alla Regola cercano di porre rimedio ai suoi «eccessi»: «Entrambi i tentativi, però, si mostrarono insufficienti. […] Le nuove istanze di tipo religioso infatti avranno una loro più puntuale risposta fuori dall’esperienza monastica, nei movimenti ereticali, in Domenico e soprattutto in Francesco; in questo senso si è potuto parlare di “fine del monachesimo” nel secolo XII». Di tutto ciò Guglielmo è un po’ l’emblema.

Un emblema «gentile», per quanto possa avere senso una formula del genere, che piace immaginare sempre preoccupato di quello che accade nel passaggio dalla teoria alla pratica. Dopo gli studi non superficiali, di cui comunque farà tesoro nella sua attività di scrittore, invece di dedicarsi a una prevedibile carriera di professore «scolastico», decide di farsi monaco benedettino; non è un gran viaggiatore, non lo sarà mai, e sceglie una fondazione non collegata a Cluny (Saint-Nicaise), prova a passare ai cisterciensi (dissuaso da Bernardo), ma finisce abate di Saint-Thierry, monastero che seguiva le consuetudini di Cluny; amante dello studio e della contemplazione, svolge un ruolo concreto di organizzatore del movimento riformatore sorto intorno ad alcuni capitoli degli abati benedettini della provincia di Reims, tenutisi tra il 1131 e il 1135 («Noi dichiariamo che abbiamo giurato non sulle consuetudini cluniacensi, ma sulla legge e sulla Regola di san Benedetto!» scrive nel 1132 in uno dei documenti emersi da quegli incontri); cauto e superprudente nell’esprimere le proprie non rimasticate opinioni, e finisce con lo scatenare Bernardo contro Abelardo, probabilmente al di là delle sue stesse intenzioni («Io gli ho voluto bene, e vorrei volergli bene»), rendendosi in qualche misura corresponsabile del «fattaccio di Sens»: la condanna e la scomunica di Abelardo del 1140.

Lo studio di Ambrogio Piazzoni ricostruisce questo percorso, seguendo parallelamente la stesura delle opere, dal De contemplando Deo e il De natura et dignitate amoris, all’Epistola ad fratres de Monte Dei (la cosiddetta Lettera d’oro ai certosini, il suo capolavoro), alla Vita Bernardis Claraevallensis abbatis, che, pur incentrata ovviamente su Bernardo, e pur incompiuta per la morte di Guglielmo, finisce «col divenire quasi un bilancio che l’autore traccia della propria vita». Un bilancio da cui traspare il senso, certo non di una sconfitta, tuttavia della consapevolezza dei limiti dell’ideale monastico, incarnato da Bernardo, amato e riaffermato da Guglielmo, radicalizzato dai certosini, ma forse non più l’unico a disposizione del cristiano che voglia seguire Gesù.

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  1. Ambrogio M. Piazzoni, Guglielmo di Saint-Thierry. Il declino dell’ideale monastico nel secolo XII, Istituto storico italiano per il Medio Evo 1988.

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Mete di pellegrinaggi e rifugi per sciagurati

 Sì, non posso negare che ci sia una punta di autocompiacimento quando prelevo dallo scaffale un volume comprato ancora letteralmente intonso1 qualche anno fa e mi dico: Oh, adesso mi leggo questo Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo2. L’autocompiacimento deriva, ahimè, dalla considerazione che non devono essere moltissimi i lettori odierni di questo libro, ma anche dalla conferma della sensazione avuta al momento dell’acquisto di: qui-dentro-ci-deve-essere-qualcosa-di-interessante. E difatti c’è.

L’autore, d. Angelo Gambasin (1926-1990), già ordinario di Storia moderna nella facoltà di Scienze politiche all’Università di Padova e di Storia della Chiesa nel Seminario vescovile di Padova, ha lasciato un ampio numero di ricerche di storia religiosa (con particolare riguardo al Veneto e al XIX secolo) basate su quella dedizione allo scavo archivistico inesausto che desta sempre gratitudine. In questo caso ha fatto un «salto» in Sicilia e si è letto gli atti (e tutta la documentazione «circostante») della congregazione dei vescovi siciliani, che si tenne dal 2 al 24 giugno 1850, «un avvenimento del tutto nuovo, essendo la prima volta dopo secoli, che si riunivano in una conferenza generale, con il placet del re, i pastori della chiesa siciliana».

