Nel frattempo ho portato a termine la lettura dei Discorsi ascetici di Isacco di Ninive, della «Prima collezione» s’intende. Mi ha accompagnato per parecchi mesi, frammista ad altre letture, ovviamente, ed è diventata quasi un sottofondo, una discreta musica costante. Può far sorridere, considerando la «musica» non di sottofondo nella quale si è oggi avvolti, ma trovo sia difficile esagerare la «bellezza» di questi testi, soprattutto se affrontati con slancio non «specialistico», così come è altrettanto difficile lodare eccessivamente l’edizione (la sensibilissima traduzione) che li ha resi disponibili al lettore italiano1.
Isacco, nato nella regione corrispondente all’attuale Qatar, brevemente vescovo di Ninive intorno al 680, prima e dopo monaco solitario e cenobita, divenuto cieco forse per l’eccesso di letture, era, secondo una notizia biografica assai più tarda, «mite, dolce e umile, e la sua parola era piena di tenerezza. Non mangiava nulla se non tre pani alla settimana insieme a un po’ di verdure, e non gustava cibi cotti».
Mite, dolce, umile, cieco, pieno di tenerezza – ma non per questo osservatore meno acuto della natura umana e conoscitore dei suoi sentieri; ed è proprio tale combinazione di bontà e lucidità che me l’ha fatto ascoltare così a lungo – è il caso di dirlo – con «incanto» (i suoi scritti, va ricordato, sono trascrizioni da parte dei suoi discepoli di discorsi effettivamente pronunciati). Il perché di questo incanto lo spiega meglio di me il curatore del volume, Sabino Chialà, quando si chiede come è possibile che Isacco parli con tale facilità «all’uomo e alla donna del XXI secolo»: perché «forse la franchezza, la sincerità e dunque l’autenticità di un’esperienza che, essendo profondamente radicata, emerge con parole che attraversano i tempi e gli spazi senza farsene oscurare, giungendo a noi come acqua limpida, appena uscita da quell’unica fonte che è capace di dissetare ogni essere umano». Isacco risponde, illustra, spiega, racconta, mostra, ricorda, avverte, consola, ammonisce, consiglia, incoraggia; Isacco, cioè, capisce e «capisce», senza che la seconda mossa diventi sommaria assoluzione, ma rimanga umana comprensione.
Inutile dire che ho sottolineato molto, nella speranza di memorizzare, o almeno di ritrovare (una nota di merito, in questo senso, all’«Indice dei temi più ricorrenti»). Ad esempio la fine osservazione psicologica che apre il Discorso XXIII: «Ogni realtà sensibile, sia azione sia parola, se non avviene in modo accidentale ma si ripete nel tempo, manifesta un qualcosa che è nascosto dentro». La forza o la debolezza della volontà non va infatti misurata da quello che si compie occasionalmente, dal casuale inciampo, bensì da ciò cui si torna più e più volte, perché «la libertà [della volontà] la si valuta in base alla persistenza di qualcosa». Oppure questa immagine tratta dal Discorso LXII: «La condotta di questo mondo assomiglia alla copiatura dei libri quando la pagina è ancora bianca, e dunque si può aggiungere e togliere ciò che si vuole e quando lo si desidera, mutando così ciò che vi è scritto». Finché non vi si appone il sigillo finale, «il libro della vita» può ancora essere corretto, «il nostro libro è nelle nostre mani». O ancora questa istantanea un po’ cruda, tratta dal Discorso LXIX, che fotografa la persistenza delle passioni: «Esse sono infatti come dei cani presso un macellaio, abituati a leccare il sangue: quando è loro sottratto ciò cui erano abituati, se ne stanno sulla porta abbaiando, fino a che la forza della loro abitudine di un tempo svanisce». E ancora questa breve nota dal Discorso LXXIV: «Non chiunque sia calmo è umile, ma chiunque è umile è anche calmo. Non esiste un umile che non sia modesto, ma di modesti che non sono umili ne troverai molti».
E così via, per oltre settecento pagine. Se tuttavia dovessi scegliere una parola, una sola, a mo’ di stemma, tornerei al Discorso XXVII, nel quale Isacco, tra le altre cose, ragiona su quella che sarà la pena dei «dannati», e dove coglie con poche e semplici parole una verità che mi pare trascenda qualsiasi fede si professi o non si professi nell’al di là o nell’al di qua: «Io dico che anche quanti saranno castigati nella geenna, saranno tormentati dalle piaghe dell’amore. Le piaghe che provengono dall’amore, cioè quelle di quanti sentono di aver mancato nell’amore sono dure e amare! Più dei tormenti che vengono dal timore! La sofferenza che sibila nel cuore perché si è mancato all’amore è più acuta di tutti i tormenti che vi possano essere».
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- Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Prima collezione, a cura di S. Chialà, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2021.
Buonasera. Vorrei sapere se questo libro è alla portata di tutti o se è difficile da leggere visto che sono molto attratto da questi scritti.
E poi conosce il libro L’oblio di sé di Pablo d’Ors?
Buonasera.
Sì, secondo me sì. Il tono di Isacco è sempre colloquiale. A parte alcuni testi, non molti, più lunghi, la maggior parte dei discorsi è breve, sono introdotti da un «argomento» e si possono leggere separatamente. Inoltre gli esempi sono sempre tratti dalla vita quotidiana, seppur del VII secolo. Quindi direi proprio che sono alla portata di tutti.
Di Pablo d’Ors ho letto soltanto la «Biografia del silenzio»; «L’oblio di sé» no: me lo consiglia?
Grazie e saluti.