Come ti scrivo una Vita di Cutberto

Nel Prologo della Vita Cuthberti di Beda, il Venerabile Beda, si può leggere una delle rarissime descrizioni di come veniva composta un’opera, in questo caso un’agiografia, nell’alto Medioevo. Non si può certo estendere a tutti i casi tale modello, ma gli studiosi sono inclini ad attribuirgli un certo grado di esemplarità.

Siamo intorno al 718 e la comunità dell’«isola santa» di Lindisfarne, nella persona della sua guida, il vescovo Eadfrith, chiede a Beda di scrivere una vita in prosa del grande Cuthbert, predecessore di Eadfrith, morto nel 687. Beda ne ha già scritta una, in versi, oltre dieci anni prima, ma accetta ugualmente.

Verso il 720 l’opera è compiuta, e Beda vi antepone una prefazione (praefationem aliquam), anch’essa su richiesta del vescovo, in cui ripercorre le fasi della stesura, ed è così che impariamo un sacco di cose interessanti. Beda si preoccupa anzitutto di precisare di non aver scritto nulla senza aver prima indagato rigorosamente i fatti e aver intervistato testimoni attendibili. Questa fase preliminare si è concretizzata in una serie di note (scedulas) che, raccolte in un opuscolo, Beda ha sottoposto ad alcune persone che conoscono bene la «materia», come il prete Herefrith e altri, accogliendone senza esitazioni le osservazioni («diligentemente ho emendato alcune cose secondo il loro giudizio»).

A questo punto il testo approda a una prima stesura chiara e distesa su pergamena, che Beda consegna alla comunità in modo che ciò che è falso possa essere corretto e il vero approvato (atque ad vestrae quoque fraternitatis praesentiam asportare curavi, quatinus vestrae auctoritatis iudicio vel emendarentur falsa, vel probarentur vera esse, quae scripta sunt). «La comunità di Lindisfarne dà così inizio a una lettura pubblica che dura due interi giorni, durante i quali ogni dettaglio viene attentamente esaminato e discusso»: una valutazione collettiva di anziani e maestri che si conclude con la consegna ufficiale del testo ai copisti.

In realtà i confratelli avrebbero indicato qualche mancanza e suggerito qualche possibile integrazione. Si trattava di episodi «certamente meritevoli di essere menzionati», commenta Beda, leggermente piccato, «se non fosse sembrato poco adeguato e corretto inserire nuovo materiale in un’opera già concepita e realizzata (deliberato ac perfecto operi)». La cosa era finita lì.

La frecciatina viene in parte smorzata dalla immediatamente successiva richiesta di intercessione, non senza tuttavia che Beda colga l’occasione per ricordare la rapidità con la quale aveva accettato l’incarico. È un piccolo capolavoro di retorica: «Ho pensato inoltre sia giusto ricordarvi ciò che coronerebbe la vostra eminenza: come io non ho tardato a eseguire con prontezza il compito che avete ritenuto affidare alla mia obbedienza, allo stesso modo non sarete lenti nel conferirmi il premio della vostra intercessione».

Devo questa lettura a uno studio di Franco De Vivo, che così conclude: con tutte le cautele possibili, questo racconto mostra come «nella coscienza dei contemporanei un [concetto di] testo “originale” vi fu, per quanto privo di quel carattere di ferrea e indiscutibile unicità che il senso comune tende oggi ad annettervi», e la prefazione di Beda ci dice come, «almeno nell’ambiente monastico, l’elaborazione di questo “originale” fosse oggetto di lunga e complessa negoziazione con la comunità dei suoi fruitori». Senza per altro che ciò ne sancisse la successiva intangibilità, «poiché la modificabilità era connaturata ai tempi e ai modi dell’editoria medievale», e tale provvisorietà rappresentava in fondo «la migliore garanzia della sopravvivenza del testo nel tempo».

(Franco De Vivo, Rappresentazione del lavoro intellettuale nei monasteri inglesi dell’alto medioevo, in Teoria e pratica del lavoro nel monachesimo altomedievale, Atti del convegno internazionale di studio, Roma-Subiaco, 7-9 giugno 2013, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo 2015, pp. 57-69 – un volume spaziale.)

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