All’interno di questo gigantesco «rapporto» sulla situazione del clero isolano, sulle relazioni interne e nei confronti della società civile; sui problemi, sulle continuità e sulle avvisaglie del cambiamento; sulle differenze tra città e campagna, ecc., non poteva mancare una sezione dedicata al clero regolare, e ad essa Gambasin riserva il paragrafo, Frati e monache, che apre il quinto capitolo (Devozioni e opere di carità) e che già dall’incipit promette bene: «In Sicilia le comunità e le case religiose costituivano “una parte considerevole” della società. Romitaggi, conventi e monasteri avevano scuole, gestivano opere di assistenza; erano forzieri dei patrimoni culturali e dei testi sacri, mete di pellegrinaggi e rifugi per sciagurati. […] Sui monasteri gravitavano, per motivi di interessi vari, impiegati contabili, maestri, artigiani, servi della gleba e personali, affittuari e massari, turme di mendicanti e di ricoverati».

Si comincia con qualche numero. A Palermo nel 1832 «i regolari stavano in rapporto di 1 per 227 abitanti» (in seconda posizione dietro Messina, 1 per 219), e nel 1845 le case erano 71; superate dalle 83 di Siracusa (1832) e dalle 99 di Agrigento (1828): «Ogni convento o monastero svolgeva un importante ruolo anche sociale: i francescani facevano elemosine ai poveri, custodivano i cimiteri e curavano l’istruzione elementare dei figli del popolo; i crociferi e camilliani si dedicavano all’assistenza degli ammalati; gli scolopi, i teatini e i gesuiti dirigevano collegi ed istituti di educazione per ceti nobili e borghesi; i passionisti, i gesuiti ed i cappuccini predicavano le missioni». Non mancavano anche gli eremiti: «In genere erano laici che vivevano di elemosine in luoghi remoti e inaccessibili», oggetto di venerazione da parte del popolo, di un certo fastidio da parte dei vescovi e di attenzione da parte dell’autorità – così si esprimeva un ispettore in una relazione del 1850 al prefetto di polizia di Palermo: «Io la interesso di impedire le questue alle quali ordinariamente si addicono i così detti eremiti, ed altri che per non voler muovere le braccia al travaglio, loro torna conto vivere nell’ozio, ed empire il ventre senza pena».

Già, la massa di relazioni sullo «stato delle cose» è imponente, tutti scrivono e al di là di frasi che suonano un po’ di circostanza sulle virtù del clero regolare, «magistrati, giudici, vescovi e visitatori regi e apostolici concordano nel ritenere che chiostri e monasteri precipitavano in un grave declino spirituale». Il quadro generale è abbastanza impressionante e coinvolge anche le case femminili: nei cenobi entra ormai chiunque (tanto un modo per uscire si trova una volta che ci si è impossessati di una prebenda); sfruttamento dei fratelli conversi per i lavori più umili; lotte fratricide, è il caso di dirlo, tra opposte fazioni in occasione di elezioni di superiori e abati; debiti, ozi, vagabondaggi, intrighi e continue «migrazioni dei frati da un convento all’altro», frati che, «per far quattrini, s’immischiano in affari secolari»; la «piaga» di offrire ai monasteri neonati o infanti e quella dei «conventini», cioè le comunità con meno di sei membri, quasi del tutto fuori controllo; il comportamento delle monache: «festaiolo e frivolo: parate carnavalesche per la vestizione, danze e feste con musica classica, acclamazioni comiziesche per l’elezione della superiora, libero e incontrollato accesso ai medici, domestici e sacerdoti», parlatori che restano aperti «fino a notte alta per danze, canti e balli»; reclutamento spregiudicato di bambine di età inferiore a sette anni, per carpire lasciti e donazioni o coprire il bisogno di cameriere e serve; «sordido mercimonio» tramite aste delle celle del monastero; «profuse spese di apparati, gelati, dolci, assai sconvenevoli in una religiosa funzione», sprechi per «candele, tappeti, abbellimenti di altari, e per la musica»; rilassamento generale, dispregio delle regole, nessun rispetto della clausura, eccessi gastronomici di ogni tipo, eccetera, eccetera.

È il 1850. I vescovi siciliani a fronte di tale sfacelo, non privo va detto di contraddizioni, auspicano e provano a impostare una riforma, andando incontro a forti opposizioni, non soltanto da parte dei diretti interessati, ma anche della corte napoletana e di quella… romana. La strada per arginare gli abusi, ripristinare la disciplina e l’osservanza delle regole si prefigura lunga e tortuosa… E poi, sedici anni dopo, arrivano le leggi del neonato Regno d’Italia: odiose, odiate e… provvidenziali?

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  1. Cosa ormai tanto singolare che la libraia ha inserito nel volume un foglio dove spiega il significato di «intonso» e che le «pagine appiccicate, chiuse» non sono un difetto.
  2. Angelo Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, introduzione di G. De Rosa, Edizioni di Storia e Letteratura 1979.

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Cose così semplici, così della vita di tutti (l’Epistolario di santa Teresa)

Se potessi incontrare uno dei monaci o delle monache del passato di cui leggo con insistenza i testi e le testimonianze non sarebbe san Bernardo o san Basilio, che in modi diversi mi annichilerebbero, né uno dei Padri del deserto, con i quali ci potrebbero essere delle oggettive difficoltà di comunicazione, bensì santa Teresa d’Avila, senza esitazione. Lo spunto per questa confessione un po’ ridicola me lo dà l’aver trovato su una benemerita bancarella una compatta edizione del suo Epistolario1. So già che sarà una lettura assai profittevole, a cominciare dalla bellissima introduzione del carmelitano scalzo Tomás Álvarez2, che, oltre a molte informazioni interessanti, sintetizza quell’aspetto fondamentale che, dottrina a parte, mi spinge a immaginare l’incontro impossibile.

Teresa comincia a scrivere avanti negli anni, non soltanto le grandi opere come il Cammino o il Castello, ma anche le lettere, perlomeno quelle che ci sono giunte, che coprono gli ultimi quindici anni della sua vita, dai 53 ai 67 (quando muore, nel 1582). Dopo un primo rodaggio, il carteggio diventa centrale nella sua vita quotidiana («Alla madre Teresa accadeva di starsene a sbrigare e scrivere lettere sino alle due del mattino, andava a letto a tale ora, pregando di svegliarla dopo due ore») e diventa uno strumento complesso di lavoro, di relazione, di amicizia, di espressione dei propri sentimenti: «Anzitutto ella scrive per comunicare se stessa: possiede un’anima umanamente aperta. Amica della solitudine, dirà lei, ma non meno bisognosa di “vasi comunicanti” a livello umano». E poi scrive per far nascere nuove fondazioni, comprare e vendere, discutere di problemi giuridici e di vocazioni, per selezionare priore e confortare consorelle, negoziare con la corte di Madrid e con Roma, regolare matrimoni, scambiare regali e ricette, ecc.

Teresa scrive sempre lettere «personali» e mai generiche («La premessa che regola e motiva il dialogo in ogni sua lettera è più elementare: “parliamo” della vita che viviamo»), su carta «generosa» nel formato (generalmente cm 31 x 21) e di qualità, le data con numeri romani, ma omette l’anno e le accade di confondersi («A questa lettera posi la data del 10 e invece mi pare che sia il 12»); le firma «Teresa di Gesù» e a volte aggiunge «carmelitana»; il testo quasi sempre autografo (solo quando è stanca o non sta bene si risolve a dettare) spesso prosegue oltre la firma con poscritti («Non è raro il caso in cui si aggiungono due o tre poscritti successivi: uno dopo la data, prima della firma, un altro a continuazione della firma, un altro infine ai margini, laterale o frontale», c’è sempre qualcosa in più da dire, la comunicazione non si chiude…); pone molta attenzione all’indirizzo, soprattutto quando il destinatario non appartiene alla cerchia più intima («Anche per il titolo di una lettera sarebbe necessario oggi che si facesse scuola»), tanto che capita che lo lasci in bianco («non lo metto per timore di sbagliare») e chieda ad altri di completarlo; le sigilla con il suo monogramma: le lettere JHS maiuscole e coronate da una croce sopra la H.

L’elenco dei destinatari ha la massima estensione immaginabile, dal re Filippo II al fratello Lorenzo e al nipote Lorenzino – e parliamo sempre delle lettere sopravvissute, perché interi carteggi sono andati dispersi e poi perduti (ad esempio quello con san Giovanni della Croce, perdita inestimabile), anche perché lei non conservava le lettere ricevute e molti autografi sono stati sforbiciati per ricavare compilazioni di frasi edificanti o reliquie da frammenti di carta recanti la sua firma («Ciò che quella donna mistica diceva nella maggior parte di esse era molto distante [dai suoi scritti spirituali], erano cose così semplici, così della vita di tutti che la reliquia di carta prevalse sul messaggio»). Quando il sospetto che la corrispondenza potesse essere intercettata e mettere in pericolo lei o i suoi corrispondenti, prestava enorme attenzione a corrieri e portalettere e ricorreva ai famosi «cifrari», in particolare con il p. Gracián, carmelitano: così i gesuiti diventano i «corvi», le carmelitane scalze le «farfalle», i carmelitani calzati i «gatti» o gli «uccelli notturni», san Giovanni della Croce «Seneca» e Gesù «il Vetraio»…

Quando i Carmeli crescono di numero si intensifica anche l’attività epistolare e «tutto ciò che forma la trama della vita quotidiana in un gruppo di religiose claustrali si assomma e fluisce attraverso il carteggio che va da un Carmelo all’altro», senza che questa mole di scambi metta in ombra la sua vocazione mistica o intralci la vita religiosa. Anzi – e l’aspetto fondamentale di cui dicevo è perfettamente riassunto in questa frase del p. Álvarez: «Proprio all’interno del gruppo monacale che ha riunito intorno alla sua persona, pone in moto uno stile di fraternità e convivenza che esige la comunicazione umana dotata della stessa forza della comunione negli ideali mistici. Ogni suo Carmelo è un gruppo di persone aperte verso le due dimensioni: la comunione mistica dell’ideale contemplativo e la comunione umana di ciascun giorno con le sue gioie, i suoi problemi e le sue occupazioni».

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  1. Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa, Epistolario, introduzione e note di T. Álvarez, traduzioni di L. Falcone e F. Puttini, Edizioni OCD 1982.
  2. Tomás Álvarez (Acevedo, 1923 – Burgos, 2018), entrato giovanissimo nell’Ordine del Carmelo Teresiano, è stato docente alla Pontificia Università Teologica del Teresianum dal 1950, ha curato l’edizione critica delle opere della Santa, di cui ha curato anche la pubblicazione in fac-simile degli autografi. Di lui, nel 2005, Jesús Castellano Cervera ha scritto: «La vocazione teologica di p. Tomás Álvarez si è orientata ben presto, e provvidenzialmente, verso lo studio di santa Teresa di Gesù. Egli è senz’altro non solo il più grande specialista vivente nella dottrina della Santa, prima Dottore della Chiesa, ma uno dei più grandi teresianisti della storia».

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Vicendevole aiuto (Andrea Boni, «Regole religiose di ieri e di oggi»)

 Per quanto il fascino che le Regole esercitano su di me sia essenzialmente di carattere morale o, per abbassare il tono dell’affermazione, sia legato all’aspetto che si può riassumere nella risposta al «che fare?», non mi sfugge di certo la loro preminente dimensione religiosa, e altrettanto non dovrebbe quella giuridica. Cosa significa sottomettersi a una Regola? Cosa ha comportato e comporta, da un punto di vista giuridico-istituzionale, emettere una professione religiosa, o emettere dei voti? Su questi aspetti mi ha ampiamente illuminato il volume di Andrea Boni, Regole religiose di ieri e di oggi1.

Devo ammettere che ho voluto sapere qualcosa dell’autore delle «tante faticate pagine» che ho letto, e così riporto in nota un breve sunto biografico del p. Andrea Boni, ofm2. Gli lascio la parola per una prima presentazione dell’opera, che dice già molto: «Per quanto ne sappiamo, il nostro lavoro è il primo di questo genere, e si pone come chiave di lettura della storia della vita religiosa attraverso i secoli. Si tratta di un lavoro, ovviamente, di taglio giuridico, che intende perseguire la verità giuridica dei fatti e delle cose, in contrapposizione a concezioni di altra natura, che, a nostro parere, hanno nuociuto, più di quanto abbiano cooperato, alla comprensione dell’evolversi della vita religiosa». I cinque capitoli dell’opera, resi piuttosto impegnativi, va detto, da una scrittura meticolosa e attenta a dissipare anche la minima ambiguità, affrontano in successione il fondamento evangelico delle «quattro grandi regole» (eremitica, monastica, canonicale e apostolica), la loro origine istituzionale, la loro struttura istituzionale, il loro valore strutturale e la loro posizione nell’ordinamento giuridico della Chiesa.

Non sono in grado di riassumere un testo sì denso, frutto palese dello studio di una vita, ma mi sono segnato alcuni punti che mi hanno permesso di capire meglio alcuni aspetti centrali della «faccenda» che tanto mi interessa.

  • Il fondamento della vita cristiana e della vita religiosa è evangelico e non ecclesiastico.
  • La vita religiosa in particolare, che risponde, successivamente al battesimo, a un’esigenza di pienezza di vita cristiana, «si qualifica come un patto di alleanza sponsale (contratto personalmente con Cristo) di conformazione di vita con la vita casta, povera e obbediente di Cristo», sulla base di Matteo 19, 21: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».
  • I voti emessi dal religioso sono un impegno davanti a Cristo, «non possono essere imposti coattivamente da parte di chicchessia», e rappresentano un atto di adorazione.
  • Cristo non si imita, bensì «si vive», e in sostanza gli si risponde (l’iniziativa è sempre di Dio: «Il discorso vocazionale è un discorso fortemente personale: “gli altri” non ci capiscono niente»).
  • «La vita religiosa non si sostituisce cronologicamente nella Chiesa alla testimonianza dei martiri, ma prorompe immediatamente dal Vangelo.»
  • L’appropriazione della vita eterna è messa in relazione con l’espropriazione della vita terrena (ai beni della vita terrena non si rinuncia semplicemente, ma li si elargisce).
  • Per quanto vi siano somiglianze, soprattutto nella dimensione ascetica, la vita religiosa è tutt’altra cosa rispetto ai «movimenti perfezionistici extra-cristiani»: «Si è religiosi solo per amore di Cristo!»
  • La vita religiosa è stata istituita da Cristo «a livello individuale» e l’organizzazione comunitaria della vita religiosa ne è una conseguenza. «La vita religiosa è nata a livello individuale. Prima si sono avuti i religiosi e poi la loro organizzazione comunitaria.»
  • «L’organizzazione comunitaria della vita religiosa è stata determinata dall’esigenza di un vicendevole aiuto tra i “religiosi” nella realizzazione del loro comune ideale di seguire Cristo» – il monastero non è un fine, è uno strumento, «la vita comunitaria non è fine a sé stessa».
  • Le conseguenze morali che derivano dall’associazione comunitaria (le Regole) sono conseguenze morali di ordine associativo e rispondono a tutt’altri criteri. «Non è ammissibile che si possa peccare mortalmente trasgredendo i precetti di una regola religiosa, data da un uomo e fatta propria da un Ordine, quando questi precetti comandano cose moralmente indifferenti, che con il conseguimento della salvezza non hanno proprio niente a che fare.»
  • La vita religiosa, storicamente, ha avuto queste «incarnazioni»: vergini consacrate, asceti e continenti, eremiti, monaci, canonici regolari, apostolici (apostolici, non mendicanti) e chierici regolari.
  • La transizione dalla struttura decentralizzata, ogni monastero è a sé (sui iuris), a quella centralizzata, ha dato origine agli Ordini veri e propri, come entità giuridica a sé stante.
  • Il «guaio», con gli Ordini, è che spesso si è scambiata la professione associativa con la professione religiosa vera e propria. Nel tempo, in relazione alla ratifica da parte della Chiesa della professione, tale professione «si è qualificata come tacita, ed espressa, semplice e solenne, temporanea e perpetua».

Direi che può bastare (per me senz’altro), anche per avere un’idea del livello del discorso del p. Boni (che, con piena evidenza, ha letto tutto quanto è stato scritto sulla materia), ma non potrò mai consigliare abbastanza, per chi volesse approfondire, il suo volume, purtroppo di non facilissima reperibilità.

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  1. Andrea Boni, Regole religiose di ieri e di oggi, in appendice le Regole di san Benedetto e di san Francesco, Edizioni Studium 1999.
  2. Nato nel 1927 a Vinca di Fivizzano, un «ridente paesello montano della Lunigiana», Andrea Boni veste il saio francescano nella Provincia Ligure nell’agosto 1944, emette la professione solenne nell’ottobre 1949 e viene ordinato sacerdote nel giugno 1952. Compie i suoi studi a Roma, presso il Pontificio Ateneo Antonianum nel 1956, e già dalla dissertazione di laurea gli vengono riconosciuti: «capacità di analisi e di sintesi, peculiare attenzione all’evoluzione storico-giuridica delle questioni, aderenza alle fonti, obiettività ed equilibrio nel giudicare, rigore nell’argomentare, chiarezza». Di nuovo a Roma dal 1964 entra nel corpo docente dell’Antonianum, come professore incaricato di diritto canonico, e vi resta per oltre 35 anni come professore ordinario, poi emerito, e ricoprendo vari uffici accademici. Oltre i molti incarichi svolti nell’ambito del suo Ordine, come membro di numerose commissioni, specialmente giuridiche, e del collegio dei consultori per le controversie deferite al Ministro Generale, è stato Consultore presso la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e presso il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. Ha pubblicato numerose opere giuridiche, «apportando significativi contributi specialmente in ordine alla dimensione giuridico-teologico-ecclesiale della vita consacrata a Dio, i cui importanti contenuti, spesso antesignani o addirittura “contro corrente”, oggi sono divenuti “patrimonio comune” della dottrina e, in un certo senso, anche autorevolmente avallati e corroborati dai più recenti Documenti del supremo Magistero sulla consacrazione di vita nei quali, a nostro sommesso parere, in più di un caso non solo ne è stato accolto lo spirito ma persino onorata la lettera». Rientrato infine nella sua Provincia, si ferma presso il convento della SS. Annunziata a Levanto, «dove si dedica a qualche attività di apostolato, ma soprattutto al lavoro manuale nella pineta». «Conclude il suo pellegrinaggio terreno» nel dicembre 2014 ed è sepolto nel cimitero di Vinca di Fivizzano.

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Radunati in un sol corpo (i Cistercensi)

 Dal punto di vista economico, l’Ordine cistercense rappresenta, nella pratica di quella che tocca chiamare «gestione quotidiana», un momento di rottura rispetto alla società feudale: conduzione diretta della proprietà fondiaria, ricorso al lavoro salariato, rifiuto delle decime e allineamento al movimento di autonomia comunale; mentre dal punto di vista istituzionale il documento fondativo dell’Ordine, la Charta Charitatis (la cui messa a punto copre un arco di tempo che va dal 1119 al 1165), rappresenta «la prima carta costituzionale europea di democrazia a partecipazione diretta», «un originalissimo organismo giuridico escogitato con l’intento di salvaguardare l’autonomia delle singole abbazie e, nello stesso tempo, di conservare l’unità dell’Ordine e l’uniformità della vita monastica».

Per conoscere un po’ più in dettaglio questi ed altri aspetti organizzativi, che, va ricordato, hanno la loro origine oltre che nello «spirito dei tempi», in una rinnovata volontà di adesione al dettato della Regola benedettina e soprattutto a quello del Nuovo Testamento, mi è stato di grande utilità il volume, ancorché di non facilissima reperibilità, di Federico Farina e Igino Vona1. Dopo aver riprodotto e commentato i due documenti fondamentali dell’Ordine, l’Exordium Parvum e, appunto, la Carta di Carità, i due studiosi ricostruiscono il concreto sviluppo della vita per così dire sociale dei Cistercensi facendo perno sui «due pilastri dell’organizzazione dell’Ordine», cioè la visita canonica dell’abate-padre alla casa-figlia, cioè la visita che l’abate di un’abbazia faceva regolarmente a tutti i monasteri che da quell’abbazia erano derivati per «filiazione», e sul Capitolo generale, cioè l’assemblea annuale degli abati di tutti i monasteri affiliati all’Ordine che si teneva a Cîteaux, il Novum monasterium, la culla dell’Ordine: con tutta evidenza i due studiosi, infatti, hanno esplorato minuziosamente gli immensi volumi degli Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis ab anno 1116 ad annum 1786, in cui sono raccolti e consegnati ai fortunati e interessati posteri i verbali e le decisioni di quelle assemblee…

Non posso, e non è molto intelligente, cercare di riassumere qui in poche righe ciò che è stato esposto con ordine e ampiezza di citazioni, ma vorrei almeno esprimere il senso di meraviglia che suscitano queste nozioni. Penso anzitutto alle dimensioni di quell’assemblea, ai numeri (ricordando che «il numero delle fondazioni cistercensi resta una caso unico nella storia»): «Gli abati [seduti in ordine cronologico di fondazione] che nel 1116 erano quattro [oltre a Cîteaux, La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond], salirono a dodici nel 1120, a quaranta nel 1130, a trecento nel 1150, con un crescendo sempre maggiore fino a sfiorare il migliaio nel periodo aureo della storia dell’Ordine» – e vogliamo pensare ai «problemi logistici» di tali consessi2… Penso ai viaggi che tale impostazione comportava, una ininterrotta circolazione continentale di persone che coprivano distanze ragguardevoli (gli abati più lontani potevano partecipare con scadenze diverse, fino a una volta ogni sette anni per gli abati di Palestina, Siria e Cipro), affrontando talvolta inconvenienti non piccoli e di cui c’è traccia nei verbali. E poi le conversazioni, di persone che parlavano la stessa lingua e che in quella lingua di certo discutevano di «cose divine»3, ma si scambiavano anche notizie e informazioni su come far «funzionare le cose»: noi abbiamo usato questa pianta, noi per cucire facciamo così, noialtri in cucina abbiamo adottato questo e quest’altro, le mele le conserviamo così, abbiamo scoperto che, il nostro maestro dei novizi procede in questo modo, ecc. ecc. O quando ad esempio un’abbazia ne fondava un’altra i monaci che si trasferivano nel nuovo sito si portavano dietro, oltre a regole e consuetudini, magari anche qualche pianticella, qualche seme o vitigno.4 Penso ancora all’espressione rituale con la quale si dava inizio al Capitolo: «Loquamur de Ordine nostro», parliamo del nostro Ordine, parliamo di noi, frase che peraltro era d’uso nei capitoli quotidiani delle singole abbazie e dalla quale traspare quella riservatezza e quel vago orgoglio di appartenere a qualcosa di nuovo di cui furono accusati.

Certo, molte, moltissime deliberazioni riguardano dispute e controversie, complicazioni in caso di rinunce, elezioni contestate, denunce e dimissioni, precedenze, diritti acquisiti, prerogative, antagonismi tra abbazie5, faccende tributarie, e così via. Quante volte la questione è introdotta da: «Il Capitolo generale è venuto a conoscenza che…» E lo stesso Capitolo vedrà ridursi il proprio potere e crescere ovunque problemi di ogni genere, e dopo verrà la decadenza. Dopo.

Ma come non guardare ancora oggi con estremo interesse a quello slancio iniziale, collettivo e unitario al tempo stesso? A quella singolare forma di «Prima Internazionale», a quella «presenza intessuta a tela di ragno», che fa dire ai due studiosi: «Senza peccare di irriverenza pensiamo che alla mirabile sintesi teologica ubi Petrus ibi Ecclesia, si possa aggiungere, in retrospettiva storica per la durata di oltre un secolo: ubi Ecclesia ibi Cistercium».

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  1. Federico Farina e Igino Vona, L’organizzazione dei Cistercensi nell’epoca feudale, prefazione di G. Andreotti, Edizioni Casamari 1988.
  2. «Una precisa e minuziosa prescrizione regolava il tempo di entrata nel monastero di Cîteaux, di permanenza (da due a cinque giorni), di partenza, prevedeva per ciascun abate un solo accompagnatore che non poteva essere un monaco ma un converso e due cavalcature, ad eccezione di Savigny che aveva il diritto a tre cavalcature.»
  3. «Già nel 116 “l’abate Stefano stabilì di convocare, in un giorno determinato, i pochi abati di Cîteaux, perché, radunati in un sol corpo, dall’incontro e dallo scambio di opinioni di tutti, formassero una sola anima, e, come all’inizio della Chiesa la moltitudine dei credenti era un cuor solo ed un’anima sola, così pure fosse sempre per i monaci cistercensi; e quantunque, poi, si fossero diffusi per tutto il mondo, facilmente, da questo incontro avrebbero potuto ritrovare la possibilità di pacificazione in caso di discordia”.»
  4. «I monasteri cistercensi, che godevano di larga autonomia di azione, furono in grado di adattarsi alle esigenze ed ai bisogni di vita dei vari paesi e, pur nella solitudine, riuscirono a dare un forte contributo e ad incidere sull’epoca come mai era riuscito a fare il monachesimo prima di allora.»
  5. «In modo particolare brillava di prestigio l’abate di Clairvaux che, godendo di una rappresentatività schiacciante ed esorbitante nei confronti delle altre filiazioni, si trovò ad esercitare una reale azione di guida per le altre e di controllo nei confronti dell’abate di Cîteaux.»

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